(biografia estrapolata dal libro
Dai Veda a Kalki
di Tommaso Iorco
— aria nuova edizioni)
Sri Aurobindo nasce a Calcutta il 15 agosto 1872. A soli sette anni viene mandato in Inghilterra per compiere gli studi classici. Ricevute a Manchester le istruzioni scolastiche elementari, nel 1884 Sri Aurobindo dodicenne si trasferisce a Londra, dopo essere stato accettato presso uno dei piú prestigiosi college dell’epoca, il Saint Paul’s School. Il rettore dell’istituto è talmente sbalordito della sua padronanza del latino, che si offre di dargli personalmente lezioni di greco. Presso la Saint Paul il giovane riceve diversi premi per la sua non comune conoscenza delle lingue classiche. Poco per volta, però, i sussidi paterni incominciano a venire meno, sicché egli sperimenta la miseria, costretto a vivere al freddo in una squallidissima soffitta e a mangiare una sola volta al giorno (per di piú in modo assai frugale, talvolta un solo tramezzino).
Ma, grazie alla sua non comune intelligenza, nel 1889 riesce a guadagnarsi una borsa di studio e l’ammissione all’università di Cambridge, il celeberrimo King’s College, nel quale i docenti si meravigliano presto per le inusuali doti, in particolare la profondissima conoscenza del greco antico, di questo giovane indiano, che oltretutto parla con una perfetta dizione l’inglese e il francese ed è in grado di leggere Calderón, Dante e Goethe nelle rispettive lingue originali. Le pagelle (ancora oggi accuratamente custodite presso gli archivi del College) ci dicono che le sue materie preferite sono indubbiamente le lingue (in questo periodo inizia oltretutto a studiare il sanscrito, il bengali e lo hindustani), la poesia e la storia (sebbene pure la matematica gli risulti piuttosto congeniale). Sappiamo anche, dalle sue confessioni personali, che in quegli anni egli dedica la maggior parte del suo tempo alla lettura dei classici: i grandi poemi epici di Omero, le sublimi tragedie greche, il sommo Virgilio, la Divina Commedia, Shakespeare, Molière, Shelley, Cervantes, Goethe — tutto rigorosamente nell’originale —, dimostrando in tal modo un «vivo interesse per il pensiero e la letteratura europei», come egli stesso dirà. Davvero, non sapremmo dire che cosa sia sfuggito all’attenzione di questo giovane dall’intelligenza decisamente fuori dal comune, capace di ripetere a memoria — come testimoniano alcuni suoi coetanei dell’epoca — intere pagine lette una sola volta (proprio come Pico della Mirandola).
Una rivista scolastica gli pubblica le sue prime poesie in inglese: il quindicenne Sri Aurobindo è già in ascolto del «mormorio delle cose non visibili», come recita uno dei suoi primi versi. La poesia resterà sempre il suo canale espressivo preferito, quello a lui piú connaturato, che non abbandonerà mai — da autentico Vate.
Ma la sua attenzione si volge presto verso le gravi condizioni del suo paese, grazie a degli stralci di giornale inviatigli dal padre, che mostrano la crudeltà dei colonialisti inglesi verso il popolo indiano. Cosí, leggendo e rileggendo il poemetto di Shelley The Revolt of Islam, assieme agli scritti politici di Washington e di Mazzini e i documenti biografici su Giovanna d’Arco, il suo cuore s’infiamma per la liberazione del proprio paese, e un’oscura premonizione gli fa sentire che avrebbe dedicato tutta la propria vita a un’attività di tipo rivoluzionario. Di lí a poco, si affilia a una società segreta che mirava all’indipendenza dell’India, “Lotus and Dagger”, e pronuncia presso l’Indian Majlis (l’associazione degli studenti indiani a Cambridge, di cui diventa segretario) discorsi rivoluzionari talmente accesi da farsi mettere nella lista nera della polizia politica.
Nel novembre del 1892 il Maharaja di Baroda, trovatosi in Inghilterra per un viaggio, ha l'occasione di conoscere Sri Aurobindo e gli propone un lavoro presso l’università di Baroda. In tal modo, Sri Aurobindo ventenne, decisamente stanco di quell’ambiente ‘pruritano’ (come egli stesso non tarda a definirlo), s’imbarca per l’India.
Rientrato in patria nel febbraio del 1893, Sri Aurobindo si immerge con la medesima passione con cui aveva studiato il greco e il latino (ci siamo dimenticati di dire che in Inghilterra quasi tutti i primi premi per la versificazione greca e latina di quel periodo furono vinti da lui, assieme a qualche premio di letteratura e di storia), nello studio del sanscrito e del bengali (a cui si uniranno, con gli anni, lo hindi, l’urdu, lo hindustani, il gujarati, il marathi, il tamil). Il suo insegnante di bengali, il romanziere Dinendrakumar Ray, è talmente affascinato dai modi delicati di Sri Aurobindo, dal suo temperamento tranquillo e dolce, dalla sua gentilezza e riservatezza, che cosí annota nel suo diario: «Piú conosco la natura del suo cuore e piú mi convinco che Aurobindo non appartiene all’umanità di questa terra, ma è un dio esiliato. Solo il Signore sa perché sia stato esiliato in quest’India martoriata».
Ma la cosa piú importante è che, appena messo piede sul suolo indiano, iniziano per Sri Aurobindo una serie di esperienze interiori che non lo abbandoneranno mai piú: «Fin dal mio arrivo in India, la mia vita e il mio yoga hanno sempre appartenuto contemporaneamente ai due mondi — l’uno non ha mai escluso l’altro. Tutti gli interessi umani appartengono, mi pare, a questo mondo: per la maggior parte essi sono entrati nel mio orizzonte mentale, e alcuni, come la politica, anche nella mia vita. Ma contemporaneamente, fin da quando ho toccato il suolo indiano, sono incominciate una serie di esperienze spirituali che mi hanno lasciato una grande pace. Queste esperienze non erano affatto separate dalla coscienza della realtà di questo mondo, ma avevano al contrario infinite ripercussioni interiori sul mondo: come il sentimento dell’Infinito pervadente lo spazio e dell’Immanente dimorante negli oggetti materiali e nei corpi. Allo stesso tempo entravo in piani e mondi soprafisici i cui influssi e i cui effetti si facevano sentire sul piano materiale, cosicché mi fu impossibile fare nette divisioni o vedere contrapposizioni inconciliabili fra quelli che ho in seguito chiamato i due poli dell’esistenza — lo spirituale e il materiale — e tutto ciò che risiede fra questi due estremi. Per me, tutto è Brahman, e trovo il Divino dappertutto. Mi apparve subito chiaro che la cosa da fare era di cercare di stabilire la Coscienza Divina e il Potere Divino nel cuore dell’uomo e nella vita, non per ottenere una salvezza individuale, ma per creare una vita divina sulla terra».
In questi anni, trascorsi a Baroda (come docente universitario), Sri Aurobindo approfondisce le proprie conoscenze delle lingue, la letteratura, il popolo dolce e cordiale dell’India — e se ne innamora definitivamente. Evita espressamente la vita di corte, tanto da diventare una sorta di mistero per tutti, segretari, insegnanti, alunni. Presso la reggia c’è un certo Govind Sakharam Sardesai, che diventerà il piú accreditato storico marathi; nella biografia dedicata al Maharaja di Baroda, dirà di Sri Aurobindo: «Era una persona estremamente riservata e silenziosa. Quando gli si poneva una domanda, egli rispondeva semplicemente con un ‘sí’ o un ‘no’, senza aggiungere altro. C’era qualcosa del mistico in lui». La medesima impressione suscitò nella rivoluzionaria irlandese Margaret Noble, che lo conobbe in quel periodo (in occasione di una visita al Maharaja per motivi politici); nel mese di ottobre del 1902, lei annota in modo profetico sul proprio diario: «Sento in Sri Aurobindo una grande personalità spirituale. Egli mi pare un vulcano dormiente nell’afoso deserto del Gujarat, destinato a risvegliarsi molto presto».
