a cura di Tommaso Iorco
(autore tutelato S.I.A.E.)
«L’arte dell’avvenire dovrà apparire come scienza dello spirito,
essendo l’opera d’arte la rivelazione di esso».
Giovanni Segantini, da Così penso e sento la natura (gennaio 1891)
Agli inizi del XX secolo, molti presero a interrogarsi sul senso dell’arte e della poesia nel mondo attuale. Ovviamente, le riflessioni più illuminanti sono quelle prodotte dagli artisti stessi, quando capita che essi scrivano sul senso dell’arte. Due di essi, l’immenso Sri Aurobindo e l’italiano Arturo Onofri, hanno prodotto trattati notevolissimi sull’arte poetica, che meritano la nostra più grande attenzione per la profondità e la lungimiranza delle analisi contenute.
Tra il 1917 e il 1920 venne pubblicato, a puntate su una rivista filosofica bilingue (in inglese e in traduzione francese) che ebbe larga diffusione in Europa e in India, un saggio di Sri Aurobindo sulla poesia futura, in seguito raccolto in forma di libro, dal titolo The Future Poetry. Qualche anno dopo, nel 1925, Arturo Onofri pubblicò il proprio saggio sul medesimo argomento: Nuovo rinascimento come arte dell’Io.
Ribaltando la linea cronologica delle due pubblicazioni, viene più consequenziale esaminare prima il saggio di Onofri — più immaturo, più circoscritto, più provvisorio — e di seguito quello di Sri Aurobindo, per offrire una pregnante sintesi delle caratteristiche salienti della poesia che sta iniziando (sia pur timidamente), a manifestarsi ai giorni nostri attraverso la penna ispirata di qualche sparuto poeta baciato dalle Muse dell’avvenire. In questa luce, come si vedrà, le speculazioni onofriane si rivelano, per certi versi, una introduzione ideale al saggio di Sri Aurobindo, assai più profondo e complesso.
Nuovo rinascimento come arte dell’Io (9 capitoli, 208 pagine totali)
Il primo capitolo — Arte antica e arte moderna —, cerca anzitutto di fissare la distinzione fra l’artista pre-rinascimentale e quello moderno.
«A differenza dell’antica, l’arte moderna deve prender coscienza del suo nuovo compito, se vuole realmente eseguirlo. Questo è il punto. Non si potrà più parlare di veri artisti ingenui, fanciulleschi, inconsci. Ciò non è possibile per il presente, e tanto meno lo sarà per l’avvenire».
Questo è il motivo per cui l’artista moderno si pone in più o meno aperto conflitto con la tradizione, cercando di creare, il più delle volte in modo maldestro e goffo, qualcosa di radicalmente diverso.
«Non è più possibile rivolgersi al passato e alla tradizione, per derivarne, magari come seguito, una spinta efficace alla creazione d’arte. E che alcuni artisti siano caduti nel tranello di negarle, dimostra soltanto che spesso le migliori intenzioni sono quelle che conducono all’opposto».
L’artista antico era in spontanea simbiosi con la natura e con il sacro, quindi produrre opere d’arte ispirate era quasi un atto istintivo per lui (oltre al fatto che condivideva con il suo prossimo una tradizione collettiva ben determinata e accettata — bongré malgré — pressoché da tutti), mentre l’artista moderno, liberandosi — com’era doveroso — da ogni dogma e da ogni assunzione aprioristica, e avendo sviluppato la mente razionale fino alle sue più estreme conseguenze, deve giocoforza approdare a una spiritualità realizzata in modo vivo e cosciente, priva di ogni forma preconfezionata di credo, se vuole raggiungere la bellezza sovrarazionale e avere qualche speranza di esprimerla efficacemente.
«L’arte d’oggi è nata e nasce dallo sforzo che l’artista fa per mutare la costituzione dell’anima sua, attraverso il suo interiore lavorio individuale. E questo sforzo è tanto più creativo quanto più consapevole. Siamo giunti al punto in cui l’artista, se vuole efficacemente proseguire il suo sforzo creativo, deve prenderne coscienza in modo decisivo; deve trovare addirittura il metodo della sua individuale trasformazione progressiva verso la diretta comunione con la spiritualità cosmica. […] Si sta trasformando l’intera costituzione dell’anima artistica, la quale, invece di guardare ancora verso il proprio passato, è ormai costretta non solo a guardare, ma a lavorare consciamente al proprio avvenire. […] Noi conosceremo lo Spirito organicamente, quale vita reale, non lo penseremo più solamente per via di concetti filosofici».
Per precisare il concetto, e facendo ricorso a una pregnante analogia, Onofri indica la differenza fra l’artista antico e quello moderno:
«Come il bambino nell’utero materno vive della stessa vita della madre, ancora tutt’uno con lei, ma appunto perché è tutt’uno con lei, non può averne alcuna coscienza, perché non ha ancora una personalità sua, indipendente da quella della madre, così noi siamo dovuti uscire dal grembo della realtà divina, appunto per imparare a conoscerla in quanto esseri umani indipendenti da lei, e per questa via dobbiamo ora riconquistarla in noi stessi.
Dunque una concezione cosmica che s’interiora nel sangue è una concezione che non si limita ad occupare l’intelletto umano in funzione di concettualità, ma trasforma e plasma, a sua propria stregua, l’interno essere dell’uomo, modificandone, oltre ai pensieri, anche le passioni, le abitudini, le convinzioni profonde e gli atteggiamenti spontanei nei rapporti umani, sia pratici sia di sentimento. È interiorata nel sangue quella concezione del mondo che in certo modo non ha più bisogno d’essere pensata intellettualmente per esistere nell’interno dell’uomo, ma è presente nella funzionalità attiva degli organi (anche fisici), in tutta la costituzione d’insieme dell’uomo stesso, nella sua viva realtà spirituale, animica e corporea. […] L’uomo dovrà diventar conscio in sé medesimo dell’elemento divino del mondo».
Non ci interessano qui le considerazioni dell’Onofri cristiano (e per giunta antroposofico), che volutamente tralasciamo e per le quali rimandiamo semmai alla lettura integrale del testo, bensì le verità universali che egli addita, che travalicano ogni confessione religiosa e possono, in quanto tali, essere condivise da tutti.
«La differenza essenziale, dunque, fra arte antica e moderna è questa: che l’arte antica si attuava in quanto l’artista si disponeva in uno stato di accoglimento soprattutto passivo e inconscio; quella odierna esige, e sempre più esigerà, dall’artista uno stato di iniziativa interiore e di attività individuale che tenda all’auto-trasformazione cosciente dell’uomo-artista».
Fatta questa precisazione preliminare, Onofri passa, nel secondo capitolo — La coscienza critica dentro l’opera d’arte — a esaminare più dettagliatamente la specificità dell’artista moderno e del difficile compito che si trova a dover affrontare.
«L’artista d’oggi non può non lavorare strenuamente con la sua coscienza e sulla sua coscienza, se vuole ritrovare le sorgenti della creazione artistica. Così egli arriva a comprendere di poter oggi realizzarsi artisticamente in proporzione di quanto riesce a realizzare (in sé uomo) la consapevolezza della spiritualità reale che vive in lui, nei suoi stessi sforzi d’uomo e d’artista, come anche nell’universo. […]
Non è più l’elemento irrazionale (o prefilosofico) quello che costituisce l’essenza dell’arte, come moltissimi ancora opinano, bensì un elemento ultra-razionale, post-filosofico, che vuole sorgere dall’interna coscienza dell’uomo odierno. Fra l’antica arte irrazionale e la nuova arte ultra-razionale c’è, già oggi, un vero e proprio conflitto, e chi scrive ne sa qualche cosa».
In effetti, l’intera produzione poetica di Arturo Onofri (anche e soprattutto quella successiva al saggio in questione) è un tentativo — il più delle volte inefficace, ma in qualche rara occasione sublime e, in ogni caso, sempre sincero e lodevolissimo — di risolvere il conflitto.
A ben vedere, tutta quanta la produzione artistica del XX secolo — non solo in poesia, ma anche nel dominio della pittura e della scultura, dell’architettura, della musica — riproduce questo penoso travaglio, questo tentativo di dare nascita a un nuovo sole illuminante di creatività artistica. Sebbene, per poterne scorgere l’aurora — lo vedremo con Sri Aurobindo — dobbiamo imparare a guardare nella giusta direzione: giacché, mentre i cieli occidentali sono ancora immersi nelle tenebre, i primi lucori già si intravedono a Oriente.
«Ecco che il duplice aspetto della nuova artisticità si manifesta simultaneamente: da una parte un’assoluta interiorità, e dall’altra un continuo prender coscienza della trasformazione vivente di questa interiorità, per manifestarla all’esterno adeguatamente, in un articolato divenire, che sia, nella tecnica artistica, la “forma” stessa dell’opera d’arte. […]
Non già, dunque, che l’artista non debba più guardare all’esterno, e debba negarlo o disinteressarsene. […] Gli esseri e i fatti del mondo circostante non sono più che le viventi immagini della sua ampliata interiorità: della sua interiorità cosmica. Ma prima egli deve aver trasformato se stesso e il suo sangue, mercé la superiore coscienza del cosmo, e precisamente mercé una coscienza dell’universo spirituale come di una unitaria gerarchia di esseri spirituali. Allora,dentro l’opera d’arte, vive ed opera la coscienza stessa dell’artista».
Per poter apprezzare una simile opera d’arte, ovviamente, il critico stesso — e più in generale il fruitore di tale opera — deve avere accesso, in una qualche misura, a quella stessa dimensione spirituale, pena l’incomprensione.
«Da ciò si comprende come la critica di un’opera non può essere fatta se non a questa condizione: che il critico non solo partecipi all’evento che s’è svolto nell’artista, ma sia in grado di osservarlo criticamente (e quindi valutarlo) dentro la propria interiorità cosciente. Altrimenti il fatto artistico o viene respinto, o viene più o meno passivamente subìto, vissuto, ma non conosciuto, compreso».
Come ben sapevano gli esteti indiani, il ‘sapore’ (rasa) di un’opera d’arte non può essere efficacemente gustato (rasasvàdana) da colui che non ne ha la competenza, raggiunta mediante un atto di immedesimazione e di identità interiore che è la conditio sina qua non del critico capace di goderne (rasika).
«Ed è perciò che l’artista antico poteva ricevere e plasmare l’ispirazione senza conoscerla nel suo intimo significato umano cosmicamente auto-conoscitivo, perché era il cosmo che operava d’iniziativa nell’uomo. L’artista moderno non può più trovarla così, perché appunto l’uomo è adesso chiamato a operare d’iniziativa nel cosmo. L’uomo vuol essere ormai libero nell’universo. Egli sta diventando spiritualmente maggiorenne: una adulta coscienza».
Pochissimi, nell’Occidente moderno, hanno saputo esprimere una visione altrettanto precisa e profonda della realtà e dell’arte. Eppure, il saggio onofriano è, oggi, praticamente sconosciuto. In verità la cosa non ci stupisce, giacché l’arte moderna è ancora troppo oscuramente alla ricerca di se stessa, così come troppo oscuramente alla ricerca di se stesso è l’uomo (artista o meno).
«Ciò spiega anche perché la maggior parte delle opere d’arte odierne, nel loro intimo contenuto, non solo presentano errori, sforzi, deformazioni, arbitrî, oscuramenti, sproporzioni spesso gravissime, ma hanno altresì l’impronta caratteristica di ricerche e di studi. Rispetto ai perfetti capolavori antichi, le opere d’oggi, ripeto, sono sempre alquanto approssimative. […] L’artista non sapendo rendersi conto di quanto effettivamente avviene in lui come ispirazione nel sangue, vi legge dentro per approssimazione, cioè la sua ispirazione non è completamente reale, poiché per essere tale essa deve essere portata a piena coscienza dallo sforzo interiore auto-conoscitivo dell’artista medesimo.
Gli artisti moderni, sentendo d’istinto questa interna sproporzione, hanno cercato per lo più di rimediarvi come hanno potuto […]. Questa è la motivazione, ad esempio, del ben noto leitmotiv wagneriano, o delle teorie stereometriche (cono, cilindro, sfera) del Cézanne; questa è l’ossessione scientifico-medianica di Poe, o la famosa alchimia del verbo di un Rimbaud o il paradossalismo un po’ perverso di un Wilde, o le inversioni di valori di un Nietzsche, o le dottrine sociologico-ereditarie di uno Zola, o il paganesimo letterario del Carducci, o le ricerche naturalistiche sulla luce e sui volumi in tutti i plastici, impressionisti, divisionisti, futuristi, cubisti, o le enumerazioni catalogiche di Whitman, o la scala esatonale di Debussy, ecc. […]
L’ispirazione ne risulta mozza, frastagliata in compromessi intellettualistici, che la snaturano più o meno. L’artista si sbaglia, più o meno, nell’interpretazione di quella forza espressiva che in realtà agisce nel suo subcosciente, e che, per essere totalmente se stessa, reclama in lui il consapevole riconoscimento della propria originale essenza sovrannaturale. Da questo errore della coscienza artistica sono nate le varie formule, le tecniche, le scuole, e tutte le programmatiche sopraffazioni intellettuali, proprie dell’arte odierna, che portano infinite denominazioni, ma sono sempre una sola ed unica deviazione.
Tuttavia, se noi, pur tenendo fermo a questo carattere deformativo, indaghiamo la natura essenziale dello sforzo artistico moderno, dobbiamo arrivare a riconoscere che oggi, nelle correnti profonde dell’arte, c’è una vera tendenza di rinnovamento, un istinto novello».
Il Novecento si è sforzato di seguire più o meno ciecamente questo istinto, fermandosi però a metà strada, nell’espressione di quel ‘mondo intermedio’, costituito dall’energia-di-vita, che ha scambiato erroneamente per il suo vero sé. Nell’ascesa spirituale, infatti, si incontrano diversi livelli di coscienza, a partire da quello materiale, e non tutto ciò che è soprafisico è necessariamente spirituale. Esistono infatti piani di coscienza vitali, per la maggior parte soggetti all’errore e all’ignoranza più ancora del mondo materiale nel quale dimoriamo, sede di tutte le pulsioni più animali che, nell’uomo, nulla hanno di divino. Ebbene, l’arte del Novecento è, in linea di massima, un’efficace espressione di questi piani, talvolta detti ‘astrali’, dell’esistenza: ne hanno assunto le luci livide, i colori abbacinanti, le sonorità cacofoniche, il caos magmatico.
Abbiamo deciso di lasciare da parte, si diceva, le convinzioni religiose dell’Autore, al tempo settarie e segnate dal bisogno di difendere principî antroposofici a discapito di quelli teosofici. Gli uni e gli altri ci sembrano fallaci, per ciò preferiamo ignorarli entrambi. È tuttavia utile soffermarsi sulla critica onofriana dell’eclettismo tanto di moda nella prima metà del XX secolo (e in un certo qual modo anche nella seconda metà), che pretendeva mescolare insieme le varie tradizioni spirituali dell’umanità: «platonismo, bramanesimo, vedantismo, taoismo, zaratustrismo, buddismo, ermetismo, ebraismo, cattolicismo, protestantesimo, maomettismo, ecc., quasiché si trattasse di rivelazioni attuali dello spirito, senza tener conto del loro ordine storico, che solo ne dà l’intimo significato spirituale, nel corso d’evoluzione dell’umanità». Tralasciando le conclusioni cristocentriche ed europeocentriche di Onofri (di steineriana derivazione), che non possiamo per nulla condividere (dalle quali anzi dissentiamo categoricamente), è importante capire come una genuina poesia futura (ma potremmo dire una genuina esperienza spirituale tout court) non possa nascere da un’accozzaglia di ‘ismi’ sistemati più o meno alla rinfusa, esattamente come — e ancor più, per la verità — non può nascere dall’affermazione dogmatica di un ‘ismo’ sugli altri. Si può certamente guardare alla grande civiltà eurasiatica nel suo insieme, in una sorta di visione globale, dall’alto, così come si può rintracciare la sua scaturigine primitiva e le varie forme che da essa si sono sviluppate — e tutto ciò è senza dubbio una delle primarie operazioni intellettuali che il nostro tempo esige —, ma questo non è ancora un fatto spirituale di per sé. Nessuna concezione spirituale, assunta in modo meramente intellettuale, può soddisfare l’uomo: solo l’esperienza diretta del Reale (e dei vari piani di realtà subordinati), assimilata nel profondo, metabolizzata, fattasi carne e sangue in noi, può offrirci il nostro vero senso e, per conseguenza, può dare forma a nuove e autentiche espressioni di creazione artistica.
«Gli uomini debbono rinnovarsi dall’interno della propria spiritualità operante, e non più richiedendo al passato, né all’esterno, i rimedi e le norme della vita. Bisogna volgersi alle reali sorgenti del rinnovamento, vincendo le illusorie opinioni tradizionali, e tutte le velleità dottrinarie, personali o settarie. Altrimenti ci si sentirà sempre più estenuati di forze».
La conclusione del capitolo è altamente suggestiva e illuminante:
«Non più dunque dalla tradizione, né dalla polemica contro la tradizione, che è equivalente, ma da un auto-rinnovamento puramente individuale, può avverarsi un risorgere delle forze artistiche creative. Se l’artista vuole arrivare a plasmare artisticamente, deve prima riplasmare se stesso. Questa sarà la sua prima vera opera d’arte. E da siffatto auto-riplasmarsi egli può attingere l’energia creatrice dell’Arte […].
E allora, a mano a mano, saliranno nuovamente dall’interno di lui grandi immagini creative (analoghe a quelle che troviamo nell’Odissea, nel Partenone, nell’Orestiade e nel Prometeo, nell’Eneide, nella Commedia, nel Giudizio Universale, nel Cenacolo, nell’Amleto, nelle Sinfonie beethoveniane, nel secondo Faust, nel Tristano e nel Parsifal), poiché queste grandi immagini creative non nascono già dal mondo esterno, ma dal mondo interno dell’uomo, e sono espressioni del contenuto cosmico che è, allo stato subconscio, nell’uomo stesso».
