Poesia mistica italiana
- a cura del CENTRO STUDI arya -
Che i voli spirituali possano avere una qualche speranza di espressione verbale nella poesia più che mediante altri tipi di scrittura, è una consapevolezza fortemente radicata in tutte le umane culture, sin dalla più remota antichità.
E, per focalizzare la nostra attenzione sulla lingua italiana, notiamo subito che la tensione mistica aleggia nell’intero percorso della sua poesia, dai primordi fino ai nostri giorni, al punto da costituire una delle peculiarità che più la contraddistinguono, la cui presenza è ravvisabile finanche nei momenti più materialisti. Peraltro, uno dei primi documenti poetici in lingua volgare è proprio il celebre Laudes Creaturarum di Francesco d’Assisi, la cui prima datazione assegnata è il 1224, successivamente alla prima visione in San Damiano, dove Francesco ebbe la certezza della salvezza.
Vorremmo offrire qui un piccolo campionario di alcuni tra gli esiti più riusciti della poesia mistica italiana, anche perché siamo convinti che tale aspetto assumerà una rilevanza finanche maggiore di quanto non sia avvenuto nel Novecento, in cui è già un aspetto preponderante, seppure sapientemente occultato da metafore.
Siamo oltretutto persuasi che nel mondo intero la poesia acquisterà nei prossimi decennî un rinnovato vigore, e che l’espressione di esperienze puramente spirituali sarà una delle tematiche di maggiore rilievo. Ormai affrancata dalla schiavitù al dogmatismo religioso, sciolta dai grevi ceppi teologici e dottrinarî, libera dall’opprimente e tremendo fardello del settarismo, la poesia mistica potrà essere la scintilla prometeica che accenderà tutte le altre forme artistiche e le innalzerà verso la Meraviglia. E ciò sarebbe in perfetta sintonia con il fine stesso della poesia — poiché, per usare le parole di Giovan Battista Marino, «è del poeta il fin la meraviglia».
Ma, prima di tentare di avventurarci nell’impresa, togliamoci di torno quell’assurdo luogo comune che vede il poeta — e ancor più il poeta mistico — come un essere agorafobico e malinconico, ascetico, chiuso in se stesso come un riccio, segregato in un monastero o in una qualche torre d’avorio. I più grandi poeti mistici di ogni latitudine sono sempre stati degli spiriti liberi, assetati di una sempre maggiore libertà da ogni condizionamento, sia esso esterno o interno. Non stupisca pertanto che molti tra loro furono veri e propri rivoluzionari in lotta contro il potere costituito (in Italia rappresentato dalla Chiesa cattolica, che ha cercato da sempre di monopolizzare la fede — e i sei secoli d’Inquisizione ne sono una delle prove più drammaticamente evidenti). Molti di essi furono tacciati di eresia (epiteto quanto mai appropriato, peraltro!) e barbaramente torturati, e qualcuno finanche bruciato vivo. Ma, direbbe il poeta, arde incessantemente il loro fuoco | e ci parla per mezzo della Musa.
Partiamo certamente da Jacopone da Todi, vissuto nella seconda metà del XIII secolo. Fortemente osteggiato da papa Bonifacio VIII, venne segregato per molti anni nelle carceri vaticane. Nelle sue composizioni poetiche, raccolte nelle mirabili Laude, tuona un’aspra invettiva contro la corruzione della Chiesa, in una costante e vigorosa affermazione della più genuina spiritualità. Jacopone, a differenza di altri mistici di stampo più illusionista, i quali percorrono un cammino ascendente che procede per illuminazioni successive, è animato da un appassionatissimo fervore, inebriante e incontenibile, che lo spinge perennemente al di là della stessa illuminazione, in un continuo rifiuto della stasi di un qualche porto definitivo. Nulla è definitivo nell’eterna avventura dell’anima, e l’Amore divino trasporta Jacopone sempre oltre, al di là di ogni meta (Salendo su, cresi posare | l’amor non me lassò finare) in una «alta nichilitate» non già della formazione individuale, ma solo del principio dell’«io separato», dell’ego scisso dall’Essere che noi tutti in realtà siamo. Con Jacopone, giungiamo a quelle alte vette in cui l’Amato e l’amante sono uno, e in cui tutto si risolve nell’Amore che tutto contiene e tutto supera, un cerchio in cui il centro è dappertutto e la circonferenza illimite, per usare un’immagine assai cara al poeta — Amore amor tu sei cerchio rotondo.