In questo periodo, un suo ex compagno di scuola di Cambridge (tale Deshpande), diventato capo-redattore di un quotidiano, gli chiede di scrivere una serie di articoli sulla condizione dell’India, apparsi fra il 1893 e il 1894 che creeranno subito un enorme scompiglio: in essi, Sri Aurobindo attacca senza mezzi termini la «politica di accattonaggio» del Partito del Congresso, proclamando la necessità di una completa indipendenza dal governo di Sua Maestà, creando in tal modo un notevole imbarazzo fra i politici indiani dell’epoca, allora decisamente cauti e moderati, i quali — pur chiedendo maggiori autonomie agli inglesi — non avevano mai osato spingersi tanto oltre. Quando, poco dopo, il giornale riceve pressioni per abbassare il tono di questi articoli, sotto minaccia di sequestro, Sri Aurobindo smette di scriverli, poiché non è affatto disposto a chiedere per l’India nulla meno dell’indipendenza. Evidentemente, i tempi non si dimostrano ancora maturi per agire. Ma una prima pietra è stata lanciata nell’apatico stagno di questa immensa colonia inglese, provocando un primo sollevarsi di fanghiglia dai suoi fondali. Sri Aurobindo torna nell’ombra, e da lí continua a preparare la sua azione, e se stesso.
Intanto, presso l’università di Baroda, da docente di francese e inglese Sri Aurobindo è diventato vice-rettore. Il prof. Clerk, un docente inglese che in quegli anni insegna presso l’università di Baroda, dice di lui: «Se Giovanna d’Arco sentiva voci divine, gli occhi di Aurobindo percepiscono visioni divine». E, proprio come Giovanna d’Arco, Sri Aurobindo organizza (dal 1901) un movimento rivoluzionario che nel suo programma d’azione comprende l’insurrezione contro gli inglesi. Sicché, presto, gli diventa necessario congedarsi dall’università, quando si rivela opportuno trasferirsi a Calcutta, per potersi gettare nel cuore dell’agitazione politica. Sri Aurobindo si trasferisce a Calcutta nel 1906: «Finalmente l’azione diretta poté cominciare: mi volsi dunque in questa direzione, trascurando sempre piú l’attività clandestina». Qui, assieme a Rabindranath Tagore, fonda innanzitutto il National Education Council, in opposizione all’università britannica di Calcutta, e crea la prima università nazionale, il National College, presso la quale inizia anche a insegnare; parallelamente, porta avanti la lotta politica aperta contro gli inglesi. Uno tra i suoi piú cari e assidui compagni di lotta, il celebre Tilak, dice di lui: «Nessuno supera Aurobindo per senso di sacrificio, conoscenza e sincerità».
Sri Aurobindo scriverà molto… Innanzitutto poesia, ma anche prosa. Le sue maggiori opere in prosa risalgono principalmente agli anni compresi fra il 1914 e il 1921, in cui dirige una rivista filosofica bilingue (in francese e in inglese), dal titolo Arya, nella quale ogni mese si trova a riempire da solo ben sessantaquattro pagine. Fra i molti sottoscrittori entusiasti, in Europa e in India, citiamo il filosofo e matematico Dvijendranath Tagore (fratello del poeta Rabindranath, e in India altrettanto celebrato), il quale era solito dire che attendeva con impazienza l’uscita di ogni numero della rivista, convinto che «nessuno prima di Sri Aurobindo ha saputo rivelare questo nuovo messaggio. Vi trovo una sintesi senza precedenti dei Veda, della Gita e del Tantra». In questi articoli (per un totale di circa cinquemila pagine), poi raccolti in forma di libri, alcuni riveduti per l’occasione, risplende la sua visione del mondo e dell’evoluzione.
Smentendo le parole di Kipling, il quale aveva sentenziato che «Oriente e Occidente non si incontreranno mai», Sri Aurobindo precisa che, a ben vedere, «l’Oriente e l’Occidente hanno due modi diversi di vedere la vita, che sono le due facce di un’unica realtà. Fra la Verità pragmatica che il pensiero vitale dell’Europa moderna, innamorato del vigore della vita e di tutta la danza di Dio nella Natura, afferma con tanto veemente esclusivismo, e la Verità immutabile e eterna che il pensiero dell’India, sedotto dalla calma e dall’equilibrio, ama con uguale passione per perseguire le proprie esclusive scoperte, non c’è affatto divorzio, né quel contrasto sostenuti oggi dalla faziosità di pensiero, dalla ragione separatrice, dall’assorbente ardore di una volontà di realizzazione esclusiva. La Verità una, eterna e immutabile è lo Spirito: senza lo Spirito la verità pragmatica di un universo creatore di se stesso non avrebbe origine né fondamento, risulterebbe priva di senso, vuota d’indicazioni interiori e finirebbe per smarrirsi; si ridurrebbe a un fuoco d’artificio che esplode nel vuoto per dissolversi nell’aria. Ma la verità pragmatica non è un sogno del non esistente, un’illusione o un molle cadere nel futile delirio dell’immaginazione creativa: ciò equivarrebbe a ridurre lo Spirito a un ubriacone, a un sognatore vittima delle proprie gigantesche allucinazioni. Le verità dell’esistenza universale sono di due specie: le verità dello Spirito — come Lui eterne e immutabili (ma sono proprio queste verità a slanciarsi nel divenire, a realizzare incessantemente quaggiú i loro poteri e significati) — e le verità della coscienza che con loro gioca: dissonanze, variazioni musicali, esplorazioni d’ogni possibile, annotazioni progressive, inversioni, perversioni, conversioni ascendenti in forme di crescente armonia. Di tutte queste cose lo Spirito ha modellato, e rimodella di continuo, il proprio universo. Ma Egli rimodella se stesso, se stesso creatore e energia creatrice, causa, metodo e risultato dell’azione, meccanico e meccanismo, musica e musicista, poeta e poema, sopramentale, mente, vita e materia, Anima e Natura».
Il critico letterario Srinivasa Iyengar cosí scrive di Sri Aurobindo: «Maestro di molte lingue e maestro di molteplici conoscenze e di svariate discipline, egli è diventato negli anni della sua maturità un autentico ricercatore dell’Eternità, un mahapurusha, un mahayogi. Se si prende in considerazione unicamente il suo aspetto di poeta e saggista, Sri Aurobindo si situa fra i maestri insuperati della nostra epoca. Egli ha raggiunto un vertice di compimenti poetici senza confronti nei nostri tempi, oltre al fatto che è anche un grande maestro di prosa. Il pensiero che ha scolpito in opere monumentali quali The Life Divine, Essays on the Gita, The Synthesis of Yoga, The Human Cycle, The Ideal of Human Unity e The Future Poetry contengono una integralità che combina il lavoro laborioso del ricercatore, il fervore immaginativo del poeta e la visione creatrice del veggente». In effetti, gli scritti di Sri Aurobindo uniscono, a un potere di visione poetica che è il tratto fondamentale che li contraddistingue, una capacità di osservazione analitica tipica degli uomini di scienza e un acume di riflessione discriminante peculiare ai filosofi. «Gli scritti di Sri Aurobindo sono da considerarsi fra le opere piú importanti del nostro tempo. Egli stesso è uno dei piú grandi saggi della nostra epoca», ci dice il prof. Pitirim Sorokin della prestigiosa università di Harvard.
Riguardo alla poesia, che è il vero tesoro di quanto ci ha lasciato su carta, Sri Aurobindo si è cimentato con successo in tutti i generi principali: la poesia lirica, la poesia drammatica, la poesia epica.
Abbiamo un buon numero di liriche, composte per lo piú da sonetti, ma anche da qualche inno, da strofe libere, da poemetti, e perfino da diversi esperimenti metrici di grande interesse. La lingua prescelta è, per ovvie ragioni, l’inglese, sebbene esistano anche diverse sue composizioni in bengali, oltre a qualche sparuto frammento in greco, in francese, in sanscrito, e una brevissima lirica scritta in un italiano dal sapore lievemente arcaico (vedi il volume Poesie di Sri Aurobindo).