Il terzo capitolo — La volontà nell’arte moderna — entra magistralmente nel vivo della questione.
«Qualunque sia il sistema di segni adottati — parole, note, linee, colori — l’arte è strumento di auto-rivelazione spirituale. La funzione autoconoscitiva ed espressionistica, che essa assume di fronte allo Spirito del mondo, è quella stessa che la coscienza umana riconosce in sé medesima quando guarda al cosiddetto “mondo esterno” come ad un gigantesco alfabeto espressivo, ad un inesauribile cifrario in funzione di vita vivente.
Gli stessi ordini di spirituali potenze che hanno creato le forme e gli esseri del mondo esteriore (minerali, piante, animali, uomini, corpi celesti) manifestandosi via via attraverso di essi, nella lor propria essenza formativa e autoevolutiva, questi medesimi ordini di potenze si manifestano nell’uomo sotto specie di arte».
Affrontando il problema dell’ispirazione, si affianca a questo punto il motivo parallelo, relativo al raggiungimento della vetta della creazione artistica: ci si riferisce, ovviamente, alla pura rivelazione — «…si può affermare che non c’è artista un po’ degno di questo nome, il quale non conservi in un cantuccio (sia pure trascurato) della sua anima espressiva l’anelito della rivelazione. […] Non c’è impressione più penosa di quella che danno gli artisti che negano la rivelazione spirituale. È come se un orologio, potendo parlare, negasse di segnare le ore».
Prima ancora di entrare nello specifico, Onofri sente giustamente il bisogno di fare una precisazione quanto mai necessaria in questa nostra epoca in cui regna un bieco utilitarismo:
«Dinanzi a un ideale tanto elevato, chi di noi non si sente modesto, e non tende a vacillare? Molti sono oggi gli artisti, che pur avendo intraveduto la luce della meta, danno indietro e recalcitrano, fino a voltare le spalle alla luce intravista e a negarne beffardamente l’esistenza. Costoro non sono ancora maturi alla nuova creazione, poiché l’essenza d’ogni creazione è il sacrificio in nome del divino che c’è in noi, sacrificio di successo, di quattrini, di fama e perfino di risultati apprezzabili nell’ambito stesso dell’espressione artistica. Ma è gloria più vera aver solamente tentato la via buona, anziché esser riusciti sulla via falsa. Riusciti a che? A illudere se stessi. Questa tendenza auto-illusoria è effettivamente la tendenza odierna più difficile a vincersi. Tutto, intorno a noi, cospira a ingigantire in noi questa tendenza: dalla potenza meccanica alle pseudo-opinioni dei giornali, dal peso massimo che in tutte le attività della vita hanno oggi raggiunto gl’incompetenti (che sono il peso morto da vincere) fino alla dura lotta che richiede la quotidiana esistenza economica di ognuno. Tutto cospira a sospingere l’artista lungo la più facile china del successo esteriore; ovvero, ed è il meno peggio che possa capitargli, a stornarlo oltreché dalla soluzione, addirittura dal problema stesso, spingendolo verso altre attività, che non siano quelle dell’arte come rivelazione».
Scritte quasi un secolo fa, queste parole suonano assai più attuali ai nostri giorni che allora. L’artista che brama di diventare famoso (e che eventualmente vi riesce), è una delle categorie umane più ridicole che esistono e, purtroppo, una fra le più diffuse.
Fatta questa doverosa premessa, ecco che si iniziano a esaminare alcune questioni inerenti la rivelazione.
«Ogni vera opera d’arte è, a se stessa, la sua propria tradizione, che nasce con l’opera stessa, in essa sola rimane vivente, e con essa si esaurisce. Ogni proseguimento, ogni perdurare di quella tradizione, fuori dell’opera che le ha dato origine, è contrasto, opposizione, negazione dello spirito creativo. (Non si parla qui di forme astratte: cioè di metri, di generi letterari, di argomenti di poemi, ecc. Si parla dell’intimo timbro spirituale, e della situazione essenziale che il suo creatore ha assunto nel mondo).
Dunque: in arte indietro non si torna; né si dovrebbe tornare, anche se, per disavventura, si potesse.
Allora non resta altra soluzione del problema fuori di questa: che l’artista sia cosciente del problema stesso. Egli cioè non può più ignorare che l’essenza della sua arte è la rivelazione spirituale del cosmo in lui uomo; e poiché l’antica capacità istintiva di questa rivelazione gli è andata perduta, egli deve diventar cosciente di ciò che ha da fare, con la sua propria volontà, per arrivare a riconquistarla. Egli deve imparare, liberamente, dalle forze interiori proprie, il metodo della rivelazione».
Chiarito che il bene e il male non sono affatto valori assoluti, ma elementi «dei quali uno solo è realmente reale e attuale, come sintesi attiva di due apparenti, e l’altro non è che la sopravvivenza di una tendenza, di una direzione, che nel passato fu bene ma che ora non è più», l’Autore indica necessario, in primo luogo, operare per liberarsi da «tutto quel mondo di immagini istintive, di pensieri e di sentimenti impulsivi, che vivono all’interno dell’uomo» e che hanno determinato (e determinano tuttora) in così larga misura l’arte contemporanea; liberarsi da quell’atavico «insieme umano involontario, che ha la caratteristica di un mondo determinatosi in lui con la nascita dai suoi genitori, con l’ambiente che diventerà la cerchia personale delle sue abitudini e preferenze, dei suoi pregiudizi e passioni, innati e operanti nel sangue ereditario. L’uomo deve comprendere che in questo insieme caotico e non suo, che egli porta quale un involucro ostacolante, la sua reale volontà dorme un sonno profondo, come la pagliuzza d’oro nello spessore della sua ganga. Bisogna che questa ganga sia fusa col fuoco. Il primo atto che egli deve chiedere alla sua propria volontà è che essa riconosca umilmente di essere sepolta in una farragine arbitraria di elementalità naturali e aprioristiche, le quali le impediscono di manifestarsi. […] Quanti uomini parlano di libertà, e magari di libertà assoluta, e si credono liberi, perché si son formati un qualunque concetto filosofico della libertà!, ma poi nella realtà della vita non sono che i servi dei propri appetiti e delle proprie ambizioni: quasi mossi da fili esteriori.
Ciascuno di noi comincia a conoscere che cos’è la volontà quando avverte l’antitesi fra ciò che in noi viene voluto da un complesso di fattori che non si possono chiamare col nome dell’Io, e ciò che proprio l’Io vuole in noi. Quando la volontà non si confonde più con gli appetiti, con le ambizioni, con le velleità, allora solo essa è la volontà. […] Una volontà dunque che esclude già ogni conflitto, avendo riportato tutto alla propria essenza, nella perfetta pacificazione e unione auto-divina; e che pure, malgrado ciò, anzi appunto per ciò, trova in sé sola le motivazioni irrefutabili dell’agire: solo questa è la volontà che agisce, e che è tutt’altra dalla volontà che è agita illudendosi di agire».
Ma le umane pulsioni non sono solo il risultato dell’ereditarietà, bensì anche della pressione esercitata da potenze ostili, «esseri spirituali avversi alla volontà superiore e che prendono nome ed aspetti di istinti, di passioni, di pregiudizi, di ostinazioni, di errori, ma che in realtà sono gli esseri spirituali del male, i quali si servono dell’uomo per i loro propri fini, e son essi che gl’impediscono di volere, perché sono essi che vogliono in lui, pur dando all’uomo l’illusione di volere».
Appaiono chiare le radici orientali di tali considerazioni (non a caso i critici spesso parlano di Onofri come di un eretico), soprattutto quando egli arriva a parlare della “marionetta umana” che è mossa «come da innumerevoli fili interni ed esterni, dei quali essa non si rende conto, e che spesso s’aggrovigliano inestricabilmente» e, per conseguenza, della necessità di una presa di coscienza e di una realizzazione-di-sé concreta ed esperita per via sperimentale.
«Tutto ciò nessuno può certamente accettarlo se non conosce, oltre che l’enunciato del processo, anche e soprattutto l’esperienza di questa interna e superiore realtà dell’anima, e nessuno può fare questa esperienza in luogo di un altro. […] Solo riportando la propria volontà umana all’accordo con se stessa, in quanto volontà divina, l’uomo trova l’unione e l’armonia interiore fra il suo io e l’Io dell’Universo. […] Ma l’enunciato, ripeto, conta ben poco, in sé e per sé. Conta solo in quanto noi cerchiamo di tradurlo in atto».
Il quarto capitolo — La Parola — compie un ulteriore passo in avanti nella direzione assegnatasi, collegando quanto detto finora con l’arte poetica. Partendo dall’assunto del Logos creatore dell’universale realtà, che Onofri rintraccia nell’incipit del Vangelo di Giovanni, doverosamente riallacciato alle antiche intuizioni dei greci (egli cita Eraclito), si crea un ponte fra volontà umana e divina affermando (ancora una volta in perfetta sintonia con le antiche intuizioni dei bardi rigvedici dell’India) che «La Parola-Fuoco era dunque la stessa volontà divina allo stato creativo primordiale […]. Quello stesso mondo dunque che ci appare oggi allo stato minerale e contratto, si trovava allora allo stato diffuso di Parola-calore […] Da quello stadio immensamente-mondo, rarefatto, fluido e compenetrantesi, si è passati a fasi del mondo e a forme sempre più dense, delineate e disintegrate dall’insieme, fino a raggiungere la forma singola di oggetti e di creature densificate e distinte, che siamo oggi noi stessi, l’uno fuori dell’altro. Questa individuazione in singole creature è quella che ha dato all’uomo, depositario di quella Parola-fuoco dei primordi, la capacità di rendersi conscio del mondo nei suoi vari aspetti, e di poter ritrovare, in virtù di quella stessa Parola, lo spirito unitario della creazione universale, per atto del suo proprio spirito d’uomo individuato in un corpo distinto da un altro».
Da qui, a indicare come eterne tutte le grandi opere di creazione artistica, il passo è breve.
«Insomma lo spirito, l’idea-madre, l’essere originario, l’archetipo vivente di ciascuna delle vere opere d’arte (sono vere perciò solo quelle che corrispondono allo spirito di sviluppo della terra) costituiscono la vera realtà di tutti i poemi e di tutte le opere; e sono eterni. Questi archetipi esistevano (spiritualmente) anche prima che quelle opere fossero attuate in terra dagli artisti, ed esisteranno, sebbene diversamente, anche dopo che l’odierna esistenza materiale sarà riassunta in ispirito. […] Come l’artista non fece che essere fecondato, nella sua ispirazione, da quell’archetipo a cui dette esistenza artistica (per gli uomini) nella materia visibile e udibile dai sensi, dentro l’opera d’arte, accogliendo quell’archetipo e come insufflandolo nella materia delle sue statue, delle sue tele, delle sue poesie, delle sue musiche; così quell’archetipo, però trasformato-umanizzato attraverso l’ispirazione e l’interiorizzazione dell’uomo-artista, sopravviverà eternamente, e anche dopo che la sua realtà materiale sarà andata dissolta col dissolversi della terra-minerale».
A questo punto, Onofri presenta alcune concezioni legate alla forza e al valore della Parola che, ci pare, risultano maggiormente comprensibili quando si è approfondita la mistica Tantra. Non è il caso di affrontarne qui le argomentazioni e le relative implicazioni, basterà citare l’Autore nel suo concludere (in modo forse un po’ assolutista) che «l’uomo-artista dà forma al corpo sensibile ad un essere spirituale, ad uno spirito che esisterebbe solo nel mondo degli archetipi, nel mondo spirituale, ma del quale l’uomo non può prendere coscienza se non attraverso il velo della trasparente forma, attraverso il corpo di bellezza sovrasensibile che l’artista solo sa adeguatamente plasmare a quell’essere, esprimendolo attraverso l’opera d’arte. E quell’adeguatezza, quell’armonia, quell’accordo che nelle grandi opere d’arte noi intrasentiamo fra lo spirito e l’espressione artistica è l’essenza di ciò che chiamiamo bellezza. Cioè attraverso l’opera d’arte noi uomini possiamo vivere l’accordo fra il mondo terreno e il mondo spirituale, fra la terra e il cielo, in quanto questo accordo lo sentiamo realizzato nell’arte. Fuori di ciò, arte vera non può esistere.
Dunque, l’artista nell’ispirazione è spiritualmente fecondato da un archetipo, al quale egli dà forma, dà corpo nella sua espressione artistica. Ma da allora in poi, attraverso questa espressione artistica attuale, attraverso quest’opera d’arte, quell’essere spirituale che vive entro la forma va a sua volta a fecondare pel tramite dei segni espressivi (parola, colori, linee, note, ecc.) innumerevoli altri esseri spirituali, che sono gli uomini capaci di vivere l’opera artistica. (Da ciò s’intravede con quale dedizione e meditazione andrebbero lette le opere dei poeti veri).
In questo finissimo tessuto creativo, che si avvera fra gli uomini mediante l’artista, ciò che domina è dunque lo spirito di comunione, di fusione, di affratellamento spirituale: lo spirito d’Amore. In questo senso lo spirito di ogni creazione, e lo spirito insomma della Creazione stessa, cioè del mondo creato, non è che l’Amore. La Parola creatrice è l’Amore, come vita essenziale della creazione, e codesta parola creatrice circola e ricircola infinitamente nella creazione stessa attraverso e mediante la giusta articolazione interiore dell’Uomo, per via della parola umana.
Solo per indicare una tendenza ch’è implicita e latente nella parola umana, solo per questo, ho voluto accennare ora ad un grado di sviluppo della parola, nel quale l’uomo insieme alla parola-suono emetterà la parola-spirito e coscientemente metterà al mondo, parlando, esseri spirituali che non possono venire ad esistere fra noi se non per via della parola umana. Parlando, spontaneamente l’uomo modificherà e modellerà anche le altre anime umane, e agirà sui suoi simili con una tale attività plasmante (edificatrice) sull’intimo mondo morale e spirituale di ciascuno dei veri ascoltatori che già si può indovinare come e perché l’essenza della parola sia tutta azione, e come l’etimologia di poesia sia poiein, cioè fare, agire. Infatti il linguaggio è tutto di origine divina-spirituale, e nelle parole, quali noi oggi le abbiamo, è racchiusa l’essenza stessa del mondo: solo che ne acquisteremo coscienza sempre più intensa e operante, affinché la Parola affluendo sempre più nel nostro interno dal Cosmo ne riesca in parole sempre più impregnate della nostra essenza umana cosciente».
Abbiamo accennato all’importanza della parola nella tradizione indiana; qualcosa di analogo possiamo riscontrare in diverse altre tradizioni, come quella ebraica (la Qabalah, in particolar modo) o quella greca.
«Tutte le leggende degli antichi popoli ci raccontano a chiare note che l’uomo aveva un barlume di questa potenza magica della parola. […]
Certo, la poesia odierna non dimostra troppo di saperne gran che; ma bisogna aiutarla a svegliarsi dal suo dormiveglia, pieno d’incubi».
Proseguendo su questa linea, nella seconda metà del capitolo Onofri fa delle osservazioni talmente interessanti da meritare di essere citate quasi per intero — e lo facciamo volentieri, dato che la sua prosa, per quanto un po’ superata, è incantevole:
«È esperienza propria del poeta che l’intimo significato, il vero senso delle parole che compongono una poesia, non è da cercarsi dentro le parole stesse che compongono la poesia. Quelle parole possono essere (ognuna in sé) di natura affatto ordinaria e, direi, convenzionale, ma il vero senso poetico consiste in un certo fluido liberatore, che circola fra le parole, e tesse miracolosamente, come una rete di musica e di luce, dalla quale le singole parole vengono, in certo modo, assunte in funzione più alta di vita, e, si può dire, trasumanate. Infatti tutti sanno come sia impresa disperata voler precisare in che cosa effettivamente consista l’incanto che emana da certi tratti dei più grandi poeti, e che non è mai possibile risolvere nel che cosa, nell’argomento, nel dettato, e tanto meno nelle singole parole, che per se stesse sono le solite che tutti usano; ma che s’indovina consistere in un come, in un modus loquendi, in una funzione che il linguaggio umano assume, trascendendo la funzione ordinaria, e facendo intrasentire una lingua angelica, celestiale, nella quale il parlare è un avvivare, un musicalizzare, un suscitare, un accordare il mondo con se stesso, e addirittura un creare il mondo parlando. Anzi, poiché in ogni punto e momento del mondo, tutto il mondo è attivo e presente, il vero argomento di qualunque vera poesia non è che questa sinfonica realtà dell’insieme, sia pure colta in un particolare istante.
In tal senso il poeta, come diceva Novalis, non è che un illuminato dal linguaggio. E se noi vogliamo tentare di chiarire questa perfetta intuizione, dobbiamo soggiungere che il parlare è per il poeta (quando è poeta) come un arrivare a toccare con la magia delle parole l’essenza dell’universo invisibile, un comunicarsi col mistero divino, un partecipare, per amore parlante, all’atto originario del Verbo creatore. Questa musica trascendentale che è nella vera poesia, questa “armonia delle sfere” che può vibrare fra le parole, è ciò che forma la sublimità della poesia. Allora le parole manifestano, al di là della loro terrestre natura, il rapporto arcano delle stelle e dei numeri, la sorgente sinfonica da cui sono scaturite tutte le creature, il fiat primordiale che sillabò in un atto di manifestazione perfetta il cielo e la terra.