Per quanto riguarda la poesia drammatica, pure in questo ambito abbiamo un buon numero di testi teatrali scritti da Sri Aurobindo. Tralasciando i varî frammenti, citiamo, in ordine cronologico, I visir di Bassora, dramma in cinque atti scritto a Baroda all’inizio del secolo e ambientato nella celebre città portuale dell’antico impero persiano (culla della civilità mesopotamica); la tragedia Rodogune, in cinque atti, datata febbraio 1906 e ambientata ai tempi dell’egiziana regina Cleopatra, qui in veste di madre, accesa d’amore per i suoi due figli; Perseo il liberatore, dramma in cinque atti, ambientato in Siria, composto a Calcutta e pubblicato per la prima volta a puntate sulle colonne del Bandé Mataram (fra il mese di giugno e il mese di ottobre del 1907); e, per finire, due opere drammatiche scritte a Pondicherry: Erik, in cinque atti, ambientato tra i fiordi della Norvegia, la cui datazione si aggira intorno al 1912-1913; e Vasavadatta, dramma in cinque atti ambientato nell’India centrale un secolo dopo la battaglia di Kurukshetra, e realizzato nel volgere di pochissimi giorni, fra il 18 e il 30 ottobre del 1915 (riveduto, con altrettanta rapidità, tra l’8 e il 17 aprile 1916).
Passando all’epica, che è forse la forma poetica piú congeniale a Sri Aurobindo, egli scrisse fondamentalmente due opere; la prima consiste in un esperimento assai pregevole e per certi versi sbalorditivo in versi quantitativi, Ilion, ispirato alla guerra di Troia, iniziato nel 1909, di cui esistono nove dei presumibili dodici libri totali; la narrazione incomincia dal punto in cui Omero chiude l’Iliade, e narra gli eventi drammatici accorsi all’indomani della caduta di Troia. Composto in esametri dattilici, ovvero lo stesso metro utilizzato da Omero e Virgilio (ma anche da Orazio, Teocrito e Giovenale) per le loro rispettive epopee — a causa del suo particolare movimento ritmico, ampio e solenne, che lo rende estremamente congeniale per esprimere il tono epico —, tale poema cerca di infondere nella poesia inglese il ritmo vigoroso, incisivo e duttile delle lingue classiche.
La seconda epopea composta da Sri Aurobindo è la sua magnum opus per eccellenza, il suo capolavoro assoluto: Savitri, ispirato all’antica leggenda di Savitri e Satyavan, trasformata in un poema epico composto di tre parti, diviso in dodici libri contenenti quarantanove canti, per un totale di quasi ventiquattromila versi (23.837, per la precisione). Tale opera, scritta nell’arco di oltre tre decadi, è la suprema rivelazione, in termini poetici, della visione di Sri Aurobindo di una vita divina sulla terra, e del suo stesso lavoro. La vittoria di Savitri sul Signore della Morte, infatti, corrisponde alla liberazione dalle schiavitú cui la vita sulla terra è attualmente soggiogata, tramite il potere dell’Amore; Satyavan, l’essere che Savitri ama, rappresenta l’animo della terra, tratto dalla tomba della morte nella quale si trova attualmente imprigionato, onde attuare quella ierogamia fra cielo e terra che sarà il compimento ideale e lo sboccio naturale della manifestazione sopramentale nella materia. Savitri sposa cosí la causa stessa dell’evoluzione terrestre verso la propria gloriosa meta. Da notare oltretutto che, per Sri Aurobindo, è la donna che salva — lei che ha tutto sofferto, tutto sopportato nel corso di lunghi secoli bui d’ingiustizia e di crudeltà, potrà finalmente prendersi la sua meravigliosa rivincita su questa umanità dolorosamente al maschile, permettendoci di uscire dal freddo razionalismo chiuso in se stesso che ci attanaglia.
Concludiamo la breve rassegna delle opere di questo sublime Bardo con un giudizio che estrapoliamo dalle colonne del Times di Londra: «Di tutti i moderni scrittori indiani, Sri Aurobindo — contemporaneamente poeta, critico, saggista, filosofo, nazionalista, umanista — è il piú significativo e anche il piú interessante. Egli incarna un nuovo tipo di pensatore, combinando nella propria visione l’alacrità dell’Occidente con l’illuminazione dell’Oriente. Approfondire i suoi testi equivale a ampliare i limiti della propria conoscenza. Egli ha raggiunto una riconciliazione fra la Materia e lo Spirito. La sua ultima parola è che noi siamo, ci piaccia o no, "membri di un’unica famiglia". Finché non realizzeremo questa verità e non la renderemo operativa, non potrà esserci vera pace e prosperità sulla terra».
Ma Sri Aurobindo è stato anche e soprattutto un uomo d’azione. Ed è proprio questo elemento a farci sentire Sri Aurobindo cosí vicino a noi: egli non ha trascorso la propria esistenza rinchiuso in una torre d’avorio, segregato in qualche eremo tranquillo, al riparo delle difficoltà e delle mille contraddizioni della vita, assorto in contemplazione — nulla di tutto ciò; da autentico rivoluzionario, si è sempre battuto contro l’oppressione che, in varie forme, grava sull’umanità. E, come presto vedremo, egli arriverà a comprendere come tutte queste diverse forme d’oppressione non sono che le varie sfaccettature di una difficile svolta evolutiva verso cui l’umanità sempre piú rapidamente e inevitabilmente è diretta — e, da questa consapevolezza, deriverà, per Sri Aurobindo, la parallela comprensione del suo autentico lavoro, della giusta azione da compiere.
Fautore del movimento rivoluzionario per la liberazione dell’India dal giogo britannico già quindici anni prima di Gandhi («irraggiando da Capo Comorim allo Himalaya con l’effulgenza della sua luce», ci assicura il piú rinomato storico indiano, Pattabhi Sitaramayya), Sri Aurobindo ha in seguito intrapreso una rivoluzione ancora piú radicale, che riguarda l’evoluzione futura dell’uomo.
«L’UOMO È UN ESSERE DI TRANSIZIONE, NON È UN ESSERE FINALE; poiché nell’uomo, e alto sopra di lui, s’innalzano i radiosi gradini che ascendono a una divina sovraumanità. Là si trova il nostro destino e la chiave liberatrice per la nostra esistenza terrestre che aspira, ma che è inquieta e limitata. Il passaggio dall’uomo all’oltreuomo è il prossimo compimento, in via di avvicinamento, nell’evoluzione terrestre. È inevitabile, poiché è a un tempo l’intenzione dello Spirito interiore e la logica del processo della Natura. L’apparizione nel mondo materiale e animale della possibilità umana, fu la prima scintilla di una luce divina futura, la prima remota promessa di una divinità che doveva nascere nella materia. L’apparizione dell’oltreuomo nel mondo umano sarà il compimento di tale divina promessa. La sovraumanità non consiste certo in un uomo che si è arrampicato fino al suo zenit naturale, non consiste affatto in un livello piú alto di grandezza, conoscenza, intelligenza, volontà, carattere, forza dinamica, santità, amore, purezza, perfezione, potere o genio umani. Il sopramentale è qualcosa al di là dell’uomo mentale e dei suoi limiti. La grandezza dell’uomo non è tanto in ciò che egli è ma in ciò che egli rende possibile. La sua gloria consiste nell’essere il luogo recintato e il laboratorio segreto di un esperimento vivente in cui un divino Artigiano prepara la sovraumanità».
E notiamo come l’azione di Sri Aurobindo non si limiti affatto alla scrittura — i libri rappresentano soltanto una piccola parte del suo lavoro, un aspetto secondario e derivato. A lui non basta riconciliare Spirito e Materia sulla carta. Sapere che lo Spirito è o no di questo mondo, non fa una gran differenza, in fin dei conti, se la conoscenza dello Spirito non è accompagnata da un POTERE sulla vita. Ed è proprio questo potere, questo segreto d’azione che egli avrebbe a poco a poco riscoperto nel corso della propria esperienza, sulla propria pelle.
Sri Aurobindo perviene alla chiara visione che poi esporrà nei suoi libri non attraverso la deduzione ragionata e una disamina intellettuale del mondo e dell’evoluzione, bensí attraverso una serie di esperienze crescenti che lo conducono passo dopo passo a una straordinaria scoperta, di supremo valore pratico per la terra intera — per tutti noi. Egli, da reale pragmatico qual è sempre stato, ha incessantemente sostenuto che «la vera conoscenza non è quella che raggiungiamo attraverso il pensiero, ma quella che siamo, quella che diventiamo». Cerchiamo dunque di tracciare, per quanto possibile, le coordinate essenziali che gli hanno permesso di pervenire a tale scoperta, in modo da poterne poi capire meglio le sue implicazioni pratiche e la sua effettiva portata.
Tra il 1893, anno in cui fa ritorno in India, e il 1907, Sri Aurobindo ha tutta una serie di esperienze di piani soprafisici e approfondisce per via sperimentale l’intima connessione che tali piani di esistenza hanno con il nostro livello materiale. Si accorge infatti che quanto accade a livelli piú sottili (nei mondi vitali o mentali, per esempio), immancabilmente finisce per avere delle ripercussioni sul piano terrestre; con la conseguenza pratica che, imparando ad agire coscientemente e efficacemente nel sottile, si possono produrre dei risultati fin nel dominio piú denso, ovvero in quello materiale. Ma, soprattutto, in questi anni Sri Aurobindo realizza l’aspetto immanente del Divino, trovando — al centro del proprio sé — quell’Essere unico che dimora nella stanza piú intima e segreta dell’anima dell’uomo, scoprendo nel contempo che la coscienza non è esclusivo privilegio degli uomini, ma dell’intero esistente: «A mano a mano che progrediamo, risvegliandoci all’anima presente in noi quanto nelle cose, ci rendiamo conto che esiste una coscienza anche nelle piante, nei metalli, nell’atomo, nell’elettricità, in ogni aspetto insomma della natura fisica; e scopriamo anche che in realtà non si tratta, sotto nessun aspetto, di un mondo inferiore o piú limitato di quello della mente; al contrario, in molte forme cosiddette ‘inanimate’, la coscienza è piú intensa, piú scattante, piú acuta, anche se meno sviluppata in superficie».
A ben vedere, tutti i problemi sociali, come ad esempio quello ecologico, derivano da una ignoranza fondamentale, che consiste nel crederci separati da tutto il resto. Finché ci ostiniamo a restarcene rinserrati fra le anguste mura di questa separazione, giocoforza avremo un ‘ego’ che cercherà di accaparrare per sé, di sfruttare a proprio esclusivo vantaggio e beneficio ciò che lo circonda. E tingere questo atavico egoismo con qualche pennellata di moralismo non è che un palliativo che cambia soltanto, quando ci riesce, la facciata esterna dell’uomo. È solo prendendo coscienza dell’unità fondamentale di tutto l’esistente che abbiamo una reale percezione del giusto modo di agire, e non appiccicando sull’ego nozioni morali che non saranno mai in grado di risolvere il vero problema della nostra esistenza.
È bene comunque ribadire che Sri Aurobindo non fa queste esperienze in un monastero isolato, lontano dal mondo, ma nel bel mezzo della sua attività rivoluzionaria, dirigendo il quotidiano politico Bandé Mataram (che viene piú volte sequestrato e infine soppresso dal governo di Sua Maestà — i cui articoli venivano spesso riportati sul Times, provocando accesi dibattiti nel Parlamento inglese, e suscitando una certa ammirazione da parte del Presidente degli Stati Uniti Theodore Rooselvelt, come apprendiamo da talune cronache dell’epoca), insegnando presso la scuola nazionalista (fondata appositamente per contrastare i sistemi educativi inglesi), dirigendo il Partito Estremista (che rivendica la piena autonomia dal giogo britannico), organizzando centri di sommossa in tutto il paese e una vasta azione di sabotaggio delle derrate inglesi, e presiedendo i piú importanti congressi di quel periodo. Davvero, non si può immaginare un uomo piú attivo dello Sri Aurobindo di questi anni, coinvolto fino all’inverosimile nella lotta contro i cosiddetti ‘potenti’ di questa terra — che, d’altronde, egli vede sempre meglio essere essi stessi dei semplici burattini nelle mani di forze occulte, ragion per cui non incita mai all’odio, che considera peraltro un sentimento da deboli. Ecco cosa scrive ad esempio sulle colonne del Bandé Mataram: «Il nostro vero nemico non sta in una forza a noi estranea, ma nella nostra piagnucolosa debolezza, nella nostra viltà, nel nostro miope sentimentalismo. Non vedo proprio perché dovremmo scatenarci contro gli inglesi e gratificarli degli epiteti piú oltraggiosi. Certo, sarebbe bello vedere questi uomini volgere la sia pur minima attenzione, anziché al loro profitto, alle sorti del popolo indiano. Ma non abbiamo alcun diritto ad aspettarci nulla del genere. La sorta di gente che l’Inghilterra manda a governare in India è assai rozza e arrogante, composta da inglesi ordinari, tipici prodotti della classe media: dei ‘filistei economici’, secondo l’espressione anglosassone, dai sentimenti meschini e dall’abito mentale di bottegai. Non odiate il vostro nemico; se è debole, il vostro odio sarà inutile, se è forte, il vostro odio aumenterà la sua forza. Il nostro ideale di patriottismo si fonda sull’amore e sulla fratellanza e guarda al di là dell’unità della nazione, verso l’unità del genere umano. Ma è un’unione di fratelli e di uomini liberi quella che noi cerchiamo, non l’unità del servo e del padrone. È per l’umanità, non per se stessa, che l’India deve tornare libera e grande».
A un certo punto, però, per condurre in maniera ancora piú efficace i suoi intenti rivoluzionari, Sri Aurobindo sente il bisogno di acquisire una maggiore forza interiore e decide perciò di iniziare la pratica dello yoga — lui che aveva risposto, ai molti compagni di lotta che lo avevano invitato a praticare l’antichissima disciplina: «Uno yoga che esiga l’abbandono del mondo non fa per me… Una salvazione solitaria che lasci il mondo al suo destino m’è quasi disgustosa». Tutte le sue energie sono concentrate su un solo punto: «l’efficacia di qualsiasi mezzo utile alla lotta» — la lotta rivoluzionaria, s’intende. E tuttavia ci sbaglieremmo di grosso se pensassimo allo Sri Aurobindo rivoluzionario come a un esaltato o, peggio ancora, a un fanatico. Al contrario, tutti quelli che lo incontrano restano colpiti da «questo giovane tranquillo che con una sola parola fa tacere un’assemblea tumultuosa», come riferisce un suo contemporaneo. «È un vero tuono carico di fiamma, eppure dolce e delicato come il petalo di un fiore di loto», dice di lui Upadhyaya, un militante nazionalista che ebbe la ventura di lavorare al suo fianco. Il giornalista parlamentare inglese Henry Nevinson, che lo incontra personalmente proprio in quegli anni turbolenti, scrive: «È un uomo d’immensa cultura e possiede una natura estremamente amabile e cordiale. È la persona piú profondamente silenziosa che io abbia conosciuto, fatto della stoffa dei grandi sognatori — un sognatore capace però di realizzare le sue visioni nel mondo materiale».
E, per potere agire ancora piú efficacemente, Sri Aurobindo decide di rivolgersi a uno yogi, un certo Vishnu Bhaskar Lelé, allo scopo di ricevere precise istruzioni sulla pratica yogica. Ma Sri Aurobindo intende chiarirsi con Lelé, e come prima cosa gli dice: «Intendo fare lo yoga per lavorare, per agire, non per rinunciare al mondo o per raggiungere il Nirvana». La risposta di Lelé merita di essere ricordata: «Non le dovrebbe essere difficile, essendo un poeta». Pertanto, fra un impegno politico e l’altro, e il quotidiano da fare uscire ogni mattina, Sri Aurobindo riesce a ritirarsi per tre giorni interi in una stanza con Lelé. Lasciamo che sia lo stesso Sri Aurobindo a raccontarci come andarono i fatti. «Lelé mi disse: "Siediti e medita, senza pensare. Osserva soltanto la tua mente, e vedrai arrivare i pensieri da fuori. Respingili prima che vi entrino dentro, finché la tua mente sarà capace di un silenzio totale". Mai prima di allora avevo sentito che si potessero vedere i pensieri arrivare nella mente dall’esterno. Ma non ho voluto sollevare obiezioni a questa verità o possibilità: semplicemente, mi sono seduto e ho fatto come lui mi diceva. In un attimo la mia mente è diventata silenziosa come l’aria in cima a una montagna senza un alito di vento: a quel punto ho visto un pensiero e poi un altro arrivare concretamente dal di fuori. Li ho respinti prima che entrassero e si imponessero al mio cervello; in tre giorni fui libero. Da quel momento l’essere mentale in me è diventato un’intelligenza libera, una mente universale non limitata dalla ridda dei pensieri personali come un’ape operaia nell’alveare dei pensieri, bensí un ricettore della conoscenza discendente dai cento reami dell’essere, libero di scegliere a piacimento in quell’impero sterminato di visione, in quella distesa illimite di pensiero. Il risultato dell’incontro con Lelé fu una serie di esperienze terribilmente potenti, di radicali cambiamenti di coscienza a cui non avevo mai neanche pensato prima di allora, e che anzi rappresentavano l’esatto contrario delle mie idee. Esperienze che mi fecero vedere il mondo, con stupefacente intensità, come un film in cui le forme vagavano nell’impersonale universalità dell’Infinito».