Il poeta si leverà con tutta la sua coscienza d’uomo, fino a raggiungere realisticamente la dignità di questo compito concreto di uomo fra gli uomini, di rivelatore parlante, di illuminato del Verbo, di conciliatore, armonizzatore, risanatore, compensatore e liberatore, in cospetto all’Io di tutti gli uomini; e assolverà tale compito con abnegazione perfetta, con amore immacolato e dedizione totale. Ecco un aspetto nel destino della futura poesia.
Dicemmo che la poesia antica stimolava all’azione, si riferiva all’azione, cioè ad una certa azione sociale da attuare; la poesia futura sarà essa stessa azione, e sarà l’azione dello spirito che articolando sé nella parola attuerà sulla terra la sua legge, il suo ordine, la sua armonia universale. […]
Le più grandi rivelazioni e le più ricche musiche dovrà il poeta accogliere dalle creature che possono far vibrare l’aria col suono della loro interiorità; e talvolta il fremente nitrito d’un cavallo, il cinguettar d’un uccello o la parola più semplice di un umile ignorante, gli narreranno arcani che per nessun’altra via potrebbero venirgli palesati, poiché la sapienza e la potenza della parola non tanto sta nei libri della sapienza, quanto nella conformazione di chiunque e di chicchessia. “Tutte le cose furono fatte per mezzo della Parola, e neppure una delle cose fatte fu fatta senza di essa”».
Ci avviciniamo al concetto della poesia mantrica, cui tanto spazio Sri Aurobindo dedicherà nell’opera che affronteremo più avanti. Per il momento, lasciamo proseguire Onofri: il poeta del futuro «asseconda, stabilisce e perfeziona misteriose corrispondenze tra i fiori e le stelle, fra il destino dell’uomo e le antiche leggende, fra gli spiriti eccelsi del sacrificio e il povero sasso che sembra abbandonato a se stesso sul sentiero. Un mondo nuovo gli si schiude. […] La storia segreta della terra, e tutte le famiglie degli animali, e le tribù degli uomini, e le colonie di anime nelle stelle, e le immense razze e specie delle piante, si offrono collegate da riposti vincoli di affetto, parlano di sé come d’una sola biografia cosmogonica, e indicano le fasi dello sviluppo di ciascuno come i gradi d’una gamma celeste, le varie note di una sola tastiera; e sono esse stesse (le cose) lo scorrere, il salire e il discendere degli angeli in un solo immenso organo di musiche: sacro corpo del mondo. […]
Un innamorato di parentele, uno scopritore di relazioni, per quanto apparentemente lontane, un maestro di simpatie, un’anima d’amore che anela a farsi ostia di comunione parlante fra gli esseri separati, un articolatore nel suono del cuore umano, un illuminato-illuminatore per mezzo della parola dell’uomo, la quale è l’immagine più alta del Verbo divino, un ministro della Parola: è questo il poeta dell’avvenire».
Questo mirabile manifesto, per essere attuato, richiede da parte dell’uomo-poeta un profondo cambiamento di coscienza, una identificazione con la propria vera essenza, che si rivela essere la medesima di tutti gli esseri.
«Questa mutua e raggiante pienezza è in ogni attimo della catena eterna, in ogni particella della presenza infinita: essa è nel piccolo bruco che abita il filo d’erba, come nell’amore perfetto dell’Io Unico che ha per sua casa l’universo. Una familiarità senza limiti unisce il più alto al più basso, e in ciascuno è attiva la confluente energia dell’insieme, quale condizione dell’esistenza sua propria. Tutte le creature e i pensieri sono indispensabili al galleggiar d’una nuvola negli oceani promiscui dell’aria. Negli organi brevi dell’uomo c’è l’assistenza delle costellazioni planetarie, la potenza dei monti, la fluidità dei fiumi, la conversazione e il ritrovo dei sublimi esseri che guidano le amicizie terrene e i celesti sistemi: organi dell’universo, corrispondenze giganti degli organi umani. Ma l’unità vera, l’intima realtà di tutto questo è solamente nello spirito dell’uomo che va pienamente risvegliandosi alla sua divina coscienza mondiale.
Per questo il poeta non può restare più a lungo in un sentimento soltanto diffuso di pienezza panica, e sognare l’organismo del mondo in parvenze arbitrarie e casuali, che sarebbero la sua fantasia personale. Il pronunciatore, colui che articola il verbo di vita, deve giungere a conoscenza delle originarie intenzioni che sospingono ogni gruppo di creature, ogni tribù di fiori, ogni famiglia di spiriti verso il loro destino di redenzione, già manifestato nelle sublimi forme di tutte le cose. Egli cercherà di entrare in quella sublime scuola d’amore dove maestri incorporei insegnano la scienza e la storia della natura, la presenza cosciente dell’Io, lo sviluppo e le antecedenze del minerale, il metodo e l’arte d’impadronirsi del proprio corpo mortale come d’uno strumento destinato alla parola dei mondi, alla parola che spazia creatrice nelle sue musiche celesti, così come il linguaggio usuale si propaga palesemente nell’aria, ma in figure sonore che dobbiamo afferrare con l’anima veggente. […]
Questa grammatica della natura, questa prosodia celeste, questo immenso cifrario di esseri, questa sintassi cosmica, è la tecnica nuova del poeta, è il tirocinio della sua arte, la quale ha finalmente riconosciuto se stessa nelle sue proporzioni adeguate: come azione di articolatrice cosciente del cosmo».
Questa è dunque, per Onofri, “la tecnica nuova del poeta”. E il capitolo successivo, il quinto, titolato per l’appunto La Tecnica, si apre non prima di indicare al lettore l’intimo collegamento, diremmo anzi la segreta complicità esistente fra Natura e Spirito: «La Natura è il vivente scenario ove si svolge questa sublime attività tutta Spirito, e l’attività dello Spirito è l’essenza reale della Natura terrena». La Natura è, in definitiva, vista come «la Madre dell’essere di ognuno di noi», Colei che, nella sua più alta e divina essenza, ci conduce al nostro più completo compimento spirituale. Non a caso, l’Autore conclude la serie di considerazioni occupanti le pagine finali del quarto capitolo con una intensa esclamazione lirica: «O Madre piena di Grazia, salvaci dall’oppressione»!
Veniamo perciò al capitolo dedicato alla tecnica artistica, e in particolare poetica. Ci si pone subito una domanda fondamentale:
«Può forse esistere una tecnica d’arte, la quale risulti da una formula estrinseca che, una volta trovata, basti imparare, per poi applicarla a qualunque operazione e combinazione artistica, a quel modo che la tavola pitagorica si applica a qualunque moltiplicazione? La risposta, a meno di non vagheggiare non so quali soluzioni stregonesche o puerili, non può essere che una sola: no. Ma può esistere una tecnica di metodo, dalla quale la soluzione di ogni caso artistico emerga sempre differentemente dall’interno dell’artista, in ogni sua creazione, e che pure sia una tecnica essenzialmente identica ogni volta a se stessa? Vorrei appunto mostrare che questa tecnica, non solo può esistere, ma esiste di fatto».
Premesso che tale tecnica consiste sostanzialmente «in una tecnica spirituale, in una tecnica di orientamento espressivo, di evocazione metodica dello spirito da manifestare artisticamente», e che pertanto si tratta di «una tecnica dell’ispirazione del Verbo, non già una tecnica delle parole come strumenti ordinati a manifestare, caso per caso, codesta ispirazione», si passa subito a individuare la cartina di tornasole che ci permetta di verificarne uno dei principali fondamenti: il perfetto equilibrio di volume, ovvero, non farsi fuorviare dalla sovrabbondanza, ma al tempo stesso non cadere in una eccessiva sobrietà. Tuffarsi in profondità e portare in superficie le sole perle autentiche e di reale valore.
«Ecco dunque che troviamo risolto un aspetto del problema: un’opera poetica esiste quando il volume, il numero delle parole che la compongono è quello esatto e necessario. Problema matematico dell’arte, che avrà però la sua giusta soluzione implicitamente, se lo porremo così: quando avviene che il poeta può giungere all’espressione poetica giusta, cioè attraverso un materiale verbale esatto? Quand’è che il corpo (di parole) di una poesia è perfetto e corrisponde esattamente allo spirito della poesia?
La risposta a questa domanda è facile, e ci porterà di un passo verso la soluzione di tutto il problema tecnico. Si può affermare che il poeta realizza un corpo verbale perfetto quando si attiene assolutamente allo spirito della poesia che vuole manifestarsi attraverso di lui, e sa escludere dal campo della sua espressione tutto ciò che non è quel certo spirito espressivo. […] L’artista deve arrivare a lasciar agire spiritualmente in lui lo spirito di quella certa poesia che vuol nascere al mondo in parole attraverso di lui, e perciò deve portare la sua volontà a coincidere con la volontà di quel certo spirito poetico creativo, rinunciando ad ogni altra velleità personale, più o meno burrascosa. […] La miglior condizione per giungere a tanto sarebbe, evidentemente, che il poeta potesse conoscere quella volontà poetica quale un essere oggettivo, così come coi sensi si conoscono gli oggetti del mondo sensibile».
L’Autore è ben cosciente delle difficoltà che insorgono nell’intraprendere una simile esplorazione, ma le indicazioni che offre sono — nella maggioranza dei casi — talmente efficaci e precise da risultare perfettamente comprensibili e familiari a chiunque abbia cercato di inoltrarsi negli ardui e meravigliosi dominî dell’espressione artistica. Ogni vero poeta sa bene, ad esempio, quanto una poesia (e, più ancora, una silloge o un’opera drammatica, o un’epopea) abbia una sua esistenza autonoma, sia una vera e propria creatura per la cui nascita l’artista è consapevole di aver prestato la propria penna alla Dea del Linguaggio, esattamente come un uomo presta il proprio seme per ingravidare una donna e dare così alla luce una creatura che avrà una sua esistenza indipendente e autonoma.
«Il problema della tecnica tratterebbe dunque della capacità di accogliere coscientemente, nella propria volontà umana, un certo spirito di rivelazione superiore eliminando, in quel momento, tutto ciò che non è esso, astraendo da tutto il resto del mondo, sia umano sia non umano. […] Uno stato di concentrazione volontaria, astratto da tutto il resto, è l’atto fecondatore per il quale, con la parola umana, si può mettere in moto una rivelazione divina. Questo stato di concentrazione è uno stato che nasce e si sviluppa in virtù di uno speciale allenamento interiore, il quale deve essere condotto e diretto dal poeta stesso con la sua propria volontà. […] Una vera scienza del Verbo, una logologia (per usare una parola di Novalis) dovrà sorgere via via nell’avvenire, ed è vero che i risultati, nelle varie tempre d’artisti, saranno differentissimi l’uno dall’altro, ma è pur vero che il metodo, la via, l’allenamento da seguire rimane uno».
In modo del tutto simile, il grande ricercatore e poeta tantrico Abhinavagupta affermava (nel X secolo) l’assoluta convergenza fra arte e yoga. Il mistico kashmiriano, riprendendo la distinzione rigvedica dei quattro gradi della Parola, indica al grado più basso vaikhari, la Parola “grossa”, quindi madhyama, la Parola “mediana”, per arrivare a pashyanti, la Parola “che vede”, grado supremo di poesia rivelata, oltre il quale c’è paravac, il Logos supremo, origine dei primi tre e trascendente.
Onofri allude a questi due ultimi gradi — i primi se visti dall’alto — quando divide la Parola in umana e divina:
«C’è dunque una parola creatrice umana, come c’è una parola creatrice divina. Ma mentre quest’ultima agì direttamente sul mondo come creazione di creature, di cose e di avvenimenti, la parola può agire solo indirettamente su di esso attraverso lo spirito umano, in quanto la parola si fa consapevolmente azione spirituale dell’uomo che la pronuncia, e che trasforma, attraverso la parola, la propria coscienza d’uomo. Bisogna dunque che la parola dell’uomo sia illuminazione spirituale dell’uomo stesso, sia veicolo, tramite di auto-rivelazione; e colui che userà la parola nel suo più alto registro di possibilità attive, userà la parola come strumento di illuminazione su quella realtà di presenza che opera in tutto il mondo sotto specie d’uomo. Il poeta, dunque ha da diventare un auto-illuminato del linguaggio, un auto-illuminato dal linguaggio».
È precisamente la descrizione della funzione di Pashyanti, della Parola-che-vede. Abhinavagupta, probabilmente, ritroverebbe appieno in queste ultime riflessioni le concezioni che egli stesso formulò, riprendendole a sua volta (come abbiamo indicato) da intuizioni assai più antiche.
Occorre in ogni caso tenere sempre ben presente che, per Onofri (esattamente come per Abhinavagupta e più in generale per tutti i poeti mistici dell’umanità), la “parola creatrice umana”, non è la parola umana tout court, bensì la parola umana “nel suo più alto registro di possibilità attive”. E infatti così egli precisa, subito dopo:
«Non soltanto la parola in quanto mezzo di descrizione, di resoconto, di strumento didattico-espositivo, e tanto meno di sfogo psicologico personale, ma la parola in quanto iniziatrice ai misteri, in quanto strumento d’auto-iniziazione ai mondi superiori. Questo è l’interno metodo del poeta. La parola come azione per giungere alle verità soprannaturali: ecco il culto della nuova poesia, e ad esso deve mirare coscientemente colui che vuol assumere il nuovo grande compito della poesia».
Se dovessimo leggere la poesia — italiana e mondiale — successiva a questo saggio sotto la luce da esso indicata, pochissimi meriterebbero il titolo di poeti. I tentativi dello stesso Onofri, o di un Rilke, di un Pessoa, di uno Yeats, di un Maeterlinck, di un Tagore — e stiamo citando i più alti —, il più delle volte si fermano a mezza via, non riuscendo a entrare nel dominio peculiare in cui tale poesia mantrica può essere realizzata: lo spirituale. Talvolta, nei loro momenti più ispirati, ne scorgono qualche barlume come da un qualche piccolo pertugio, restando tuttavia fuori, al di qua del muro.
Occorre inoltre dire che i critici novecenteschi hanno spesso frainteso il senso di questo notevole saggio, e la motivazione principale sta nel fatto che essi hanno conferito ad alcuni vocaboli ricorrenti — l’aggettivo “spirituale” innanzi tutti — una accezione più conforme all’uso allargato e generico di tali termini, piuttosto che l’applicazione specifica e ben precisa compiuta da Onofri. La dimensione spirituale è uno stato di coscienza cui si accede per intima e concreta realizzazione e per mezzo del quale si penetra in un illimitato dominio costituito da innumerevoli piani e dimore divine, che per il mistico sono altrettanto reali del mondo materiale (taluni sono anzi l’origine del nostro mondo fisico).
«Una presa di possesso, mediante la parola poetica, dell’attualità spirituale operante nei mondi superiori, è il risultato volontario, e alla fine naturale e spontaneo, che nascerà dalla poesia; giacché la bellezza stessa dell’ordine verbale euritmico, che è realizzata in un poema, non è che la perfetta rispondenza tra l’avvenimento spirituale interno compiutosi nel poeta, e la sua stessa capacità di conformarvi adeguatamente la figura verbale che è il suo corpo di parole, bennato e armonioso. Questa proporzione intima, questa concordanza e corrispondenza nativa, che è l’incanto e la persuasione di un’opera poetica, nascerà ormai dal supremo accordo cosciente tra il Verbo creatore e la Parola umana, nella libera fantasia creatrice dell’artista. E siffatta intima rispondenza e perfezione, non c’è tecnica di verso o di prosa che possa artificialmente produrla, laddove il poeta non l’abbia conquistata come illuminazione interiore sua, e alla quale non abbia saputo innalzarsi, con sforzo progressivo e deliberato, nel più profondo della sua aspirazione d’uomo e d’artista, in piena comunione col mondo spirituale».
Nel capitolo sesto — L’arte nella vita come espressione della socialità cosmica — ci si interroga sulla funzione sociale dell’arte e, ancor più, sul concetto stesso di socialità. Per Onofri, partecipare al corpo sociale dell’umanità significa identificarsi con esso in modo del tutto concreto, prendere coscienza del Sé cosmico che abita tutte le esistenze — che è tutte le esistenze — e, in questa fondamentale unità, percepire gli “altri” esseri come parti del proprio più vasto Sé.
«Il mondo esterno di un uomo è allora suo concreto mondo interno; e mentre prima egli amava egoisticamente se stesso come persona fisica, in quanto sentiva vivere chiuso in sé medesimo lo spirito d’uomo, ora ama, in quanto essi sono lui stesso, esseri a lui esteriori, che vivono in funzione di sua reale interiorità, ma come oggettivati innanzi a lui. Gli esseri sono ormai le immagini dell’io celeste di quell’uomo. Egli ama il mondo “esterno” come suo vero Io».
Da ciò ne conseguirebbe per l’artista, come diretta conseguenza, un’arte pienamente consapevole e matura:
«È la stessa creatività cosmica quella che agisce nel vero artista, il quale concepisce ed esprime la sua opera. Diventarne consci, significherà per noi, come sempre, mutare in azione assolutamente individuale-cosmica quella che era azione personale-collettiva di tradizione e di razza, trasformando l’antica ispirazione passiva, operata nell’uomo dagli dèi plurali, in una nuova ispirazione cosciente e attiva, operata nell’uomo dall’Io Unico, dalla sua stessa individualità universale».