Di colpo, Sri Aurobindo viene afferrato in alto, in uno stato di totale assenza di pensieri e inghiottito nel Nirvana, com’era successo al Buddha, duemilacinquecento anni prima. Ecco come lo stesso Sri Aurobindo ci descrive questo stato, con quella sua penna mirabile in cui la prosa è sempre animata da un soffio di poesia che fa vedere: «D’improvviso fui proiettato in alto, in una condizione senza pensieri, incontaminata da qualsiasi moto mentale o vitale. Non c’era piú ego, nessun mondo reale — solo un ‘qualcosa’ che guardando attraverso i sensi immobili percepiva o sosteneva nel suo assoluto silenzio un mondo di forme vuote. Non c’era né l’Uno né i Molti: ma esclusivamente e assolutamente Quello soltanto, senza forma né rapporti, puro, indescrivibile, impensabile, assoluto, eppure assolutamente e unicamente reale. Non si trattava di una realizzazione mentale, no, niente astrazioni: ma di una realtà positiva, l’unica realtà positiva (anche se di un mondo fisico senza spazio) che pervadeva, occupava, o piuttosto inondava e sommergeva questa sembianza di mondo fisico, non lasciando luogo né spazio per nessun’altra realtà all’infuori di se stesso, non consentendo assolutamente a nient’altro di apparire reale, positivo o sostanziale. Ciò che portava era una Pace inesprimibile, uno stupefacente Silenzio, un infinito di liberazione».
Questo, dunque, costituisce il secondo passo capitale nell’esperienza di Sri Aurobindo: il nirvana. Sri Aurobindo, restando in quello stato, continua caparbiamente la sua attività rivoluzionaria — pronuncia anzi una serie di discorsi particolarmente ispirati, nei quali accende l’entusiasmo dei suoi compatrioti, come lo storico discorso di Bombay, avvenuto pochi giorni dopo essere uscito dalla fatidica stanza. Barin, il fratello di Sri Aurobindo, ricorda che quando questi chiese a Lelé come avrebbe potuto tenere un discorso restando in quello stato di assoluto vuoto mentale, lo yogi gli rispose: «Non è necessario pensare. Resti calmo e aperto, lasciando che ogni cosa venga compiuta dal potere superiore. Una voce sorgerà in lei, le farà da guida e parlerà attraverso la sua bocca». E cosí infatti avvenne. Durante il discorso, Sri Aurobindo si rivolge ai militanti nazionalisti con queste parole: «Cercate di realizzare la Forza dentro di voi, e di manifestarla in modo che, qualunque cosa facciate, non si tratti piú della vostra azione, ma dell’azione della Forza. Giacché non sarete voi ad agire, ma qualcosa che è dentro di voi. Cosa potranno fare tutti i tribunali e tutti i poteri del mondo contro Quello che è in voi, l’Immortale, il Non-nato, l’Imperituro, che nessuna spada può ferire, nessun fuoco può bruciare? Nessuna galera può tenerLo rinchiuso, nessun patibolo ucciderLo. Che avrete da temere, se sarete coscienti di Colui che abita dentro di voi?».
E, continuando la descrizione di quel particolare stato, Sri Aurobindo aggiunge, parecchi anni dopo: «Contemporaneamente, qualcos’altro da me, all’interno della mia coscienza, si incaricava di ogni attività dinamica e creativa, parlando e agendo attraverso di me, senza che io vi partecipassi minimamente, né col pensiero, né con alcuna iniziativa personale. Un ‘qualcosa’ che rimase ignoto anche a me, finché mi resi conto che ero venuto in contatto con l’aspetto dinamico della Realtà suprema. Allora capii che tale aspetto dinamico preesisteva all’esperienza, sia pure inconsciamente, e che appunto questo mi aveva spinto a intraprendere la disciplina yogica, proprio come era all’origine di ogni mia attività».
Sicché, lentamente, il nirvana si tramuta in qualcosa d’altro: ciò che la Gita indica come “il Nirvana nel Brahman”, ovvero il Divino nel suo aspetto Trascendente — una trascendenza che, stavolta, non esclude alcunché. Lasciamo nuovamente la parola a Sri Aurobindo: «Ho vissuto per giorni e notti nel Nirvana prima che questo stato potesse cominciare anche lontanamente a ammettere in sé altre cose o la minima modificazione. Ma alla fine esso incominciò a dissolversi in una Sovracoscienza piú alta e piú vasta. L’aspetto illusorio del mondo lasciò il posto a un altro, in cui l’illusione era solo un piccolo fenomeno di superficie che aveva dietro di sé un’immensa Realtà divina: un’immensa Realtà divina al di sopra e un’immensa Realtà divina nel cuore di ogni cosa. Una Realtà che prima sembrava solo un’immagine cinematografica, un’ombra e basta. Tuttavia, non si trattava di un ritorno alla prigionia dei sensi, né di una diminuzione o caduta dall’esperienza; anzi, era un costante ampliarsi e elevarsi nella Verità. Il Nirvana, nella mia coscienza liberata, si rivelò l’inizio della realizzazione, un primo passo verso la sua completezza, non l’unico compimento possibile né il suo culmine finale».
Sri Aurobindo va dunque al di là del nirvana, in una coscienza ancora superiore, che comincia a includere il mondo e a restituire a esso la propria verità, la propria realtà divina. Come osserva lo swami Siddheswarananda, «Sri Aurobindo afferma che se la teoria dell’illusionismo è spinta al suo estremo, questa stessa teoria diventa illusoria; la vita, dunque, è vera, non è un’illusione; è divinamente vera, pregna di una feconda verità».
Ma, il 2 maggio del 1908, all’alba, la polizia britannica, pistola in pugno, viene a tirarlo giú dal letto; Sri Aurobindo ha trentasei anni. Un attentato contro un magistrato britannico è fallito qualche ora prima, a Calcutta. Ovviamente, Sri Aurobindo non c’entra per nulla con l’attentato fallito (al contrario, lui non si è mai stancato di ribadire che l’attività rivoluzionaria non ha niente a che vedere con il terrorismo), purtuttavia la polizia inglese spera in qualche modo di poterlo incriminare per togliersi di mezzo questo “pericoloso sovversivo”.
Sri Aurobindo subisce un processo, ma nel frattempo trascorre un intero anno nella prigione di Alipore in attesa del verdetto. E qui, nella malsana e angusta cella del carcere, egli vive un’altra serie di esperienze che lo avvicineranno ulteriormente al segreto che stiamo cercando di dipanare. Citiamo ancora una volta le sue parole, tratte dal primo discorso pubblico dopo la prigionia: «Non mi sento di raccontare ciò che mi accadde durante quell’isolamento forzato, se non che, un giorno dopo l’altro, Dio mi mostrò le Sue meraviglie. Un giorno dopo l’altro, durante i dodici mesi della mia prigionia, Egli mi diede la Conoscenza. Guardavo il carcere che mi isolava dagli uomini, e non erano piú quelle alte muraglie a imprigionarmi: no, era il Divino che mi circondava. Camminavo sotto la chioma dell’albero davanti alla mia cella, e quello non era piú un albero, era il Divino che se ne stava ritto in piedi a proteggermi alla sua ombra. Era Dio a farmi da guardia, a stare lí di sentinella per me. E mentre stavo disteso sulla ruvida coperta che mi avevano dato come giaciglio, sentivo attorno a me le braccia del mio Amico e del mio Amante. Guardavo i prigionieri nel carcere — era il Signore che vedevo in quei corpi. E una volta incominciato il processo, l’esperienza continuò. Guardavo il giudice: non era il magistrato che vedevo, era Dio assiso sul suo scranno. Non era il pubblico ministero, era il Signore che mi sorrideva dal fondo dell’aula». Sri Aurobindo sperimenta la terza esperienza fondamentale del suo yoga: la Coscienza Cosmica, la realizzazione del Divino Universale, in cui gli ultimi brandelli di percezione dell’irrealtà del mondo svaniscono totalmente, sostituiti dalla visione del Divino esistente dappertutto (pur conservando intatta la propria assoluta trascendenza, beninteso).