Veniamo pertanto al capitolo settimo — Il mondo come opera d’arte dell’Io cosmico — che principia con una dissertazione sui vari stati di coscienza umani (stato di veglia, sonno e morte) e sul concetto dell’Uomo Cosmico originario (chi conosce, anche solo di sfuggita, la Mandukya Upanishad e il samkhya indiani, vi può facilmente ravvisare degli echi, pur se diluiti e cristianizzati), passa poi a illustrare in termini molto chiari quello che l’Autore stesso definisce il “prodigio” del Divenire cosmico: «quell’io che all’origine era Unico, e portava nel suo grembo universale ogni essere ed ogni cosa, ora vive conscio di sé e pieno della sua essenzialità mondiale in ciascuna coscienza individuale, cioè in ogni uomo; ed è tutto intero in ciascuno, è interamente uno in ciascuno dei singoli uomini [diremmo noi, con maggiore precisione, in ciascuno dei singoli esseri]. S’è moltiplicato, ma per essersi moltiplicato, non perciò la sua potenza s’è suddivisa e ridotta in particelle. Non s’è spezzato e frantumato, se non per la sua stessa onnipotenza, per la quale ha moltiplicato la sua interezza unitaria in tante unità, che ri-sono ciascuna in se stessa l’intero; ciascuna è tutto il mondo, in quella certa sua forma e orientazione individuale. […]
Se dunque il senso della creazione è che ciascuno prenda consapevolezza e potenza dell’insieme, è ovvio che anche l’opera d’arte, come creazione individuale, partecipi di questa legge creativa e abbia in sé i caratteri dell’auto-conoscenza e dell’auto-sviluppo dell’uomo, sotto specie di immagini che esprimono appunto l’interiorità cosmica dell’uomo, e non più soltanto di immagini esteriori all’uomo, anche se divine».
Il capitolo conclusivo (che, se si include l’introduzione, realizza un totale di nove capitoli) porta a compimento alcune riflessioni (non sempre condivisibili ma cui si deve riconoscere che sono sempre animate di genuino fervore) percorrenti l’intero testo. Particolarmente azzeccata, a nostro avviso, appare la definizione del tragico in riferimento alla vita stessa —
«Quello stesso Essere che abita in noi ci spinge a cercare, a lavorare nel mondo, a soffrire, per rompere il guscio del tragico no, entro il quale si sta segregati. I colpi dolorosi del destino ce li attiriamo inconsapevolmente noi stessi (in funzione di Io cosmico inconscio) dal di dentro di quel guscio, perché venga alfine come assottigliato da quei colpi, e noi si possa uscire allora nella riconosciuta presenza della nostra spiritualità. Tutte le tragedie, e l’essenza stessa della “tragedia” sono questo bisogno inconscio di liberazione e di purificazione che in noi lavora. Ed ecco tutta la vita con ogni suo tormento e fatica, con ogni sua gioia e con ogni anticipato presentimento di luce, quale un immenso laboratorio di iniziazione: iniziazione lenta e continua al Mistero fondamentale della nostra essenza umana».
E finalmente Onofri ritorna dai suoi voli filosofico-teologici per parlare del ruolo della poesia futura che, allontanatasi dalla poesia “spontanea, anonima, inconscia e collettiva” del passato, deve rivelare una spontaneità superiore, sopracosciente e divina. Concentrando in estrema sintesi la propria tesi, egli così riassume:
«L’Arte antica era d’ispirazione collettiva divina, e agiva dall’esterno degli uomini come azione spirituale dinamica, elaboratrice della loro personalità fisica terrestre mediante azioni sociali, ecc. L’Arte moderna è d’ispirazione personale umana, soggettivamente psicologica, estetica, simbolica. L’Arte futura tende a diventare espressione di un’interiorità universalmente umana, realizzata in quanto oggettivamente cosmica, in quanto l’interiorità dell’artista, nata a nuovo spiritualmente, ed uscita addirittura dalla sua personalità corporea, prenderà attraverso i segni espressivi (linee, colori, note, parole, gesti) una persona estetica composta dai suoi propri segni espressivi. […]
Un’età di grandissimi artisti deve sorgere ancora sulla terra».
Con questa speranza — o certezza che sia — si conclude il saggio di Arturo Onofri. Un saggio equilibrato e lucido ma insieme appassionato e vibrante, pur se talvolta eccessivamente didascalico e indisposto (incapace?) a dare un corpo meno astratto alle intuizioni circa la poesia futura.
Presentando ora l’illuminante The Future Poetry di Sri Aurobindo, invitiamo il lettore a non tentare un qualche confronto fra i due saggi. Non è nelle nostre intenzioni quello di creare una sorta di competizione. L’argomento affrontato è il medesimo, talune intuizioni combaciano, e tuttavia tutt’altro spirito aleggia fra le pagine di Sri Aurobindo. In un certo senso, come dicevano all’inizio, il saggio di Onofri aiuta ad apprezzare in modo più completo il testo di Sri Aurobindo che, per quanto provvisorio (l’Autore aveva in programma una vasta revisione dell’opera, che i suoi molteplici impegni purtroppo mai permisero), offre alcuni approfondimenti la cui importanza non è ancora stata sufficientemente valutata. Ci auguriamo che questo articolo possa essere un modesto contributo in tale direzione.
The Future Poetry (32 capitoli, 308 pagine totali)
Senza perdersi in preamboli, Sri Aurobindo entra subito nel cuore del problema: non a caso il primo capitolo si intitola The Mantra (“Il Mantra”). Ora che l’inglese è sempre più lingua internazionale, non crediamo di escludere molti lettori citando in originale.
«All art starts from the sensuous and sensible, or takes it as a continual point of reference or, at the lowest, uses it as a symbol and a fount of images; even when it soars into invisible worlds, it is from the earth that it soars; but equally all art worth the name must go beyond the visible, must reveal, must show us something that is hidden, and in its total effect not reproduce but create. We may say that the artist creates an ideal world of his own, not necessarily in the sense of ideal perfection, but a world that exist in the idea, the imagination and vision of the creator. More truly, he throws into significant form a truth he has seen, which may be truth of hell or truth of heaven or an immediate truth behind things terrestrial or any other, but is never merely the external truth of earth. By that ideative truth the power, the perfection and the beauty of his presentation and utterance of it his work must be judged».
Questa la premessa. Da qui sorge la possibilità della scoperta, nell’arte futura, «of a closer approximation to what we might call the mantra in poetry, that rhythmic speech which, as the Veda puts it, rises at once from the heart of the seer and from the distant home of the Truth».
Una precisazione diventa subito necessaria. Sri Aurobindo, indiano di nascita (bengalese, per la precisione), non si legò mai ad alcuna confessione religiosa; gli antichi testi indiani che spesso cita — i Veda, le Upanishad, la Bhagavad-Gita — sono testi di poesia mistica (e tra i più belli della poesia universale, oltretutto), ed è come poeta mistico che suscitano in lui il massimo interesse. Profondo conoscitore e ammiratore dei grandi classici della poesia sanscrita, greca e latina, come pure di quella italiana, inglese e bengali (tutti letti rigorosamente nell’originale, com’è d’obbligo per assaporarne a pieno il dettato) — a queste lingue, per sua espressa ammissione, appartengono le sue preferenze poetiche —, Sri Aurobindo è da considerarsi, per citare il premio Nobel Romain Rolland, come «l’ultimo dei grandi Rishi», quei poeti-veggenti che mediante il potere della Parola facevano “saltare a pezzi le salde roccaforti” dell’incosciente materiale per svelarne il “pozzo di miele” racchiuso nel profondo. «Poetry in the past has done that in moments of supreme elevation; in the future there seems to be some chance of its making it a more conscious and steadfast endeavour».
Il secondo capitolo — The Essence of Poetry — principia con una domanda in cui ci si interroga per l’appunto sulla vera essenza della poesia:
«What then is the nature of poetry, its essential law?».
Sri Aurobindo, il Poeta, non ha alcuna intenzione di effettuare una radiografia delle Muse e sottoporle a un esame clinico — qui si tratta, al contrario, di cercare di cogliere le note dominanti di questo grandioso concerto polifonico.
«Not that we need spend any energy in a vain effort to define anything so profound, elusive and indefinable as the breath of poetic creation; to take the myriad-stringed harp of Saraswati to pieces for the purpose of scientific analysis is a narrow and barren amusement. But we stand in need of some guiding intuition, some helpful descriptions which will serve to enlighten our search; to fix in that way, not by definition, but by description, the essential things in poetry is neither an impossible, nor an unprofitable endeavour».
Sri Aurobindo procede anzitutto per eliminazione, sgombrando il campo da valutazioni di tipo esornativo — giacché, in tal caso, «anything pretty, pleasant and melodious with a beautiful idea in it would serve our turn; a song of Anacreon or a plaint of Mimnermus would be as satisfying to the poetic sense as the Oedipus, Agamennon or Odissey, for from this point of view they might well strike us as equally and even, one might contend, more perfect in their light but exquisite unity and brevity. Pleasure, certainly, we expect from poetry as from all art; but the external sensible and even the inner imaginative pleasure are only first elements. For these must not only be refined in order to meet the highest requirements of the intelligence, the imagination and the ear; but afterwards they have to be still farther heightened and in their nature raised beyond even their own noblest levels, so that they may become the support for something greater beyond them; otherwise they cannot lead to the height on which lies the Mantra. […] Therefore poetry has not really done its work, at least its highest work, until it has raised the pleasure of the instrument and transmuted it into the deeper delight of the soul. A divine Ananda, a delight interpretative, creative, revealing, formative, — one might almost say, an inverse reflection of the joy which the universal Soul felt in its great release of energy when it rang out into the rhythmic forms of the universe the spiritual truth, the large interpretative idea, the life, the power, the emotion of things packed into an original creative vision, — such spiritual joy is that which the soul of the poet feels and which, when he can conquer the human difficulties of his task, he succeeds in pouring also into all those who are prepared to receive it. This delight is not merely a godlike pastime; it is a great and illuminative power».
Né, d’altra parte, si può limitare il fatto poetico alla tecnica. «The poet least of all artists need to create with his eye fixed anxiously on the technique of his art. He has to possess it, no doubt; but in the heat of creation the intellectual sense of it becomes a subordinate action or even a mere undertone in his mind, and in his best moments he is permitted, in a way, to forget it altogether. For then the perfection of his sound-movement and style come entirely as the spontaneous form of his soul: that utters itself in an inspired rhythm and an innate, a revealed word, even as the universal Soul created the harmonies of the universe out of the power of the word secret and eternal within him, leaving the mechanical work to be done in a surge of hidden spiritual excitement by the subconscient part of his Nature».
L’ultima parte del capitolo esamina lo stile della prosa in rapporto a quello della poesia. «The privilege of the poet is to go beyond and discover that more intense illumination of speech, that inspired word and supreme inevitable utterance, in which there meets the unity of a divine rhythmic movement with a depth of sense and a power of infinite suggestion welling up directly from the fountain-heads of the spirit within us».
Il capitolo si chiude con una parafrasi del celebre verso di Keats, A thing of beauty is a joy for ever (Endymion, I.1): «It is this greater truth and its delight and beauty for which he is seeking, beauty which is truth and truth beauty and therefore a joy for ever, because it brings us the delight of the soul in the discovery of its own deeper realities. This greater element the more timid and temperate speech of prose can sometimes shadow out to us, but the heightened and fearless style of poetry makes it close and living and the higher cadences of poetry carry in on their wings what the style by itself could not bring. This is the source of that intensity which is the stamp of poetical speech and of the poetical movement. It comes from the stress of the soul-vision behind the word; it is the spiritual excitement of a rhythmic voyage of self-discovery among the magic islands of form and name in these inner and outer worlds».
Il terzo capitolo — Rhythm and Movement — contiene un ulteriore approfondimento di quanto è stato espresso in chiusura del capitolo precedente.
«The Mantra, poetic expression of the deepest reality, is only possible when three highest intensities of poetic speech meet and become indissolubly one, a highest intensity of rhythmic movement, a highest intensity of interwoven verbal form and thought-substance, of style, and a highest intensity of the soul’s vision of truth. All great poetry comes about by a unison of these three elements; it is the insufficiency of one or another which makes the inequalities in the work of even the greatest poets, and it is the failure of some one element which is the cause of their lapses, of the scoriae in their work, the spots in the sun. But it is only at a certain highest level of the fused intensities that the Mantra becomes possible.
It is from a certain point of view the rhythm, the poetic movement that is of primary importance; for that is the first fundamental and indispensable element without which all the rest, whatever its other value, remains inacceptable to the Muse of poetry. A perfect rhythm will often even give immortality to work which is slight in vision and very far from the highest intensities of style. But it is not merely metrical rhythm, even in a perfect technical excellence, which we mean when we speak of poetic movement; that perfection is only a first step, a physical basis. There must be a deeper and more subtle music, a rhythmical soul-movement entering into the metrical form and often overflooding it before the real poetic achievement begins. A mere metrical excellence, however subtle, rich or varied, however perfectly it satisfies the outer ear, does not meet the deeper aims of the creative spirit; for there is an inner hearing which makes its greater claim, and to reach and satisfy it is the true aim of the creator of melody and harmony».
Risulta assai arduo citare degli estratti, da questo libro — la tentazione sarebbe di riportarlo per intero, talmente è difficile trovare frasi che non siano ricche di suggestioni profonde (oltre al timore di lasciarsi sfuggire l’essenziale!). Confidiamo pertanto che il lettore non si accontenti di queste citazioni e si immerga nella lettura integrale del testo.
Un piccolo ma doveroso accenno alla versificazione libera, che tanta importanza ebbe in tutto il Novecento, induce a riflessioni assai attuali, visto che da qualche anno assistiamo a un gradito ritorno alla metrica — arricchita, ci pare, dall’importante sperimentazione compiuta proprio nel corso del XX secolo, in cui ci si è presi tutte le libertà possibili e immaginabili (non sempre felici, ma pur sempre utili, anche solo come provocazione o tentativi falliti). Dopo aver precisato che il «vers libre has done its best when it has either limited its aim in rhythm to a kind of chanting poetical prose or else based itself on a sort of irregular and complex movement which in its inner law, though not in its form, recalls the idea of Greek choric poetry», Sri Aurobindo fa una precisazione che ci pare di grande importanza:
«When mankind found out the power of thought and feeling thrown into fixed and recurring measure of sound to move and take possession of the mind and soul, they were not discovering a mere artistic device, but a subtle truth of psychology, of which the conscious theory is preserved in the Vedic tradition. […] There is perhaps a truth in the Vedic idea that the Spirit of creation framed all the movements of the world by chandas, in certain fixed rhythms of the formative Word, and it is because they are faithful to the cosmic metres that the basic world-movements unchangingly endure. A balances harmony maintained by a system of subtle recurrences is the foundation of immortality in created things, and metrical movement is nothing else than creative sound grown conscious of this secret of its own powers».
Vi sono, è evidente, diversi gradi di attuazione di questo potere. E tali gradi non giungono al loro apice laddove l’abilità tecnica dell’artista è spinta al massimo grado, ma quando il ritmo poetico sgorga dall’interno, dall’anima profonda, e si esprime mediante un movimento proprio, senza che intervengano distorsioni di sorta nella coscienza ricevente. In questo casi, la Musa canta per bocca del poeta (“Menin aeide, thea”, dice Omero in apertura dell’Iliade), e non interviene deformazione alcuna. Qui ci si ricollega al problema del perfetto equilibrio di volume cui si cennava nel libro di Onofri (la cui datazione, ricordiamo, è posteriore al saggio di Sri Aurobindo che stiamo cercando qui di riassumere).
«Poetic rhythm begins to reach its highest levels, the greater poetic movements become possible when, using any of these powers but rising beyond them, the soul begins to make its direct demand and yearn for a profounder satisfaction: they awake when the inner ear begins to listen. Technically, we may say that this comes in when the poet becomes, in Keats’ phrase, a miser of sound and syllable, economical of his means, not in the sense of a niggardly sparing, but of making the most of all its possibilities of sound. It is then that poetry gets farthest away from the method of prose-rhythm. Prose-rhythm aims characteristically at a general harmony in which the parts are subdued to get the tone of a total effect; even the sounds which give the support or the relief, yet to a great extent seem to be trying to efface themselves in order not to disturb by a too striking particular effect the general harmony which is the whole aim. Poetry on the contrary makes much of its beats and measures; it seeks for a very definite and insistent rhythm. But still, where the greater rhythmical intensities are not pursued, it is only some total effect that predominates and the rest is subdued to it. But in these highest, intensest rhythms every sound is made the most of, whether in its suppression or in its swelling expansion, its narrowness or its open wideness, in order to get in the combined effect something which the ordinary harmonic flow of poetry cannot give us.
But this is only the technical side, the physical means by which the effect is produced. It is not the artistic intelligence or the listening physical ear that is most at work, but something within that is trying to bring out the echo of a hidden harmony, to discover a secret of rhythmic infinities within us. It is not a labour of the devising intellect or the aesthetic sense which the poet has achieved, but a labour of the spirit within itself to cast something out of the surge of the eternal depths. The other faculties are there in their place, but the conductor of the orchestral movement is the soul suddenly and potently coming forward to get its own work done by its own higher and unanalysable methods. The result is something as near to wordless music as word-music can get, and with the same power of soul-life, of soul-emotion, of profound supra-intellectual significance. In these higher harmonies and melodies the metrical rhythm is taken up by a spiritual; it is filled with or sometimes it seems rolled away and lost in a music that has really another unseizable and spiritual secret of movement.
This is the intensity of poetic movement out of which the greatest possibility of poetic expression arises. It is where the metrical movement remains as a base, but either enshrines and contains or is itself contained and floats in an element of greater music which exceeds it and yet brings out all its possibilities, that the music fit for the Mantra makes itself audible. It is the triumph of the embodied spirit over the difficulties and limitations of the physical instrument. And the listener seems to be that other vaster and yet identical eternal spirit whom the Upanishad speaks of as the ear of the ear, he who listens to all hearings; “behind the instabilities of word and speech” it is the profound inevitable harmonies of his own thought and vision form which he is listening».
Naturale prosecuzione di questa conclusione risulta essere il capitolo successivo, il quarto — Style and Substance — nel quale viene affrontato il secondo elemento necessario alla perfetta creazione poetica, collegato al primo in modo del tutto naturale.