L’Immanente, il Trascendente, l’Universale, tre aspetti che per molti ricercatori costituiscono isolatamente una realizzazione completa in sé, sufficiente per fare riposare la propria anima in una esperienza liberatrice, per Sri Aurobindo risultano essere il trampolino di lancio di una realizzazione ancora piú alta, «l’inizio della piú alta Verità» che le supera e le include in una visione in grado di riconciliare l’Essere e il Divenire, l’Assoluto e la Manifestazione: è la Realtà suprema, che combina in sé la realtà statica e la realtà dinamica come i due aspetti del Divino. Sri Aurobindo ormai non deve piú attendere molto per accorgersi che tale percezione giunge nella sua pienezza solo con l’ingresso nei piú alti gradi della coscienza sopramentale, di cui per ora egli non ne riceve che frammentarî lampi sporadici.
Nel febbraio del 1910, a meno di un anno dall’assoluzione, Sri Aurobindo è avvertito da Margaret Noble che presto gli ufficiali britannici verranno ad arrestarlo e a deportarlo. Inizialmente egli non prende alcuna decisione, aspettando la voce della guida interiore. Di lì a poco, seguendo una precisa indicazione ricevuta dal Divino — si imbarca segretamente e, attraversando il Gange, lascia definitivamente l’India del nord, per trasferirsi nell’India francese — prima a Chandernagore, nel golfo del Bengala, poi, il 4 aprile del 1910, a Pondicherry, nel Tamil Nadu, dove si stabilirà ‘definitivamente’. Ed è proprio a Pondicherry, in questa sonnolenta colonia francese, che Sri Aurobindo troverà il vero segreto dell’azione.
Un ampio universo di attività gli si spalanca davanti, nel segreto di quella sua stanza dai muri sempre piú vanescenti. Per intanto, sappiamo che Sri Aurobindo, questo infaticabile esploratore della coscienza, come prima cosa si addentra in tutti i reami dell’essere, in alto come in basso: il sovracosciente, innanzitutto, ma anche il subliminale e il subcosciente.
L’esplorazione dei dominî del sovracosciente rappresenta quella che possiamo chiamare la via dell’ascesa. È il percorso battuto da tutti i grandi mistici dell’umanità, consistente nell’aprire un varco nella ristretta corazza che ci lega alla terrestrità e nel liberare la coscienza in alto, fino a raggiungere la piú alta trascendenza possibile.
Quella che invece può essere definita come la via della discesa, risulta decisamente meno battuta; in genere, ci si accontenta di mirare le beatitudini celesti, di svaporare in alto, di perdere ogni contatto con questo mondo che sembra condannato in eterno a appartenere alla sofferenza, alla divisione, all’ignoranza — al diavolo, insomma. «Questo sembra essere il punto d’arrivo di una linea d’esperienza che è stata seguita fino alle sue piú estreme conclusioni dal buddhismo, e un po’ meno rigorosamente da un certo tipo di spiritualità monista che ammette un qualche rapporto fra questo mondo e il Divino, ma che in ultima analisi continua a opporli, come verità e illusione». Eppure, se siamo scesi quaggiú, in questo mondo d’ignoranza, non è solo per poter tornare — un po’ malconci — al punto di partenza. Deve esserci un motivo inerente a questa discesa. Forse, la decisione di scendere è stata dettata da un preciso intento, al fine di trasformare le attuali condizioni della terra a immagine di quei cieli dai quali siamo discesi.
Sri Aurobindo esplora non soltanto i radiosi reami della sovracoscienza, ma anche il subcosciente, il subliminale e il circumcosciente. E non si creda che ciò non abbia conseguenze sul nostro piano materiale; al contrario, i riflessi sono immensi. «Se uno diventasse consapevole del proprio essere circumcosciente — egli scrive, per offrire un esempio —, sarebbe in grado di bloccare i pensieri, le passioni, le suggestioni e le forze della malattia, impedendo loro di entrare». Davvero, la moderna psicanalisi è solo un primo passo — incerto e presuntuoso — in un continente sterminato.
La mente, anche nei suoi voli piú alti, non può afferrare la verità totale dell’Essere. L’essere mentale, grazie ai suoi sforzi titanici, può talvolta ricevere qualche percezione della Conoscenza, ma la forma completa, luminosa, autentica del Sole di Verità, sfugge totalmente alle sue possibilità. Anziché cogliere la danza divina, libera, priva di sforzi e tensioni, sorridente e sovrana, la mente si dibatte nelle maglie inestricabili di verità e menzogna, di bene e male, di azione e inazione, di vizio e virtú. Il potere divino di un’azione libera, senza esitazioni, senza desiderio, gloriosa e trionfante, felice e appassionata, ebbra del vino dell’unità, della libertà, della conoscenza, del potere, non rientra nelle capacità della mente, che al contrario si esplica nella lotta e nello sforzo.
La sopramente essendo la Coscienza-di-Verità per antonomasia, conosce il perché del gioco cosmico, e opera alla sua trasformazione. Occorre pertanto calare progressivamente il principio sopramentale nella materia, portare i suoi gradi crescenti di intensità e di forza nell’inerzia della terra, sí da svegliarla dal torpore e svelare il Divino che essa contiene. È il lavoro di Sri Aurobindo, sintetizzato al massimo. Ma si tratta di una battaglia colossale contro tutte le resistenze della terra!
Ed è proprio a questo punto che entra in gioco… la Shakti. Sri Aurobindo ricorda: «Quando venni a Pondicherry mi divenne molto chiaro che cosa dovevo fare per realizzare la forza sopramentale. Seguii il percorso con risultati crescenti. Ma non sapevo come allargare ad altri la mia esperienza. Poi venne Mère, e con il suo aiuto trovai il metodo necessario».
Mère, la Madre, sarà Sri Aurobindo a chiamarla cosí. Dato che interi volumi non basterebbero a esaurire la biografia di quest’autentica Donna, il lettore perdonerà la brevità delle note che seguono, e vi porrà rimedio documentandosi adeguatamente. Nata a Parigi il 21 febbraio del 1878 (con il nome di Mirra), da padre turco e da madre egiziana, prima di incontrare fisicamente Sri Aurobindo aveva vissuto anche lei, per proprio conto, un’avventura della coscienza assai simile a quella di lui. Fin da bambina, a Mirra capitano delle ‘strane’ esperienze di natura psichica, spirituale e occulta, che lei riuscirà a spiegarsi compiutamente solo dopo i vent’anni, venendo in contatto con il buddhismo e la Bhagavad-Gita, e con alcuni personaggi fra i quali il mistico sufi Abdul Baha, l’intellettuale francese Paul Richard, e un occultista polacco piuttosto enigmatico, dotato di poteri davvero sorprendenti, che si faceva chiamare Max Théon, il quale viveva in una casa posta nel deserto algerino, in compagnia di sua moglie, Alma, una donna per certi versi ancora piú straordinaria di lui, originaria dell’isola di Wight.
Ecco come Mère stessa sintetizza gli eventi salienti della propria vita: «Intorno all’età di dodici-tredici anni, ho avuto una serie di esperienze psichiche e spirituali che mi hanno rivelato non solamente l’esistenza di Dio, ma la possibilità da parte dell’uomo di unirsi a Lui, di realizzarLo integralmente nella coscienza e nell’azione, di manifestarLo sulla terra in una vita divina. Questa consapevolezza, assieme a una disciplina pratica tendente a tale compimento, mi venne data, mentre il mio corpo era immerso nel sonno, da diversi istruttori, alcuni dei quali ho in seguito incontrato sul piano fisico. A un certo punto, con l’approfondimento dello sviluppo interiore e esteriore, la relazione psichica e spirituale con uno di questi esseri diventò sempre piú chiara e frequente; e, dato che all’epoca conoscevo un poco la filosofia indiana, a causa dei tratti indiani di questo essere, fui indotta a dargli il nome di Krishna; contemporaneamente, ebbi la certezza che con lui (che sapevo avrei incontrato un giorno sulla terra) l’opera divina sarebbe stata compiuta… Quando ho incontrato Sri Aurobindo per la prima volta, ho immediatamente riconosciuto l’essere che ormai conoscevo cosí bene e che corrispondeva al mio Krishna».
Mère incontra Sri Aurobindo per la prima volta (sul piano fisico, intendiamo!) a Pondicherry, il 29 marzo del 1914. Costretta a rientrare in Francia nel 1915 a causa dello scoppio della Grande Guerra, riesce a tornare in India passando per il Giappone (dove si trova obbligata a sostare per quattro lunghi anni, assai duri), finché finalmente, il 24 aprile del 1920, è di nuovo accanto a Sri Aurobindo, che non abbandonerà mai piú. «Mère — precisa Sri Aurobindo — ha aiutato e sta aiutando a dare una forma concreta al mio yoga. Senza la sua collaborazione, ciò non sarebbe stato possibile. Non esiste alcuna differenza fra il cammino di Mère e il mio; noi due abbiamo sempre percorso lo stesso sentiero, il sentiero che conduce alla trasformazione sopramentale e alla realizzazione divina; e questo non soltanto alla fine, ma dall’inizio». È chiaro che la “forma concreta” a cui Sri Aurobindo fa riferimento, è l’esperienza stessa di Mère, che culminerà in quella trasformazione della coscienza cellulare di cui la sua Agenda (tredici volumi di appunti e di confidenze intime, per un totale di circa seimila pagine) — questa «energia fusa… da cui nessuno uscirà indenne», come la definisce il quotidiano parigino Le Figaro — racconta le tappe. «L’Agenda di Mère presenta una sfida all’umanità — scrive The Statesman —: scomparire, oppure sopravvivere trasformandosi in una specie piú evoluta. C’è qualcosa di magico in quest’opera, come se avesse il potere misterioso di proiettarci in un mondo diverso, eppure assolutamente materiale». Ci troviamo di fronte a due incredibili pionieri dell’evoluzione, che hanno messo in moto la piú grande rivoluzione mai tentata.
Il lavoro di trasformazione consiste proprio nel calare il piú alto principio spirituale nel dominio piú basso, ovvero nella materia e nei suoi strati piú incoscienti. «Dopo la conquista di ogni cima dobbiamo scendere e portarne il potere e la luce nel mortale movimento giú in basso».
Per cambiare la vita, occorre innanzitutto avere potere sulla vita — un potere di coscienza in grado di dominare la mente, la vita, la materia. Il potere sopramentale, per l’appunto. «Cosí come il principio mentale si è stabilito sulla terra su una base di ignoranza che cerca la conoscenza e che si sviluppa nella conoscenza, allo stesso modo il principio sopramentale deve stabilirsi sulla terra su una base di Conoscenza che si sviluppa nella propria Luce piú grande». Questo è possibile attraverso una tripla trasformazione che, come abbiamo accennato, principia con il cambiamento animico (consistente nel diventare coscienti della nostra vera anima e accentrare l’intera nostra attuale natura attorno a essa, rendendola uno strumento della pura psyché), culminante nel cambiamento spirituale (attraverso la presa di coscienza del Sé cosmico e la discesa dei suoi poteri nell’intero nostro essere, fino a penetrare nei recessi piú segreti della vita e del corpo, e ancora piú giú, nell’oscurità del nostro incosciente — questo secondo stadio comprende anche il pieno sviluppo del metodo occulto, ossia la conoscenza dei piani di coscienza mentali, vitali e fisici, degli esseri e delle forze che vi abitano, e il loro dominio); infine, coronamento ultimo di tale processo, viene la trasmutazione sopramentale, mediante l’ascesa nella divina Coscienza-Forza e la sua discesa trasformatrice nel nostro essere e nella nostra natura.
Il lavoro della discesa consiste nel calare il piú alto principio sopramentale in tutte le regioni inferiori, fino ad arrivare all’ultima tana della morte e dell’ignoranza: il subconscio materiale. Ci si accorge innanzi tutto che la mente ha invaso l’intera nostra coscienza (al punto che nel linguaggio parlato spesso i due termini vengono usati come sinonimi, e molti di noi non saprebbero neppure distinguere l’una dall’altra): in tutta quanta la nostra struttura psicofisica, la mente la fa da padrona; esiste infatti una "mente vitale", sede delle più ancestrali pulsioni animali; ed esiste perfino una "mente fisica", che avvolge tutto il nostro corpo materiale come una membrana collante, estremamente compatta: è la nostra particolare ‘gabbia di cristallo’ nella quale stiamo piú o meno comodamente rinchiusi, come il pesciolino rosso nella sua angusta boccia di vetro. Generalmente noi crediamo di essere in contatto diretto con il nostro corpo, mentre in realtà lo siamo solo attraverso questo specchio convesso della mente fisica, che deforma ogni cosa e la avvolge nel pesante mantello scuro delle sue innumerevoli paure, della sua ossessiva ripetitività, delle sue immutabili leggi — tutto ciò che si trova oltre le anguste pareti di questa minuscola ampolla, è per lei del tutto privo di realtà, una allucinazione, e continuerà a ripetercelo e ripetercelo fino alla nausea. Una volta compiuta per intero quest’improba traversata, piú ardua di qualunque navigazione in mare aperto fra venti e tempeste, si sbocca, in ultimo, all’estremo rivestimento: una vera e propria "mente cellulare" che contiene il segreto della trasformazione del corpo.
Questo scopre Sri Aurobindo nella propria solitaria navigazione nell’Ignoto. Illustrando a un suo corrispondente tali gradazioni mentali, scrive in conclusione: «Esiste anche una mente oscura, una mente del corpo, anzi delle cellule, delle molecole, dei corpuscoli. Il materialista tedesco Haeckel ha parlato da qualche parte di una volontà dell’atomo, mentre la scienza piú recente, davanti alle imprevedibili variazioni individuali dell’elettrone, sta per accorgersi che quella di Haeckel non è una metafora, ma l’ombra proiettata da una segreta realtà. Questa mente corporea è del tutto reale, in senso tangibile: per la sua oscurità, il suo ostinato e meccanico attaccamento ai movimenti del passato, la sua facilità a dimenticare, il suo rifiuto di qualsiasi novità, è uno dei maggiori ostacoli all’infusione nel corpo della forza sopramentale e alla trasformazione del modo stesso di funzionare del corpo. Peraltro, una volta convertita davvero, tale mente corporea sarà uno dei piú preziosi strumenti per rendere stabili la luce e la forza sopramentali nella Natura materiale».
Sri Aurobindo traversa fino in fondo tutti questi spessori, fino a giungere al fondo dell’Abisso. Siamo nel 1926. Già nel 1923 aveva detto: «In questo momento sto lavorando a calare il sopramentale nella coscienza fisica fino al submateriale. Il fisico è per sua natura inerte, e non vuole saperne di diventare cosciente. Oppone una grande resistenza, perché non vuole cambiare. L’impressione è proprio quella di "scavare la terra", come dicono i Veda. È letteralmente come scavare dal sopramentale su in alto al sopramentale in basso. Sto cercando di calare il piú alto grado della sopramente nella coscienza fisica». Proseguendo in questa immane fatica, diventa a un certo punto necessario un movimento piú rapido. E, nel segreto della sua stanza, è un po’ piú libero di «elaborare le cose», come dice egli stesso in modo ellittico.
Il lavoro di Sri Aurobindo consiste nello ‘scavare’ negli strati psicologici della Materia per metterli uno dopo l’altro in contatto con l’aria pura di superficie. La cellula, potenzialmente immortale, è ricoperta da tutta una serie di strati che si sono venuti a sovrapporre nel corso dell’evoluzione, e che ne determinano la sua mortalità. La Materia, ci ripete in continuazione Sri Aurobindo, è fondamentalmente divina. «La nescienza della Materia è una coscienza velata, involuta o sonnambula, che contiene tutti i latenti poteri dello Spirito. In ogni particella, atomo, molecola e cellula della Materia vive nascosta e opera ignorata tutta l’onniscienza dell’Eterno e l’onnipotenza dell’Infinito». Al momento attuale, la Vita e la Mente sono sorti dalla Materia nel corso dell’evoluzione, ma quali meravigliosi segreti essa ci deve ancora svelare? Giacché «niente può evolvere dalla Materia che già non vi sia contenuto».