«Rhythm is the premier necessity of poetical expression because it is the sound-movement which carries on its wave the thought-movement in the word; and it is the musical sound-image which most helps to fill in, to extend, subtilise and deepen the thought impression or the emotional or vital impression and to carry the sense beyond itself into an expression of the intellectuality inexpressible, — always the peculiar power of music. This truth was better understood on the whole or at least more consistently felt by the ancients than by the modern mind and ear, perhaps because they were more in the habit of singing, chanting or intoning their poetry while we are content to read ours, a habit which brings out the intellectual and emotional element, but unduly depresses the rhythmic value. On the other hand modern poetry has achieved a far greater subtlety, minute fineness and curious depths of suggestion in style and thought than was possible to the ancients, — at the price perhaps of some loss in power, height and simple largeness. The ancients would not so easily as the modern have admitted into the rank of great poets writers of poor rhythmic faculty or condoned, ignored or praised in really great poet rhythmic lapses, roughnesses and crudities for the sake of their power of style and substance».
Possedere uno stile originale e avvincente può essere sufficiente per lo scrittore di prosa, non per il poeta — soprattutto il poeta-veggente che presta la propria voce al canto delle Muse.
«Poetry, like the kindred arts of painting, sculpture, architecture, appeals to the spirit of man through significant images, and it makes no essential difference that in this case the image is mental and verbal and not material. The essential power of the poetic word is to make us see, not to make it think or feel; thought and feeling must arise out of the sight or be included in it, but sight is the primary consequence and power of poetic speech. For the poetry has to make us live in the soul and in the inner mind and heart what is ordinarily lived in the outer mind and the senses, and for that he must first make us see by the soul, in its light and with its deeper vision, what we ordinarily see in a more limited and halting fashion by the senses and the intelligence. He is, as the ancients knew, a seer and not merely a maker of rhymes, not merely a jongleur, rhapsodist or troubadour, and not merely a thinker in lines and stanzas. He sees beyond the sight of the surface mind and finds the revealing word, not merely the adequate and effective, but illumined and illuminating, the inspired and inevitable word, which compels us to see also. To arrive at that word is the whole endeavour of poetic style».
Alcuni termini contenuti in questa ultima citazione, riguardanti i gradi di attuazione poetica, verranno ripresi e approfonditi più avanti, ove si parlerà per l’appunto di poesia adeguata, efficace, ispirata,illuminata, inevitabile. Ma seguiamo il percorso graduale attraverso cui Sri Aurobindo ci conduce nei segreti del verbo poetico, riconoscendo l’immaginazione poetica (quand’essa è genuina) come un potere di gran lunga superiore alla semplice fantasia sorta da geniali artifici intellettuali o emozionali: si tratta di un potere creativo che scaturisce dalla visione dell’essenza delle cose —
«The essential poetic imagination does not stop short with even the most subtle reproduction of things external or internal, with the richest or delicatest play of fancy or with the most beautiful colouring of word or image. It is creative, not of either the actual or the fictitious, but of the more and the most real; it sees the spiritual truth of things, — of this truth too there are many gradations, — which may take either the actual or the ideal for its starting-point. The aim of poetry, as of all true art, is neither a photographic or otherwise realistic imitation of Nature, nor a romantic furbishing and painting or idealistic improvement of her image, but an interpretation by the images she herself afford us, not on one but on many planes of her creation, of that which she conceals from us, but is ready, when rightly approached, to reveal.
This is true, because the highest and essential aim of poetry; but the human mind arrives at it only by a succession of steps, the first of which seems far enough from its object. It begins by stringing its most obvious and external ideas, feelings and sensations of things on a thread of verse in a sufficient language of no very high quality. But even when it gets to a greater adequacy and effectiveness, it is often no more than a vital, an emotional or an intellectual adequacy and effectiveness. There is a strong vital poetry which powerfully appeals to our sensations and our sense of life, like much of Byron or the less inspired mass of the Elizabethan drama; a strong emotional poetry which stirs our feelings and gives us the sense and active image of the passions; a strong intellectual poetry which satisfies our curiosity about life and its mechanisms, or deals with its psychological and other “problems”, or shapes for us our thoughts in an effective, striking and often quite resistlessly quotable fashion. All this has its pleasure for the mind and the surface soul in us, and it is certainly quite legitimate to enjoy them and to enjoy them strongly and vividly on our way upward; but if we rest content with these only, we shall never get very high up the hill of the Muses.
The style of such poetry corresponds usually to its substance; for between the word and the vision there tends to be, though there is not by any means perfectly or invariably, a certain equation. There is a force of vital style, a force of emotional style, a force of intellectual style which we meet constantly in poetry and which it is essential to distinguish from the language of the higher spiritual imagination».
Sri Aurobindo, per rivestire della massima concretezza e luce le proprie argomentazioni, offre spesso esempi di versi poetici presi dalla letteratura mondiale — nella fattispecie, in inglese e in sanscrito, ai quali potremmo affiancare, per affinità, il seguente verso di Dante:
E ’n la sua volontade è nostra pace
che costituisce certamente uno dei versi più squisiti dell’intera letteratura universale, ma la cui mirabile fattura è da imputarsi unicamente all’estrema perizia e sensibilità dell’Autore, non recando nulla nella sua vibrazione che possa conferirgli un’attribuzione mantrica.
«There is a higher style of poetry than this which yet falls below the level to which we have to climb. It is no longer poetical language or a merely intellectual, vital or emotional force, but instead or in addition a genuinely imaginative style, with a certain, often a great beauty of vision in it, whether objective or subjective, or with a certain, often a great but indefinite soul-power bearing up its movement of word and rhythm. […] But this too is not that highest intensity of the revelatory poetic word from which the Mantra starts. It has a certain power of revelation in it, but the deeper vision is still coated up in something more external; sometimes the poetic intention of decorative beauty, sometimes some other deliberate intention of the poetic mind overlays with the more outward beauty, beauty of image, beauty of thought, beauty of emotion, the deeper intention of the spirit within, so that we have still to look for that beyond the image rather than are seized by it through the image. A high pleasure is there, not unspiritual in its nature, but still it is not that point where pleasure passes into or is rather drowned in the pure spiritual Ananda, the ecstasy of the creative, poetic revelation.
The intensity comes where everything else may be present, but all is powerfully carried on the surge of a spiritual vision which has found its inspired and inevitable speech. All or any of the other elements may be there, but they are at once subordinated and transfigured to their highest capacity for poetic light and rapture. This intensity belongs to no particular style, depends on no conceivable formula of diction. It may be the height of the decorative imaged style as often we find it in Kalidasa or Shakespeare; it may be that height of bare and direct expression where language seems to be used as a scarcely felt vaulting-board for a leap into the infinite; it may be the packed intensity of language which uses either the bare or the imaged form at will, but fills every word with its utmost possible rhythmic and thought suggestion. But in itself it depends on none of these things; it is not a style, but poetic style itself, the Word; it creates and carries with it its elements rather than is created by them. Whatever its outward forms, it is always the one fit style for the Mantra».
Il capitolo successivo, il quinto — Poetic Vision and the Mantra — ci conduce nel sancta sanctorum della creazione poetica. Perciò, ampie citazioni si rivelano necessarie.
«This highest intensity of style and movement which is the crest of the poetical impulse in its self-expression, the point at which the aesthetic, the vital, the intellectual elements of poetic speech pass into the spiritual, justifies itself perfectly when it is the body of a deep, high or wide spiritual vision into which the life-sense, the thought, the emotion, the appeal of beauty in the thing discovered and in its expression — for all great poetic utterance is discovery, — rise on the wave of the culminating poetic inspiration and pass into an ecstasy of sight. In the lesser poets these moments are rare and come like brilliant accidents, angels’ visits; in the greater they are more frequent outbursts; but in the greatest they abound because they arise from a constant faculty of poetic vision and poetic speech which has its lesser and its greater moments, but never entirely fails these supreme masters of the expressive word.
Vision is the characteristic power of the poet, as is discriminative thought the essential gift of the philosopher and analytic observation the natural genius of the scientist. The Kavi was in the idea of the ancients the seer and revealer of truth, and though we have wandered far enough from that ideal to demand from him the pleasure of the ear and the amusement of the aesthetic faculty, still all great poetry instinctively preserves something of that higher turn of its own aim and significance. Poetry, in fact, being Art, must attempt to make us see, and since it is to the inner senses that it has to address itself, — for the ear is its only physical gate of entry and even there its real appeal is to an inner hearing, — and since its object is to make us live within ourselves what the poet has embodied in his verse, it is an inner sight which he opens in us, and this inner sight must have been intense in him before he can awaken it in us.
Therefore the greatest poets have been always those who have had a large and powerful interpretative and intuitive vision of Nature and life and man and whose poetry has arisen out of that in a supreme revelatory utterance of it. Homer, Shakespeare, Dante, Valmiki, Kalidasa, however much they may differ in everything else, are at one in having this as the fundamental character of their greatness».
Il mondo attuale, come ben sappiamo, è viziato dal suo culto eccessivo per la ragione. Perciò, i poeti che vengono letti di più sono quelli che ci appaiono più razionali e raffinatamente intellettualizzati — un Montale, un Eliot, per citarne un paio fra i più alti. «We expect the poet to use his great mastery of language to help us in this endeavour; we ask of him not so much perfect beauty of song or largeness of creative vision as a message to our perplexed and seeking intellects. Therefore we hear constantly today of the “philosophy” of a poet, even the most inveterate beautifier of commonplaces being forcibly gifted his admirers with a philosophy, or of his message, — the message of Tagore, the message of Whitman. We are asking then of the poet to be, not a supreme singer or an inspired seer of the worlds, but a philosopher, a prophet, a teacher, even something perhaps of a religious or ethical preacher. It is necessary therefore to say that when I claim for the poet the role of a seer of Truth and find the source of great poetry in a great and revealing vision of life or God or the gods or man or Nature, I do not mean that it is necessary for him to have an intellectual philosophy of life or a message for humanity, which he chooses to express in verse because he has the metrical gift and the gift of imagery, or that he must give us a solution of the problems of the age, or come with a mission to improve mankind, or, as it is said, “to leave the world better than he found it”. As a man, he may have these things, but the less he allows them to get the better of his poetic gift, the happier it will be for his poetry. Material for his poetry they may give, an influence in it they may be, provided they are transmuted into vision and life by the poetic spirit, but they can be neither its soul nor its aim, nor give the law to its creative activity and its expression.
The poet-seer sees differently, thinks in another way, voices in quite another manner than the philosopher or the prophet. The prophet announces the Truth as the Word, the Law or the command of the Eternal, he is the giver of the message; the poet shows us Truth in its power of beauty, in its symbol or image, or reveals it to us in the workings of life, and when he has done that, his whole work is done; he need not be its explicit spokesman or its official messenger. The philosopher’s business is to discriminate Truth and put its parts and aspects into intellectual relation with each other; the poet’s is to seize and embody aspects of Truth in their living relations, or rather — for that is too philosophical a language — to see her feature and, excited by the vision, create in the beauty of her image.
No doubt, the prophet may have in him a poet who breaks out often into speech and surrounds with the vivid atmosphere of life the directness of his message; he may follow up his injunction “Take no thought for the morrow,” by a revealing image of the beauty of the truth he enounces, in the life of Nature, in the figure of the lily, or link it to human life by apologue and parable. The philosopher may bring in the aid of colour and image to give some relief and hue to his dry light of reason and water his arid path of abstraction with some healing dew of poetry. But these are ornaments and not the substance of his work; and if the philosopher makes his thought substance of poetry, he ceases to be a philosopher and becomes a poet-seer of Truth. Thus the more rigid metaphysicians are perhaps right in denying to Nietzsche the name of philosopher; for Nietzsche does not think, but always sees, turbidly or clearly, rightly or distortedly, but with the eye of the seer rather than the brain of the thinker. On the other hand we may get great poetry which is full of a prophetic enthusiasm of utterance or is largely or even wholly philosophic in its matter; but this prophetic poetry gives us no direct message, only a mass of sublime inspirations of thought and image, and this philosophic poetry is poetry and lives as poetry in so far as it departs from the method, the expression, the way of seeing proper to the philosophic mind. It must be vision pouring itself into thought-images and not thought trying to observe truth and distinguish its province and bounds and fences.
In earlier days this distinction was not at all clearly understood and therefore we find even poets of great power attempting to set philosophic systems to music or even much more prosaic matter than a philosophic system, Hesiod and Virgil setting about even a manual of agriculture in verse! In Rome, always a little blunt of perception in the aesthetic mind, her two greatest poets fell a victim to this unhappy conception, with results which are a lesson and a warning to all posterity. Lucretius’ work lives only, in spite of the majestic energy behind it, by its splendid digressions into pure poetry, Virgil’s Georgics by fine passages and pictures of Nature and beauties of word and image; but in both the general substance is lifeless matter which has floated to us on the stream of Time, saved only by his beauty of its setting. India, and perhaps India alone, managed once or twice this kind of philosophic attempt into a poetic success, in the Gita, in the Upanishads and some minor work modelled upon them. But the difference is great. The Gita owes its poetical success to its starting from a great and critical situation in life, its constant keeping of that in view and always returning upon it, and to its method which is to seize on a spiritual experience or moment or stage in the inner life and throw it into the form of thought; and this, though a delicate operation, can well abide within the limits of the poetic manner of speech. Only where it overburdens itself with metaphysical matter and deviates into sheer philosophic definition and discrimination, which happens especially in two or three of its closing chapters, does the poetic voice sink under the weight, even occasionally into flattest versified prose. The Upanishads too, and much more, are not at all philosophic thinking, but spiritual seeing; these ancient stanzas are a rush of spiritual intuitions, flames of a burning fire of mystic experience, waves of an inner sea of light and life, and they throw themselves into the language and cadence of poetry because that is their natural speech and a more intellectual utterance would have falsified their vision.
Nowadays we have clarified our aesthetic perceptions sufficiently to avoid the mistake of the Roman poets; but in a subtler form the intellectual tendency still shows a dangerous spirit of encroachment. For the impulse to teach is upon us, the inclination to be an observer and critic of life, — there could be no more perilous definition than Arnold’s poetic “criticism of life”, in spite of the saving epithet, — to clothe, merely, in the forms of poetry a critical or philosophic idea of life to the detriment of our vision. Allegory with its intellectual ingenuities, its facile wedding of the abstract idea and the concrete image, shows a tendency to invade again the domain of poetry. And there are other signs of the intellectual malady of which we are almost all of us the victims. Therefore it is well to insist that the native power of poetry is in its sight, not in its intellectual thought-matter, and its safety is in adhering to this native principle of vision; its conception, its thought, its emotion, its presentation, its structure must rise out of that or else rise into it before it takes its finished form. The poetic vision of things is not a criticism of life, not an intellectual or philosophic view of it, but a soul-view, a seizing by the inner sense. The Mantra too is not in its substance or its form a poetic enunciation of philosophic verities, but a rhythmic revelation or intuition arising out of the soul’s sight of God and Nature and itself and of the world and of the inner truth — occult to the outward eye — of all that peoples it, the secrets of their life and being.
In the attempt to fix the view of life which Art must take, distinctions are constantly laid down, such as the necessity of a subjective or an objective treatment or of a realistic or an idealistic view, which mislead more than they enlighten. Certainly, one poet may seem to excel in the concrete presentation of things and falter or be less sure in his grasp of the purely subjective, while another may move freely in the more subjective worlds and be less at home in the concrete; and both may be poets of a high order. But when we look, closer, we see that just as a certain objectivity is necessary to make poetry live and the thing seen stand out before our eyes, so on the other hand even the most objective presentation starts from an inner view and subjective process of creation or at least a personal interpretation and transmutation of the thing seen. The poet really creates out of himself and not out of what he sees outwardly: that outward seeing only serves to excite the inner vision to its work. Otherwise his work would be a mechanical construction and putting together, not a living creation».
La lunga citazione appena fornita era doverosa, per non rischiare di rendere il discorso troppo frammentario, il che lo avrebbe sottoposto troppo facilmente a interpretazioni distorte e arbitrarie, giacché gli enunciati qui contenuti, se citati in modo insufficiente, potevano apparire rigidi e assolutisti. E questo, a ben vedere, è un rischio tipico della prosa, o comunque del testo non poetico — sappiamo bene, infatti, che estrapolare una frase da un testo filosofico e utilizzarla separatamente dal contesto nella quale è inserita, può distorcere, talvolta anche in modo notevole, il suo senso. Dall’altro lato, si possono citare singoli versi di poesia senza mai cadere in questo pericolo, giacché ciò che conta primariamente qui è la bellezza.
Un’altra lunga citazione è similmente necessaria per chiarire l’evoluzione del dettato poetico e le possibilità della poesia futura.
«From our present point of view we may say that the poet may do as he pleases in all that is not the essential matter. Thought-matter may be prominent in his work or life-substance predominate. He may proceed by sheer force of presentation or by direct power of interpretation. He may make this world his text, or wander into regions beyond, or soar straight into the pure empyrean of the infinite. To arrive at the Mantra he may start from the colour of a rose, or the power or beauty of a character, or the splendour of an action, or go away from all these into his own secret and its most hidden movements. The one thing needful is that he should be able to go beyond the word or image he uses or the form of the thing he sees, not be limited by them, but get into the light of that which they have the power to reveal and flood them with it until they overflow with its suggestions or seem even to lose themselves and disappears into sight; the personality of the seer is lost in the eternity of the vision, and the Spirit of all seems alone to be there speaking out sovereignly its own secrets.
But the poetic vision, like everything else, follows necessarily the evolution of the human mind and according to the age and environment, it has its ascent and descent, its high levels and its low returns. Ordinarily, it follows the sequence of an abrupt ascent pushing to a rapid decline. The eye of early man is turned upon the physical world about him, the interest of the story of life and its primary ideas and emotions; he sees man and his world only, or he sees the other worlds and their gods and beings, but it is still his own physical world in a magnified and heightened image. He asks little of poetry except a more forceful vision of familiar things, things real and things commonly imagined, which will help him to see them more largely and feel them more strongly and give him a certain inspiration to live them more powerfully. Next, — but this transition is sometimes brief or even quite overleaped, — there comes a period in which he feels the joy and curiosity and rich adventure of the expanding life-force within him, the passion and romance of existence and it is this in all its vivid colour that he expects art and poetry to express and satisfy him through the imagination and the emotions with its charm and power. Afterwards he begins to intellectualise, but still on the same subject-matter; he asks now from the poet a view of things enlightened by the inspired reason and beautifully shaped by the first strong and clear joy of his developed aesthetic sense. A vital poetry appealing to the imagination through the sense-mind and the emotions and a poetry interpretative of life to the intelligence are the fruit of these ages. A later poetry tends always to return on these forms with a more subtilised intellect and a richer life-experience. But, having got so far, it can go no farther and there is the beginning of a decadence.
Great things may be done by poetry within these limits and the limited lifetime it gives to a literature; but it is evident that the poet will have a certain difficulty in getting to a deeper vision, because he has to lean entirely on the external thought and form; he must be subservient to them because they are the only safe support he knows, and he gets at what truth he can that may be beyond them with their veil still thickly interposing between him and a greater life. A higher level can come, bringing with it the possibility of a renewed and prolonged course for the poetic impulse, if the mind of man begins to see more intimately the forces behind life, the powers concealed by our subjective existence. The poet can attempt to reveal these unsuspected ranges and motives and use the outward physical and vital and thought symbol only as a suggestion of greatest things. Yet a higher level can be attained, deeper depths, larger horizons when the soul in things comes nearer to man or when other worlds than the physical pen themselves to him. And the entire liberation of the poetic vision to see most profoundly and the poetic power to do its highest work will arrive when the spiritual itself is the possession of the greatest minds and the age stands on the verge of its revelation.
Therefore it is not sufficient for poetry to attain high intensities of word and rhythm; it must have, to sill them, an answering intensity of vision and always new and more and more uplifted or inward ranges of experience. And this does not depend only on the individual power of vision of the poet, but on the mind of his age and country, its level of thought and experience, the adequacy of its symbols, the depths of its spiritual attainment. A lesser poet in a greater age may give us occasionally things which exceed in this kind the work of less favoured immortals. The religious poetry of the later Indian tongues has for us fervours of poetic revelation which in the great classic are absent, even though no mediaeval poet can rank in power with Valmiki and Kalidasa. The modern literatures in Europe commonly fall short of the Greek perfection of harmony and form, but they give us what the greatest Greek poets had not and could not have. And in our own days a poet of secondary power in his moments of inspiration can get to a vision far more satisfying to the deepest soul within us than Shakespeare’s or Dante’s. Greatest of all is the promise of the age that is coming, if the race fulfils its highest and largest opening possibilities and does not founder in a vitalistic bog or remain tied in the materialistic paddock; for it will be an age in which all the worlds are beginning to withdraw their screens from man’s gaze and invite his experience, and he will be near to the revelation of the Spirit of which they are, as we choose, the obscuring veils, the significant forms and symbols or else the transparent raiment. It is as yet uncertain to which of these consummation destiny is leading us».
Sulla base di queste parole conclusive del capitolo, risulta consequenziale l’argomento del capitolo successivo, il sesto, The National Evolution of Poetry. Il discorso si circoscrive sempre più allo scopo di espandersi senza limiti. Il bagaglio che all’artista giunge dall’ambiente e dal momento storico cui appartiene, non è un fardello che lo opprime e al quale deve cieca obbedienza, bensì uno stimolo e un trampolino di lancio.
«The poet, we must always remember, creates out of himself and has the indefeasible right to follow freely the breath of the spirit within him, provided he satisfies in his work the law of poetic beauty. The external forms of his age and his nation only give him his starting-point and some of his materials and determine to some extent, by education, by a subconscious and automatic environmental pressure, the room he finds for the free play of his poetic spirit».
Il vero artista trae la propria ispirazione sempre e innanzi tutto dall’interno, o dall’alto, utilizzando le circostanze esteriori come meri pretesti. Sri Aurobindo descrive qui il poeta come solo un vate sa fare — ovvero, conoscendo per esperienza diretta il processo creativo nelle sue componenti più alte e profonde:
«A soul expressing the eternal spirit of Truth and Beauty through some of the infinite variations of beauty, with the word for its instrument, that is, after all, what the poet is, and it is to a similar soul in us seeking the same spirit and responding to it that he makes his appeal. It is when we can get this response at its purest and in its most direct and heightened awakening that our faculty of poetic appreciation becomes at once surest and most intense. It is, we may say, the impersonal enjoyer of creative beauty in us responding to the impersonal creator and interpreter of beauty in the poet. For it is the impersonal spirit of Truth and Beauty that is seeking to express itself through his personality; and it is that and not his personal intelligence which finds its own word and seems itself to create through him in his highest moments of inspiration. And this Impersonal is concerned only with the creative idea and the motive of beauty which is seeking expression; its sole purpose is to find the perfect expression, the inevitable word and the rhythm that reveals. All else is subordinate, accidental, the crude material and the conditioning medium of this essential endeavour».
La personalità del poeta è certo un aspetto che non si può trascurare, esattamente come per nulla trascurabile è la personalità del lettore o, in modo più allargato, il temperamento collettivo dei lettori. Al punto che difficilmente un poeta viene giudicato correttamente dai suoi contemporanei; il più delle volte occorrono diverse generazioni di lettori per esprimere un verdetto in qualche misura preciso su di un poeta. Rabindranath Tagore ai suoi tempi era grandemente acclamato e lodato; oggi è caduto in un oblio quasi totale; domani una rivalutazione permetterà probabilmente di distaccarsi da un eccessivo plauso come da un’immeritata indifferenza. Nel caso di William Blake, per contro, è passato quasi un secolo dalla sua morte prima che la sua poesia venisse apprezzata come merita.
È comunque evidente che la lingua attraverso la quale si esprime il poeta ha una sua influenza, che travalica sempre più l’aspetto nazionalista. Come diceva giustamente Cioran, noi non abitiamo un paese, abitiamo una lingua. Per fare qualche esempio, la poesia francese comprende autori africani, la poesia tedesca accorpa in sé nazioni germaniche come l’Austria, la poesia spagnola include l’America latina, mentre la poesia inglese abbraccia non solo la produzione irlandese e statunitense, ma anche una rilevante porzione della letteratura moderna di paesi come l’India, l’Australia e i Caraibi.
Sri Aurobindo si concentra, a questo punto (e per ovvie ragioni), sull’evoluzione della poesia inglese.
I due capitoli che seguono — il settimo e l’ottavo (The Character of English Poetry I & II) — sono dedicati a individuare le caratteristiche salienti della poesia inglese, vista nel più ampio panorama europeo e partendo dall’influenza del retaggio greco-romano. «The poetic mind of Greece and Rome has pervaded and largely shaped the whole artistic production of Europe; Italian poetry of the great age has thrown on some part of it at least a stamp only less profound; French prose and poetry — but the latter in much less degree, — have helped more than any other literary influence to form the modern turn of the European mind and its mode of expression; the short-lived outbursts of creative power in the Spain of Caderón and the Germany of Goethe exercised an immediate, a strong, though not an enduring influence; the newly created Russian literature has been, though more subtly, among the most intense of recent cultural forces».
Una delle più importanti peculiarità della lingua inglese sta nel suo miscuglio tra il latino e il sassone, che ne ha fatto un singolare intreccio di musicalità melodiosa e di ritmo poderoso. Le lingue germaniche sono in linea di massima troppo aspre per il linguaggio poetico: «In German, so rich in music, in philosophy, in science, the great poetic word has burst out rarely: one brief and strong morning time illumined by the calm, large and steady blaze of Goethe’s genius and the wandering fire of Heine, afterwards a long unlighted stillness. In the North here or there a solitary genius, Ibsen, Strindberg. Holland, another Teutonic country which developed an art of a considerable but almost wholly objective power, is mute in poetry. It would almost seem that there is still something too thick and heavy in the strength and depth of the Teutonic composition for the ethereal light and fire of the poetic word to make its way freely through the intellectual and vital envelope». In Inghilterra, per contro, le sonorità del latino hanno ammorbidito notevolmente i suoni rudi dei popoli germanici, così come la fioritura della tradizione celtica nella Gran Bretagna ha influito nel determinare una svolta decisiva (anche in senso poetico) nel temperamento inglese. Il risultato, è stato un felice connubio di delicata musicalità e di forza, che ha dato vita a una delle più ricche e interessanti produzioni poetiche moderne. E da quando la lingua inglese ha notevolmente allargato le sue frontiere — in America, in Australia, in India —, il suo valore sembra arricchirsi sempre più. «Its richness, its constant freshness, its lavish expenditure of genius exulting in chainless freedom, delivered from all meticulous caution, its fire and penetrating force of imagination, its lambent energy of poetic speech, its constant self-liberation into intensest beauty of self-expression are the rewards of its courage and its liberty. These things are of the greatest value in poetry. They lead besides to possibilities which are of the highest importance to the poetry of the future».
A questo punto, iniziano una serie di capitoli — cinque, per la precisione, dal titolo comune The Course of English Poetry — nei quali Sri Aurobindo ripercorre l’evoluzione della poesia inglese, individuandone le tappe più significative e tracciando illuminati profili dei poeti inglesi più dotati. Sono capitoli di incommensurabile spessore, ma che riassumiamo qui all’estremo, per non rischiare di andare oltre i limiti che ci siamo posti nel redigere il presente articolo. In linea generale si può notare come la poesia inglese, pur con brusche virate e svolte improvvise, abbia seguito un percorso tutto sommato lineare, per certi versi esemplare, partendo da una poesia volta decisamente all’espressione della facciata più materiale della realtà (in Chaucer, anzitutto), soprattutto in rapporto alla vita umana, e senza alcuna idealizzazione (come invece accadde in Omero), per poi passare all’espressione della prodiga complessità della vita in tutte le sue forme ed espressioni (che trova la sua più alta espressione in Shakespeare — capitolo X, mirabile tratteggio del teatro elisabettiano), e giungere a una poesia più intellettualizzata (con Milton insediato al centro in modo titanico, similmente al Satana del suo Paradise Lost). Dopo due ulteriori capitoli nei quali Sri Aurobindo apre il discorso alla poesia moderna (The Movement of Modern Literature, I & II), arriviamo all’epoca romantica, che rappresenta un tentativo (prematuro e parziale) di andare oltre l’intelletto, per cercare di esprimere potenti verità sovrarazionali. Il gruppo di poeti inglesi che tentarono (consciamente o meno) tale operazione, sono rappresentati da Blake, Shelley, Wordsworth, Coleridge, Byron, Keats, cui Sri Aurobindo conferisce l’appellativo di “poeti dell’aurora” (Poets of the Dawn è il titolo di tre capitoli, dal XVI al XVIII) proprio perché in certa misura precursori della poesia del futuro. Quindi, proseguendo nel ripercorrere le tappe salienti della poesia inglese, dopo una parentesi che è come un ritorno indietro (ma solo allo scopo di acquisire una adeguata preparazione intellettuale che rendesse possibile il futuro sviluppo della poesia inglese), identificabile nella poesia vittoriana (capitolo XIX, The Victorian Poets), Sri Aurobindo analizza nei quattro capitoli che vanno dal XX al XXIII (titolati Recent English Poetry, che egli voleva ulteriormente e accuratamente espandere, inserendo uno o più capitoli totalmente nuovi, così come aveva intenzione di aggiungere un capitolo sui poeti metafisici del XVII secolo) la poesia contemporanea (Whitman, Carpenter, Yeats, A.E.). Particolarmente interessante risulta essere la riflessione sulla musicalità della poesia del futuro in rapporto a quella passata, che conclude con queste parole: «Beyond all analysis or set provision of means that is the constant attempt to which poetry must move, if this new realm is to open to its footsteps, not to suit the metre to the intellectual or even the emotional sense or to cast it in the moulds of life, but to seize some sound, some intonation of the voice of the soul, the lyric of the epic chandas, or the large or simple measures of its meditation and creation, which, as the old Vedic theory would say, initiate, roll out and support all the steps of the universe. This intoned music in which the outer form becomes an external subtle means and suggestion, but the building power is other and brings in a spiritual accompaniment which is the real thing we have to listen to, opens at least one line in which we can arrive at that greater hearing whose wave can bring with it the inspiring word of a higher vision. For the musical tone of the older poetry is the simply sensuous, the emotional, the thought or the life tone with the spiritual cadence as the result of some strong intensity of these things, but here is some beginning of a direct spiritual intonation».
Risulta ovvio che una simile poesia del futuro implica necessariamente un radicale cambiamento di coscienza da parte del poeta e, in una certa misura, necessariamente, anche da parte del lettore. «A self-exceeding of the intellect and a growth of man into some first freedom and power of an intuitive mentality supported by the liberated intelligence is in its initial travail of new birth». Oltre il freddo razionalismo che ci attanaglia, una nuova coscienza — sovrarazionale e globale — sta per emergere dall’uomo e, di conseguenza, l’arte incomincia, qua e là, a presagirne e a tentare di esprimere le sue meraviglie.
Il capitolo XXIV — New Birth or Decadence? — che conclude la prima parte del saggio, verte su una questione che in certo qual modo riassume e risolve quanto espresso finora: «If poetry is a highly charged power of aesthetic expression of the soul in man, it must follow in its course of evolution the development of that soul. I put it that from this point of view the soul of man like the soul of Nature can be regarded as an unfolding of the spirit in the material world. Our unfolding has its roots in the soul of the physical life; its growth shoots up and out in many directions in the stalk and branches of the vital being; it puts forth the opulence of the buds of mind and there, nestling in the luxuriant leaves of mind and above it, out from the spirit which was concealed in the whole process must blossom the free and infinite soul of man, the hundred-petalled rose of God». L’attuale fase di decadenza — in poesia come in tutte le altre arti — è il segno certo che l’artista contemporaneo sta cercando, sia pur maldestramente, di esprimere quel qualcosa di più che nel passato è stato espresso solo di sfuggita, quel qualcosa che si situa molto al di là degli attuali umani limiti fisici vitali e mentali, pur senza annullarli né sorpassarli in una trascendenza esclusivista, e che consiste nello spirituale, nel contatto con l’Eterno, nell’ascesa verso piani di coscienza e beatitudine divini. «The human intelligence seems on the verge of an attempt to rise through the intellectual into an intuitive mentality; it is no longer content to regard the intellect and the world of positive fact as all or the intellectual reason as a sufficient mediator between life and the spirit, but is beginning to perceive that there is a spiritual mind which can admit us to a greater and more comprehensive vision. This does not mean any sacrifice of the gains of the past, but a raising and extending of them not only by a seeking of the inner as well as the outer truth of things, but also of all that binds them together and a bringing of them into true relation and oneness. A first opening out to this new way of seeing is the sense of the work of Whitman and Carpenter and some of the recent French poets, of Tagore and Yeats and A.E., of Meredith and some others».
Il poeta del futuro avrà una sempre maggiore consapevolezza di questo piano intuitivo: «The more perfectly intuitive poetry of the future, supposing it to emerge successfully from its present incubation, find itself and develop all its possibilities, will not be a mystic poetry recondite in expression or quite remote from the earthly life of man. Some element of the kind may be there; for always when we open into these fields, mysteries more than the Orphic and the Eleusinian revive and some of them are beyond our means of expression; but mysticism in its unfavourable or lesser sense comes when either we glimpse but do not intimately realise the now secret things of the spirit or, realising, yet cannot find their direct language, their intrinsic way of utterance, and have to use obscurely luminous hints or a thick drapery of symbol, when we have the revelation, but not the inspiration, the sight but not the word. And remoteness comes when we cannot relate the spirit with life and bring the power of the spirit to transmute the other members of our being. But the new age is one which is climbing from a full intellectuality towards some possibility of an equal fullness of the intuitive mind, and the full intuitive mind, not that of glimpses, but of a luminous totality, opens to the mind of revelation and inspiration. The aesthetic mind, whether it take form in the world of the poet or in the world of the illumined thinker, the prophet and the seer, can be one of the main gateways. And what the age will aim at is neither materialism nor an intuitive vitalism nor a remote detached spirituality, but a harmonious and luminous totality of man’s being. Therefore to this poetry the whole field of existence will be open for its subject, God and Nature and man and all the worlds, the field of the finite and the infinite. It is not a close, even a high close and ending in this or any field that the future offers to us, but a new and higher evolution, a second and greater birth of all man’s power and his being and action and creation».
Dopo questa grandiosa ouverture, colma di fecondissime semenze, si apre la seconda parte del saggio, nella quale trovano naturale germinazione le più importanti caratteristiche della poesia del futuro. Gli otto capitoli che cercheremo qui di riassumere e citare, andrebbero senz’altro letti per intero. Ci auguriamo pertanto di non tradire lo spirito dell’opera nel tagliuzzare più o meno arbitrariamente qui e là, ma di offrire uno stimolo persuasivo per un dovuto approfondimento del testo originale.
Cominciamo con il capitolo XXV, The Ideal Spirit of Poetry.
«An intuitive revealing poetry of the kind which we have view would voice a supreme harmony of five eternal powers, Truth, Beauty, Delight, Life and the Spirit. These are indeed the five greater ideal lamps or rather the five suns of poetry. And towards three of them the higher mind of the race is in many directions turning its thought and desire with a new kind and force of insistence».