Tutto è presente da sempre; si tratta solo di renderlo manifesto. “Solo”… è una parola! Come è possibile rendere attivo, palese, operante, un potere di coscienza mai manifestatosi prima d’ora sulla terra? La prima necessità, è che il potere dominante smetta di essere determinante — è ovvio. Ecco perché Sri Aurobindo si è messo a ‘scavare’, per cercare le radici del condizionamento al quale la nostra specie umana è assoggettata. E cosí, intento a scavare e scavare senza sosta ("purgando la caligine del mondo", direbbe il sommo Dante) in quest’orrore di fango e di melma — immenso Abisso, nera voragine d’Incoscienza, regno del Caos e della Notte ove la Morte ha preso nascita —, Sri Aurobindo si trova catapultato, all’improvviso, senza però cadere in estasi, senza dissolversi in quella bianca infinità che risplende nuda sulle vette dell’Assoluto — vivo, cosciente, sveglio e a occhi bene aperti (forse addirittura spalancati per la commozione!), ritto in piedi su due gambe d’uomo, in quel «Sole che dimora nell’oscurità» che i veggenti vedici avevano intravisto… qualche migliaio di anni prima! Sí, il mondo solare, la coscienza suprema, divina, la forza sopramentale, qui, in fondo al corpo, nel centro stesso della materia: il Ponte glorioso fra la Terra e il Cielo.
Il Buio, il Male, la Menzogna, in realtà non esistono: solo la Luce esiste, l’unica Realtà al fondo di tutto. Dio-Spirito incontra Dio-Materia, la Gioia in alto si sposa con la Beatitudine in basso. «Cielo e Terra uguali e uniti», dice semplicemente il Rig Veda (vedi Il segreto dei Veda di Sri Aurobindo) — «La Materia, mezzo di tutta questa evoluzione, sembra incosciente e inanimata; ma ci appare cosí solo perché siamo incapaci di sentire la coscienza al di fuori di una certa gamma limitata, di una scala fissa o di uno spettro a cui abbiamo accesso. Sotto di noi si trovano zone inferiori a cui siamo insensibili e che chiamiamo subcoscienza o incoscienza. Al di sopra di noi ci sono zone superiori che rappresentano per la nostra natura inferiore un’irraggiungibile sovracoscienza. La difficoltà della Materia non consiste in un’incoscienza assoluta, ma in una coscienza limitata dal suo stesso movimento — cosciente di sé in modo vago, muto, cieco, incapace di rispondere adeguatamente a ciò che eccede la propria forma e le proprie forze. Al suo peggio potremmo chiamarla non tanto incoscienza quanto nescienza. Il risveglio di una maggiore e sempre crescente coscienza in questa nescienza è il miracolo dell’universo materiale. In ogni particella, atomo, molecola, cellula di Materia, vive nascosta e opera ignorata tutta l’onniscienza dell’Eterno e tutta l’onnipotenza dell’Infinito».
È estremamente interessante soffermarsi poi sulla risposta che Sri Aurobindo diede un giorno a chi gli chiese di fornire alcuni indizi pratici circa l’affermazione che le condizioni per la discesa della Coscienza-di-Verità, nell’epoca attuale, siano molto piú effettive di quanto non lo siano mai state nel passato. Ecco cosa risponde Sri Aurobindo: «Innanzitutto, la conoscenza del mondo fisico si è sviluppata al punto da essere quasi giunta a infrangere i suoi stessi limiti. In secondo luogo, c’è un tentativo nel mondo intero di strappare il velo che separa la mente interiore da quella esteriore, il vitale interiore da quello esteriore, e persino il fisico interiore da quello esteriore. Gli uomini stanno diventando piú ‘psichici’. Terzo, il mondo vitale sta cercando di porre la propria presa sul mondo fisico come non aveva mai fatto prima; ed è un fatto che ogni qualvolta la Verità piú alta scende, solleva il mondo vitale ostile in superficie, in modo da poter scorgere ogni genere di manifestazioni anormali, come un numero crescente di persone che diventano squilibrate, terremoti, ecc. Inoltre, il pianeta è diventato piú unito in conseguenza delle scoperte effettuate dalla scienza moderna: aerei, treni, telegrafo senza fili, e cosí via. Una simile unione è la condizione per la discesa della piú alta Verità e ne segna, nel contempo, la nostra difficoltà. Quarto, il proliferare di individui in grado di produrre tremende influenze vitali su un numero molto alto di persone. Questi sono alcuni segni indicanti che le condizioni terrestri attuali sono piú pronte rispetto al passato. Ovviamente, noi non conosciamo nulla circa le condizioni che si crearono nei tentativi passati. Ma nella misura in cui ci è dato vedere oggi, ci sono condizioni che ne garantiscono la riuscita».
Si era nel ‘lontano’ 1925 — questi segni si sono accresciuti notevolmente, da allora… Risulta sempre piú evidente, oggi, l’intima connessione che lega la nostra individualità al mondo intero. Gli scenari della trasformazione epocale in atto sono tutti interconnessi e interdipendenti fra loro: tecnologia, politica, cultura, arte, ecologia, medicina, scienza… Tutto ormai ruota come in una specie di vortice cosmico che sembra volerci rimpastare per una nuova figurazione mondiale. Questo è perciò il tempo della grande prova, e della grande svolta. Il tempo del grande pericolo, e della Grazia.
Davvero, è tutto sottosopra, in questo nostro mondo umano attuale. Un vero e proprio caos dal quale, magari quando meno ce lo aspettiamo, sorgerà una nuova armonia, l’Armonia SOPRAmentale e solare.
Tutti noi, in questa epoca buia, è come se stessimo attraversando collettivamente una fase iniziatica di discesa nel caos e di rinascita. Spesso, è proprio nei travagli del mondo attuale che si manifesta con piú chiarezza il senso profondo di ciò che sta avvenendo. «Forse il soffocamento dell’individuo è veramente la soffocazione del Dio nell’uomo».
«Questo nostro mondo materiale, oltre alle cose pienamente incarnate del presente, è popolato da ombre poderose, spettri di cose morte e spiriti di cose non ancora nate. Gli spettri delle cose morte sono delle realtà assai moleste e ora abbondano: spettri di religioni morte, di arti morte, di moralità morte, di teorie politiche morte, che pretendono di conservare i loro corpi in decomposizione o di animare in parte il corpo delle cose esistenti. Ripetendo ostinatamente le loro formule sacre del passato, ipnotizzano le menti retrograde e intimidiscono perfino la parte progressista dell’umanità. Ma esistono pure gli spiriti nascituri, per il momento incapaci di rivestire un corpo definito pur essendo già nati nella mente; questi ultimi esistono come influenze di cui la mente umana è consapevole e a cui essa risponde attualmente in modo confuso e disordinato». Eric Hobsbawn, considerato il piú grande storico del ventesimo secolo, sembra fare eco a tali parole quando scrive che «se l’umanità deve avere un futuro nel quale riconoscersi, non potrà averlo prolungando il passato o il presente. Se cerchiamo di costruire il terzo millennio su questa base, falliremo. E il prezzo del fallimento… è il buio».
È tempo di QUALCOSA D’ALTRO. Come lo stesso Sri Aurobindo profetizza nell’epopea Savitri:
«Quando il buio sarà fondo, strozzando il petto terrestre,
e la mente del corpo sarà la sola lampada,
come un ladro di notte a silenziosi passi
verrà Colui che, non visto, penetra nella dimora.
Parlerà Voce negletta, l’anima le obbedirà,
nella stanza della mente s’infiltrerà un Potere,
della vita un dolce incanto aprirà le porte chiuse,
la beltà sul resistere del mondo trionferà,
lesta la luce del Vero catturerà la Natura,
una mossa del Divino spingerà i cuori alla gioia
e la terra divina sarà, senz’aspettarselo.»