La ricerca della verità anima la ricerca filosofica e, in parte, scientifica; il desiderio moderno di un continuo approfondimento di taluni aspetti della verità viene efficacemente descritto da Sri Aurobindo mediante una citazione rigvedica: “Mentre ascende di vetta in vetta, diventa chiaro alla vista il molto che resta ancora da scoprire”. Tuttavia, tale moto di inesausta ascesa deve essere integrato da un movimento non solo mentale, ma che appartenga al dominio dell’essenza vera in noi, espresso, sempre dai rishi vedici, in questo modo suggestivo: “Nuovi stati vengono alla nascita, velo dopo velo ci si risveglia alla conoscenza, nel grembo della Madre l’anima vede pienamente”. E questo anelito verso la verità non è esclusivamente trascendente, anzi, comprende l’altro dei cinque soli di cui sopra: la vita. Nell’arte, tuttavia, la verità e la vita non sono sufficienti: deve esserci bellezza e gioia. Questi sono quattro dei cinque soli indicati da Sri Aurobindo che l’umanità cerca più o meno oscuramente. Se ne aggiunge perciò un ultimo (che in realtà è il più essenziale): la ricerca e l’espressione dello spirituale, giacché ogni potere esistente proviene dallo Spirito divino, ne è una sua manifestazione.
«Therefore the essence of poetry is eternally the same and its essential power and the magnitude of the genius expended may be the same whatever the frame of the sight, whether it be Homer chanting of the heroes in god-moved battle before Troy and Odysseus wandering among the wonders of remote and magic isles with his heart always turned to his lost and far-off human hearth, Shakespeare riding in his surge of the manifold colour and music and passion of life, or Dante errant mid his terrible or beatific visions of Hell and Purgatory and Paradise, or Valmiki singing of the ideal man embodying God and egoistic giant Rakshasa embodying only fierce self-will approaching each other from their different centres of life and in their different law of being for the struggle desired by the gods, or some mystic Vamadeva or Vishwamitra voicing in strange vivid now forgotten symbols the action of the gods and the glories of the Truth, the battle and the journey to the Light, the double riches and the sacrificial climbing of the soul to Immortality. For whether it be the inspired imagination fixed on earth or the soul of life or the inspired reason or the high intuitive spiritual vision which gives the form, the genius of the great poet will seize on some truth of being, some breath of life, some power of the spirit and bring it out with a certain supreme force for his and our delight and joy in its beauty».
Nel passato, questi cinque lumi della creazione artistica sono stati espressi in modo più o meno efficace dai grandi poeti. La poesia del futuro dovrà completare ciò che è stato iniziato, innalzandolo a regioni più distintamente spirituali, sorgenti originarie della vera poesia. «The poetry of the future, if it fulfils in amplitude the promise now only there in rich hint, will kindle these five lamps o our being, but raise them up more on high and light with them a broader country, many countries indeed now hidden from our view, will make them not any longer lamps in some limited temple of beauty, but suns in the heavens of our highest mind and illuminative of our widest as well as our inmost life. It will be a poetry of a new largest vision of himself and Nature and God and all things which is offering itself to man and of its possible realisation in a nobler and more divine manhood; and it will not sing of them only with the power of the imaginative intelligence, the exalted and ecstatic sense of the moved joy and passion of life, but will rise to look at them from an intenser light and embody them in a more revealing force of the world. It will be first and most a poetry of the intuitive reason, the intuitive senses, the intuitive delight-soul in us, from this enhanced source of inspiration a more sovereign poetic enthusiasm and ecstasy, and then, it may even be, rise towards a still greater power of revelation nearer to the direct vision and word of the Overmind from which all creative inspiration comes».
Il piano dell’Overmind, che Sri Aurobindo pone al culmine della scala fenomenica, corrisponde alla Mente divina, l’apogeo della coscienza mentale (in un’ascesa graduale e metodica, Sri Aurobindo descrive con dovizia i piani che dalla mente razionale si elevano verso una ‘mente superiore’, una ‘mente illuminata’, una ‘mente intuitiva’, per poi sboccare nell’Overmind, in quel ‘surmentale’ che costituisce l’apogeo naturale della mente). Al di là, passando oltre questo triplice emisfero inferiore dell’esistenza, si estende e risplende il sole della Verità sopramentale, anello di congiunzione con il superiore triplice emisfero di Sat-Cit-Ananda — Esistenza, Coscienza, Beatitudine supreme.
«A poetry of this kind need not be at all something high and remote or beautifully and delicately intangible, or not that alone, but will make too the highest things near, close and visible, will sing greatly and beautifully of all that has been sung, all that we are from outward body to very God and Self, of the finite and the infinite, the transient and the Eternal, but with a new reconciling and fusing vision that will make them other to us than they have been even when yet the same. If it wings to the heights, it will not leave earth unseen below it, but also will not confine itself to earth, but find too other realities and their powers on man and take all the planes of existence for its empire. It will take up and transform the secrets of the older poets and find new undiscovered secrets, transfigure the old rhythms by the insistence of the voice of its deeper subtler spirit and create new characteristic harmonies, reveal other greater powers and spirits of language, proceeding from the past and present yet will not be limited by them or their rule and forms and canon, but compass its own altered perfected art of poetry. This at least is its possible ideal endeavour, and then the attempt itself would be a rejuvenating elixir and put the poetic spirit once more in the shining front of the powers and guides of the ever-progressive soul of humanity. There it will lead in the journey like the Vedic Agni, the fiery giver of the word, yuva ritava, priyo atithir amartyo mandrajihvo, ritacid ritava, the Youth, the Seer, the beloved and immortal Guest with his honeyed tongue of ecstasy, the Truth-conscious, the Truth-finder, born as a flame from earth and yet the heavenly messenger of the Immortals».
Il capitolo successivo, The Sun of Poetic Truth, approfondisce il concetto poetico di verità; l’espressione poetica della verità, infatti, è assai differente dalla sua espressione filosofica. Dopo una breve riflessione preliminare, Sri Aurobindo entra nel cuore del problema: «The poetic Truth of which I am speaking […] is an infinite goddess, the very front and face of Infinity and Aditi herself, the illimitable mother of all the gods. This infinite, eternal and eternally creative Truth is no enemy of imagination or even of free fancy, for they too are godheads and can wear one of her faces or one of her expressive masks, while imagination is perhaps the very colour of her creative process, her births and movements are innumerable, her walk supple and many-pathed, and through all divine powers and universal means she can find her way to her own riches, and even error is her illegitimate child and serves, though wantonly, rebelliously and through many a giddy turn, her mother’s many-formed self-adaptive world-wide aim. Now it is something of this infinite Truth which poetry succeeds in giving us with a high power, in its own way of beauty, by its own opulent appointed means. The channel is different from those of her other activities because the power is of another kind. […] Truth of poetry is not truth of philosophy or truth of science or truth of religion only, because it is another way of self-expression of infinite Truth so distinct that it appears to give another face of things and reveal quite another side of experience. A poet may have a religious creed or subscribe to a system of philosophy or take rank himself with Lucretius or certain Indian poets as a considerable philosophical thinker or succeed like Goethe as a scientist as well as a poetic creator, but the moment he begins to argue out his system intellectually in verse or puts a dressed-up science straight into metre or else inflicts like Wordsworth or Dryden rhymed sermons or theological disputations on us, he is breaking the law. […] It is difficult for him there to maintain the authentic poetic spirit and pure inspiration».
Un problema, questo, assai delicato e fondamentale, con il quale la poesia futura non può non fare i conti:
«This distinction between poetic and other truths, well enough felt but not always well observed, and their fusion and meeting-place are worth dwelling upon; for if poetry is to do all it can for us in the new age, it will include increasingly in its scope much that will be common to it with philosophy, religion and even a broader sense with science, and yet it will at the same time develop more intensely the special beauty and peculiar power of its own insight and its own manner. […] The philosopher sees in the dry light of the reason, proceeds dispassionately by a severe analysis and abstraction of the intellectual content of the truth, a logical slow close stepping from idea to pure idea, a method difficult and nebulous to the ordinary, hard, arid, impossible to the poetic mind. For the poetic mind sees at once in a flood of coloured light, in a moved experience, in an ecstasy of the coming of the word, in splendours of form, in a spontaneous leaping out of inspired idea upon idea, sparks of the hoof-beats of the white flame horse Dadhikravan galloping up the mountain of the gods or breath and hue of wing striking into wing of the irised broods of Thought flying over earth or up towards heaven. […] The eye of the poet loves to look on breathing acting life in its perfected synthesis and rhythm, not on the constituent measures, still less on the dissected parts, and his look seizes the soul of wonder of things, not the mechanical miracle. […] The mind of the poet sees by intuition and direct perception and brings out what they give him by a formative stress on the total image, and the aspect to which he thrills is the living truth of the form, of the life that inspires it, of the creative thought behind and the supporting movement of the soul and a rhythmic harmony of these things revealed to his delight in their beauty».
Potremmo dire che l’uomo tenta di afferrare e di esprimere la Verità unica ed eterna mediante l’utilizzo di molteplici strumenti: l’analisi filosofica, la pura ricerca scientifica, la dottrina teologica e altro. La poesia, nel suo più alto carattere ispirato e rivelatorio, giunge all’espressione della medesima Verità (l’espressione, si badi bene, non la ricerca), ma lo fa attraverso il puro volo spirituale — che si eleva ben al di sopra della ragione e la sua ferrea logica —, esprimentesi in termini di pura bellezza.
«Poetry comes into being at the direct call of three power, inspiration, beauty and delight, and brings them to us and us to them by the magic charm of the inspired rhythmic word. If it can do that at all perfectly, its essential work has been done».
Sri Aurobindo esamina a fondo, in questo capitolo, in che modo la poesia possa esprimere concetti filosofici o religiosi, offrendo esempi dalla letteratura greca (bellissimo l’esempio tratto dall’Antigone di Sofocle) e sanscrita (i mistici vedici e upanishadici, in particolare, insieme alla Bhagavad-Gita), per poi concludere soffermandosi sulla differenza d’espressione poetica di verità filosofiche e mistiche, e l’espressione filosofica o religiosa di queste stesse verità. «The real distinction therefore is in the primary or essential aim of poetry and in the imperative condition which that aim lays upon the art. Its function is not to teach truth of any particular kind, nor indeed to teach at all, nor to pursue knowledge nor to serve any religious or ethical aim, but to embody beauty in the word and give delight. But at the same time it is at any rate part of its highest function to serve the spirit and to illumine and lead through beauty by a high and revealing delight the soul of man. And its field is all soul experience, its appeal is to the aesthetic response of the soul to all that touches it in self or world; it is one of the high and beautiful powers of our inner and may be a power of our inmost life. All of the infinite Truth of being that can be made part of that life, all that can be made true and beautiful and living to that experience, is poetic truth and a fit subject matter of poetry. […] The poet visits that marvellous source in his superconscient mind and brings to us some strain or some vision of her face and works. To find the way into that circle with the waking self is to be the seer-poet and discover the highest power of the inspired word, the Mantra».
E veniamo al capitolo successivo, intitolato The Breath of Greater Life. Qui, Sri Aurobindo, come il titolo fa presagire, approfondisce la poesia in quanto espressione della vita. «Poetry is the rhythmic voice of life, but it is one of the inner and not one of the surface voices. And the more of this inner truth of his function the poet brings out in his work, the greater is his creation, while it does not seem to matter essentially or not at the first whether his method is professedly subjective or objective, his ostensible power that of a more outward or a more inward spirit or whether it is the individual or the group soul or the soul of Nature or mankind or the eternal and universal spirit in them whose beauty and living reality find expression in his word. This universal truth of poetry is apt to be a little hidden from us by the form and stress of preoccupation with this or that medium of outward soul-expression in the poet’s work. Mankind in its development seems to begin with the most outward things and go always more and more inward in order that the race may mount to greater heights of the spirit’s life. An early poetry therefore is much occupied with a simple, natural, straightforward, external presentation of life. A primitive epic bard like Homer thinks only by the way and seems to be carried constantly in the stream of his strenuous action and to cast out as he goes only so much of surface thought and character and feeling as obviously emerges in a strong and single and natural speech and action. And yet it is the adventures and trials and strength and courage of the soul of man in Odysseus which makes the greatness of the Odyssey and not merely the vivid incident and picturesque surrounding circumstance, and it is the clash of great and strong spirits with the gods leaning down to participate in their struggle which makes the greatness of the Iliad and not merely the action and stir and battle. The outward form of Shakespeare’s work is a surge of emotion and passion and thought and act and event arising out of character at ferment in the yeast of feeling and passion, but it is its living interpretation of the truth and powers of the life-soul of man that are the core and greatness of his work and the rest without it would be a vain brute turmoil. The absence of defect of this greater element makes indeed the immense inferiority of the rest of Elizabethan dramatic work. And whatever the outward character or form of the poetry, the same law holds that poetry is a self-expressive power of the spirit and where the soul of things is most revealed in its very life by the rhythmic word, there is the fullest achievement of the poet’s function».
Dunque, per Sri Aurobindo, «la poesia è un potere di auto-espressione dello spirito». Qualche anno dopo, Onofri scriverà, come abbiamo visto, che “l’arte è uno strumento di auto-rivelazione spirituale”.
Ne consegue che la poesia non può limitarsi a esprimere i crudi fatti della vita, ma deve darci almeno dei bagliori dell’essenza della vita, dei suoi moti nascosti, delle radici da cui la superficie si alimenta. «The poet’s greatest work is to open to us new realms of vision, new realms of being, our own and the world’s, and he does this even when he is dealing with actual things. Homer with all his epic vigour of outward presentation does not show us the heroes and deeds before Troy in their actuality, as they really were to the normal vision of men, but much rather as they were or might have been to the vision of the gods. Shakespeare’s greatness lies not in his reproduction of actual human events or men as they appear to us buttoned and cloaked in life, — others of his time could have done that as well, if with less radiant force of genius, yet with more of the realistic crude colour or humdrum drab of daily truth, — but in his bringing out in his characters and themes of things essential, intimate, eternal, universal in man and Nature and Fate on which the outward features are borne as fringe and robe and which belong to all times, but are least obvious to the moment’s experience: when we do see them, life presents to us another face and becomes something deeper than its actual present mask. That is why the poet oftenest instinctively prefers to go away from the obsession of a petty actuality, from the realism of the prose of life to his inner creative self or an imaginative background of the past or the lucent air of myth or dream or on into a greater outlook on the future. Poetry may indeed deal with the present living scene, at some peril, or even with the social or other questions and problems of the day, — a task which is now often laid on the creative mind, as if that were its proper work; but it does that successfully only when it makes as little as possible of what belongs to the moment and time and the surface and brings out their roots of universal or eternal interest or their suggestion of great and deep things. What the poet borrows for the moment, is the most perishable part of his work and lives at all only by being subordinated and put into intimate relation with less transient realities. And this is so because is the eternal increasing soul of man and the intimate self of things and their more abiding and significant forms which are the real object of his vision».
E qui entriamo nel vivo della poesia del futuro e nel compito dell’artista a venire:
«Poetry in the past wrote much of the godheads and powers behind existence, but in the mask of legends and myths, sometimes of God, but not often with a living experience, oftener in the set form taught by religions and churches and without true beauty and knowledge. But now the mind of man is opening more largely to the deepest truth of the Divine, the Self, the Spirit, the eternal Presence not separate and distant, but near us, around us and in us, the Spirit in the world, the greater Self in man and his kind, the Spirit in all that is and lives, the Godhead, the Existence, the Power, the Beauty, the eternal Delight that broods over all, supports all and manifests itself in every turn of creation. A poetry which lives in this vision must give us quite a new presentation and interpretation of life; for of itself and at the first touch this seeing reconstructs and reimages the world for us and gives us a greater sense and a vaster, subtler and profounder form of our existence».
Una poetica così concepita, non è per nulla concentrata in modo esclusivo sulla trascendenza, giacché vede ogni cosa come una manifestazione del Divino. «The poetry which voices the oneness and totality of our being and Nature and the worlds and God, will not make the actuality of our earthly life less but more real and rich and full and wide and living to men. To know other countries is not to belittle but enlarge our own country and help it to a greater power of its own being, and to know the other countries of the soul is to widen our bonds and make more opulent and beautiful the earth on which we live. To bring the gods into our life is to raise it to its own diviner powers. To live in close and abiding intimacy with Nature and the spirit in her is to free our daily living from its prison of narrow preoccupation with the immediate moment and act and to give the moment the inspiration of all Time and the background of eternity and the daily act the foundation of an eternal peace and the large momentum of the universal Power. To bring God into life, the sense of the self in us into all our personality and becoming, the powers and vistas of the Infinite into our mental and material existence, the oneness of the self in all into our experience and feelings and relations of heart and mind with all that is around us is to help to divinise our actual being and life, to force down its fences of division and blindness and unveil the human godhead that individual man and his race can become if they will and lead us to our most vital perfection. This is what a future poetry may do for us in the way and measure in which poetry can do these things, by vision, by the power of the word, by the attraction of the beauty and delight of what it show us. […] This poetry will be the voice and rhythmic utterance of our greater, our total, our infinite existence, and will give us the strong and infinite sense, the spiritual and vital joy, the exalting power of a greater breath of life».
Ma tutto ciò non è ancora sufficiente. «The light of truth, the breath of life, great and potent things though they are, are insufficient to give poetry the touch of immortality and perfection, even a little of which is enough to carry it safe through the ages, unless the soul and form of delight and beauty take possession of the seeing of truth and give immortality to the breath and body of the life. Delight is the soul of existence, beauty the intense expression, the concentrated form of delight; and these two fundamental things tend to be one for the mind of the artist and the poet, though they are often enough separated in our cruder vital and mental experience. These twin powers meet, make a consonance of the perfect harmony of his work and are the first deities he serves, all the others only group themselves about them, strive to be admitted to the soul of delight and the privilege of beauty and have to make themselves acceptable to them before they can mix with them in a compelling and attracting oneness». Così comincia il capitolo intitolato The Soul of Poetic Delight and Beauty. In un mondo come l’attuale, in cui il culto del bello è per lo più confinato tra le quattro mura dei musei, oppure volgarmente svilito, queste parole possono risultare difficili. Inoltre, il senso estetico sembra qualcosa di diametralmente opposto alla ricerca di una qualche verità, compresa — a maggior ragione — la ricerca della Verità assoluta. Eppure, non è sempre stato così, e non solo in India, dove la cultura vedico-upanishadica ha dato prova di un mirabile e felicissimo matrimonio fra verità e bellezza. «Japan and China, more especially perhaps southern China, for the north has been weighted by a tendency to a more external and formal idea of measure and harmony, had in a different way this fusion of the spiritual and the aesthetic mind and it is a distinguish stamp of their art and culture. The Persian had a sort of sensuous magic of the transforming aesthesis born of psychic delight and vision. Ancient Greece did all its work of founding European civilisation by a union of a subtle and active intelligence with a fine aesthetic spirit and worship of beauty. The Celtic nations again seem always to have had by nature a psychic delicacy and subtlety united with an instinctive turn for imaginable beauty to which we surely owe much of the finer strain in English literature. […] The day when we get back to the ancient worship of delight and beauty, will be our day of salvation; for without these things there can be neither and assured nobility and sweetness in poetry and art, nor a satisfied dignity and fullness of life nor a harmonious perfection of the spirit».
A questo punto, Sri Aurobindo si concentra su taluni aspetti fondamentali dello spirito di delizia e bellezza, connessi con la percezione concreta dell’universale Gioia d’essere celata nelle cose. Risulta difficile inoltrarsi in un simile dominio senza citare per intero, perché ogni singola frase contiene implicazioni immensamente profonde, legate all’esperienza spirituale stessa dell’Autore, che abbraccia completamente la vita. Sarebbe anzi utile, se non indispensabile, conoscere la vita e l’esperienza di Sri Aurobindo anche solo sommariamente, per esempio attraverso la lettura della bella biografia scritta da Satprem, intitolata Sri Aurobindo, l’Avventura della Coscienza. Per ragioni di spazio, preferiamo lasciare al lettore la libertà di fare i dovuti approfondimenti, e di citare una frase che ci sembra di immediata utilità, che la poesia contemporanea dovrebbe a nostro avviso fare propria: «The error made is to confuse the sources of poetic delight and beauty with the more superficial interest, pain and pleasure which the normal mind takes in the first untransmuted appeal of thought and life and feeling». L’artista contemporaneo troppo spesso presta la propria voce alla parte più superficiale della coscienza umana, potremmo quasi dire alla sua personalità frontale più o meno immersa nella futilità, mentre nei momenti di autentica aspirazione egli sa bene che è l’altro se stesso a dirigere, quell’essere di luce e di estasi che dimora in lui o al di sopra di lui, come un eterno bambino divino, che guarda ogni cosa con amore, con meraviglia, con appagata consapevolezza. «The poet has in him a double personality, a double instrument of his response to life and existence. There is in him the normal man absorbed in mere living who thinks and feels and acts like others, and there is the seer of things, the supernormal man, the super-soul or delight-soul in touch with the impersonal and eternal fountains of joy and beauty who creates from that source and transmutes by its alchemy all experience into a form of the spirit’s Ananda». E quando il poeta si pone al servizio di questa immortale Gioia d’essere, «he becomes a spokesman of the eternal spirit of beauty and delight and shares that highest creative and self-expressive rapture which is close to the original ecstasy that made existence, the divine Ananda. This rapture, the Platonic divine possession and enthusiasm, is born not of mental, but of soul experience, and the more the surface mind gets into the way, the more this divine passion is weakened and diluted by a less potent spirit». La scelta da fare è dunque una sola: «the seer, the poet, the artist, the children of the spirit’s light and intuition are only true to themselves when they live in the depths of the soul, refuse to be hurried away by the surface call of mind and life and wait rather for their own greater voices. […] The poetic delight and beauty are born of a deeper rapture and not of the surface mind’s excited interest and enjoyment of life and existence».
Ovviamente, molte sono le provincie del nostro essere, e altrettante possono essere le dimensioni di coscienza che la nostra arte può esprimere. «This Ananda, this delight, this aesthesis which is the soul of poetic beauty works like other things, like poetic truth or the poetic breath of life, on different levels, in different provinces of its action, with the same law that we have observed in the rest, of the emergence of a richer and profounder face of itself the more it gets inward and upward from the less to the more occult powers of its revelation. This finer soul of delight throws itself out on the physical mind and being, takes up its experiences and turns them by its own innate and peculiar power into things of beauty, fuses into itself the experiences of the life soul and transmutes to beauty their power and passion in the surge of its poetic ecstasy, takes up all life and form into the reflective thought-mind and changes them in the beauty and rapture of thought discovering and embodying new values of soul and Nature and existence. And in all its workings there is felt its own essence of an intuitive delight which in these moulds and gets into them whatever it can of its own intimate and eternal delight values. But when that intuitive mind self-finding, self-seeing, self-creating in a higher power of light and vision than is possible on the intellectual or other levels gets out into full play, and now there is some sign of this emergence, then we come nearer to the most potent sources of universal and eternal delight and beauty, nearer to its full and wide seeing, and its all-embracing rapture. This inner mind is the first native power of the self and spirit dropping its lower veils and the very life and aesthesis of the spirit in its creation is a life of self-experiencing spiritual delight and a luminous Ananda.
The beauty and delight of such a greater intuitive inspiration, a poetry of this spiritual Ananda making all existence luminous and wonderful and beautiful to us may be one of the gifts of the future. […] This change will mean that poetry may resume on a larger scale, with a wider and more shining vision the greater effect it once had on the life of the race in the noble antique cultures».
Sappiamo quanto abbia significato la poesia dei Veda, delle Upanishad, del Mahabharata per la storia dell’India, o l’Iliade e l’Odissea per la storia della Grecia e dell’Europa. E se questo fosse nulla in rapporto agli effetti che la poesia nel mondo a venire potrà suscitare?
«The beauty and delight of all physical things illumined by the wonder of the secret spiritual self that is the inhabitant and self-sculptor of form, the beauty and delight of the thousand-coloured, many-crested, million-waved miracle of life made a hundred times more profoundly meaningful by the greatness and the sweetness and attracting poignancy of the self-creating inmost soul which makes of life its epic and its drama and its lyric, the beauty and delight of the spirit in thought, the seer, the thinker, the interpreter of his own creation and being who broods over all he is and does in man and the world and constantly sees and shapes it new by the stress and power of its thinking, this will be the substance of the greater poetry that has yet to be written. And that can be discovered only if and so far as the soul of man looks or feels beyond even these things and sees and voices the eternal and knows its godheads and gets to some close inward touch of the infinite ecstasy which is the source of the universal delight and beauty».
I tre ultimi capitoli sono forse i più belli, e il loro titolo li accomuna alquanto: The Power of the Spirit, seguito da The Form and the Spirit, per poi arrivare a The Word and the Spirit. In realtà, gli ultimi tre capitoli e la conclusione finale contengono un crescendo di immagini e di indicazioni stimolanti e meravigliose sulla poesia del futuro. Bisognerebbe riportarli per intero. Limitiamoci a qualche breve passaggio.
«A poetry born directly from and full of the power of the spirit and therefore a largest and a deepest self-expression of the soul and mind of the race is that for which we are seeking and of which the more profound tendencies of the creative mind seem to be in travail».
Sri Aurobindo riflette quindi sul carattere dei tre generi poetici: la poesia lirica, drammatica, epica. Anzitutto la poesia lirica:
«The lyrical impulse is the original and spontaneous creator of the poetic form, song the first discovery of the possibility of a higher because a rhythmic intensity of self-expression. […] The lyric is a moment of heightened soul experience, sometimes brief in a lightness of aerial rapture, in a poignant ecstasy of pain, of joy or mingled emotion or in a swift graver exaltation, sometimes prolonged and repeating or varying the same note, sometimes linking itself in a sustained succession to other moments that start from it or are suggested by its central motive. It is at first a music of simple melodies coming out of itself to which the spirit listens with pleasure and makes eternal by it the charm of self-discovery or of reminiscence». E dopo avere riflettuto sulla differenza tra il volo lirico dell’età classica e dell’età moderna, Sri Aurobindo traccia le coordinate per la poesia lirica del futuro: «The decisive revealing lyrical outburst must come when the poet has learnt to live creatively only in the inmost spiritual sight and identity of his own self with the self of his objects and images and to sing only from the deepest spiritual emotion which is the ecstasy of feeling of that identity or at least of some extreme nearness to its sheer directness of touch and vision. And then we may find that this Ananda, this spiritual delight, for it is something more intimate and rapturous than emotion, has brought with it an unprecedent freedom of manifold and many-suggestioned and yet perfectly sufficient and definite formation and utterance. […] The intimate and intuitive poetry of the future will have on the one side all the inexhaustible range and profound complexities of the cosmic imagination of which it will be the interpreter and to that it must suit a hundred single and separate and combined and harmonic lyrical tones of poignantly or richly moved utterance, and on the other it will reach those bare and absolute simplicities of utter and essential sight in which thought sublimates into a translucidity of light and vision, feeling passes beyond itself into sheer spiritual ecstasy and the word rarefies into a pure voice out of the silence. The sight will determine the lyrical form and discover the identities of an inevitable rhythm and no lesser standard prevail against the purity of this spiritual principle».
Quindi si passa all’analisi degli stilemi della poesia drammatica:
«A spiritual change must equally come over the intention and form of the drama […]. All drama must be a movement of life and action because its mode of presentation is through the speech of living beings and the interaction of their natures, but equally the real interest except in the least poetic kinds is an internal movement and an action of the soul because dramatic speech is poetically interesting only when it is an instrument of human self-expression and not merely a support for a series of stirring incidents. The drama of the future will differ from the romantic play or tragedy because the thing which dramatic speech will represent will be something more internal than the life soul and its brilliant pageant of passion and character. […] The personage of the play will be the spirit in man diversified or multitudinous in many human beings whose inner spiritual much more intimately than their external life relations will determine the development, and the culminations will be steps of solution of those spiritual problems of our existence which after all are at the root of and include and inform all the others. The drama will be no longer an interpretation of Fate or self-acting Karma or of the simple or complex natural entanglements of the human life-movement, but a revelation of the Soul as its own fate and determiner of its life and its karma and behind it of the powers and the movements of the spirit in the universe».
Dulcis in fundo, ecco il turno della poesia epica:
«The spirit and intention of the narrative and epic forms of poetry must undergo the same transmuting change. […] An intensive narrative, intensive in simplicity or in the richness of significant shades, tones and colours, will be the more profound and subtle art of this kind in the future and its appropriate structures determined by the needs of this inner art motive. […] The same governing vision will be there as in lyric and drama; the method of development will alone be different according to the necessities of the more diffused, circumstanced and outwardly processive form which is proper to narrative. The epic is only the narrative presentation on its largest canvas and at its highest elevation, greatness and amplitude of spirit and speech and movement. It is sometimes asserted that the epic is solely proper to primitive ages when the freshness of life made a story of large and simple action of supreme interest to the youthful mind of humanity, the literary epic and artificial prolongation by an intellectual age and a genuine epic poetry no longer possible now or in the future. This is to mistake form and circumstance for the central reality. The epic, a great poetic story of man or world or the gods, need not necessarily be a vigorous presentation of external action: the divinely appointed creation of Rome, the struggle of the principles of good and evil as presented in the great Indian poems, the pageant of the centuries or the journey of the seer through the three worlds beyond us are as fit themes as primitive war and adventure for the imagination of the epic creator. The epics of the soul most inwardly seen as they will be by and intuitive poetry, are his greatest possible subject, and it is this supreme kind that we shall expect from some profound and mighty voice of the future. His indeed may be the song of greatest flight that will reveal from the highest pinnacle and with the largest field of vision the destiny of the human spirit and the presence and ways and purpose of the Divinity in man and the universe».
Tutto ciò implica una trasformazione insieme della forma e della sostanza.
«As in the Vedic theory the Spirit was supposed to create the worlds by the Word, so the poet brings into being in himself and us by his creative Word fragmentarily or largely, in isolated pieces or massed spaces an inner world of beings, objects and experiences».
El poeta es un pequeño Dios, recita un verso di Vicente Huidobro.
«If we look at them in their inmost psychological and not solely at their more external aspects, we shall see that what constitutes speech and gives it its life and appeal and significance is a subtle conscious force which informs and is the soul of the body of sound: it is a superconscient Nature-Force raising its material out of our subconscience but growingly conscious of its operations in the human mind that develops itself in one fundamental way and yet variously in language».
Sri Aurobindo fa espressa menzione alla “Parola che vede” (Pashyanti Vac) del tantra, cui abbiamo già accennato, e precisa ulteriormente i livelli della ‘Overhead Poetry’, la poesia che giunge da sfere sovrarazionali:
«This seeing speech has itself, however, different grades of its power of vision and expression of vision. The first and simplest power is limited to a clear poetic adequacy and at its lowest difficult to distinguish from prose statement except by its more compact and vivid force of presentation and the subtle difference made by the rhythm which brings in a living appeal and adds something of an emotional and sensational nearness to what would otherwise be little more than an intellectual expression; but in a higher and much finer clarity this manner has the power to make us not only conceive adequately, but see the object or idea in a certain temperate lucidity of vision». Sri Aurobindo propone alcuni esempi del grado poetico adeguato; noi riportiamo qui un suo verso:
My thoughts shall be hounds of light for thy power to loose.
«The second power tries to go beyond this fine and perfect adequacy in its intensities, attempts a more rich or a more powerful expression, not merely sound and adequate to poetic vision, but dynamic and strongly effective». Citiamo un altro verso di Sri Aurobindo:
Black fire and gold fire strove towards one bliss.
«There is a more intimate vision, a more penetrating spiritual vision, a more intense and revealing speech, to which the soul can be more vibrantly sensible. This comes to its first self-discovery when either the adequate or the dynamically effective style is raised into a greater illumination in which the inner mind sees and feels object, emotion, idea not only clearly or richly or distinctly and powerfully, but in a flash or outbreak of transforming light which kindles the thought or image into a disclosure of new significances of a much more inner character, a more profoundly revealing vision, emotion, spiritual response». Ancora un esempio dalla penna alata di Sri Aurobindo:
I am alone with my own self for space
«And beyond this first language of intuitive illumination we arrive at a more uplifted range or an inspired poetic speech which brings to us not only pure light and beauty and inexhaustible depth, but a greater moved ecstasy of highest or largest thought and sight and speech and at its highest culminates in the inevitable, absolute and revealing word». Come in questo verso di Sri Aurobindo:
Voyaging through worlds of splendour and of calm
«The genius of the poet can do work of a high beauty or of a considerable greatness in any of these degrees of poetic speech, but it is the more purely intuitive, inspired or revelatory utterance that is the most rare and difficult for the human mind to command, and it is these kinds that we peculiarly value. Their power not only moves and seizes us the most, but it admits the soul to a most spiritually profound light of seeing and ecstasy of feeling even of ordinary ideas and objects and in its highest force to thoughts and things that surpass the manner and range and limits of depths of the normal intelligence. […] The future poetry, assuming it to be of the kind I have suggested, its object to express some inmost truth of the things which it makes its subject, must to be perfectly adequate to its task express them in the inmost way, and that can only be done if, transcending the more intellectualised or externally vital and sensational expression, it speaks wholly in the language of an intuitive mind and vision and imagination, intuitive sense, intuitive emotion, intuitive vital feeling, which can seize in a peculiarly intimate light of knowledge by a spiritual identity the inmost thought, sight, image, sense, life, feeling of that which it is missioned to utter. The voice of poetry comes from a region above us, a plane of our being above and beyond our personal intelligence, a supermind which sees things in their innermost and largest truth by a spiritual identity and with a lustrous effulgency and rapture and its native language is a revelatory, inspired, intuitive word limpid or subtly vibrant or densely packed with the glory of this ecstasy and lustre».
E giungiamo così al capitolo conclusivo, nel quale Sri Aurobindo cerca di riassumere il compito del poeta del futuro — «It is in effect a larger cosmic vision, a realising of the godhead in the world and in man, of his divine possibilities as well as of the greatness of the power that manifests in what he is, a spiritualised uplifting of his thought and feeling and sense and action, a more developed psychic mind and heart, a truer and a deeper insight into his nature and the meaning of the world, a calling of diviner potentialities and more spiritual values into the intention and structure of his life that is the call upon humanity, the prospect offered to it by the slowly unfolding and now more clearly disclosed Self of the universe».
Sarebbe interessante, a questo punto, estrarre dalla ricca produzione epistolare di Sri Aurobindo ulteriori osservazioni sulla poetica, se non fosse opportuno mettere un punto finale a questo lungo articolo.
Giunti alla fine di questa tutto sommato rapida scorsa del saggio di Arturo Onofri e del saggio di Sri Aurobindo, ci limitiamo a notare un’unica differenza (ve ne sono parecchie, in realtà, e importantissime) tra i due Artisti, che ebbe implicazioni assai profonde sulla loro poetica. Il poeta italiano, pochi anni dopo la pubblicazione del suo saggio, passò ad altra vita; Sri Aurobindo ha invece avuto tutto il tempo (più di trent’anni) per dedicarsi a una ricca produzione poetica, dando il meglio di sé proprio negli anni della maturità: una abbondante produzione lirica e due vasti poemi epici, Ilion e Savitri — quest’ultimo il suo capolavoro, colmo dall’inizio alla fine della più alta espressione mantrica; mai, per dirla con le parole di Satprem, “segreti così numerosi erano stati espressi con così tanta bellezza”.