De l’amor divino e sua laude
O Amor, divino amore,
amor, che non se’ amato.
Amor la tua amicizia
è piena di letizia
non cade mai en tristizia
lo cor che t’ha assagiato.
O amor amativo,
amor consumativo,
amor conservativo,
del cuor che t’ha albergato!
O ferita gioiosa,
ferita dilettosa,
ferita gaudiosa,
chi de te è vulnerato!
Amore, unde entrasti,
che si occulto passasti?
Nullo signo mostrasti
unde tu fusse entrato.
O amor amabile,
amor delettabile,
amor encogitabile,
sopr’onne cogitato!
Amor, divino fuoco,
amor de riso e gioco,
amor non dài a poco
che se’ ricco smesurato.
Amor, con chi te poni?
con deiette persone,
e lassi gran baroni,
ché non fai lor mercato.
Tale non par che vaglia
en vista una medaglia,
che quasi como paglia
te dài en suo trattato.
Chi te crede tenire,
per sua scienzia avire,
nel cor non può sentire
che sia lo tuo gustato.
Scienzia acquisita
mortal sì dà ferita,
s’ella non è vestita
de core umiliato.
Amor, tuo magisterio
enforma el desiderio,
ensegna l’evangelio
col breve tuo ensegnato.
Amor che sempre ardi
e i tuoi coraggi inardi,
fai le lor lengue dardi
che passa onne corato.
Amore grazioso,
amore delettoso,
amor suavetoso,
che ’l core hai saziato.
Amor ch’ensegni l’arte
che guadagni le parte,
de cielo fai le carte,
en pegno te n’ei dato.
Amor, fidel compagno,
amor, che mal se’ a cagno,
de pianto me fai bagno
ch’io pianga el mio peccato.
Amor dolce e soave,
de cielo, amor se’ chiave;
a porto meni nave
e campa el tempestato.
Amore che dài luce
ad omnia che luce,
la luce non è luce,
lume corporeato.
Luce luminativa,
luce demostrativa,
non viene a l’amativa,
che non n’è luminato.
Amor, lo tuo effetto,
dà lume a lo ’ntelletto,
demòstrali l’obietto
de l’amativo amato.
Amor, lo tuo ardore
ad enflammar lo core
uniscil per amore
ne l’obietto encarnato.
Amor, vita secura,
richeza senza cura,
più ch’en eterno dura
ed ultra smesurato.
Amore che dài forma
ad omnia c’ha forma,
la forma tua reforma
l’omo ch’è deformato.
Amore puro e mondo,
amor saggio e iocondo,
amor alto e profondo
al cor che te s’è dato.
Amor largo e cortese,
amor con larghe spese,
amor, con mense stese
fai star lo tuo affidato.
Lussurua fetente
fugata de la mente,
de castità lucente
mundizia adornato.
Amor, tu se’ qua ama
donde lo cor te ama,
sitito con gran fama
è ’l tuo enamorato.
Amoranza divina,
ai mali èi medicina,
tu sani onne malina,
non sia tanto agravato.
O lengua scotegiante,
come se’ stata osante
de farte tanto enante
parlar de tale stato?
Or pensa que n’hai detto
de l’amor benedetto,
onne lengua è en defetto
che de lui ha parlato.
Se onne lengue angeloro
che stanno en quel gran coro
parlando de tal foro,
parlara scelenguato.
Ergo co non vergogni?
nel tuo parlar lo pogni,
lo suo laudar non giogni,
nante l’hai blasfemato.
— Non te posso obedire
ch’amor deggia tacire,
l’amor voglio bandire,
fin che mo m’esce ’l fiato.
Non è condizione
che vada per ragione,
che passi la stagione
ch’amor non sia clamato.
Clama la lengua e ’l core:
Amore, amore, amore!
chi tace el tuo dolzore
lo cor li sia crepato.
E credo che crepasse
lo cor che t’assagiasse;
se amore non clamasse,
trovàrese afogato.
Tralasciando, per ovvie ragioni, poeti grandissimi come Dante e Tasso, che pure esprimono una certa tensione mistica (pur se troppo appesantita dall’ansia di far corrispondere il loro dettato alle dottrine teologiche in uso all’epoca cui appartennero, eccezion fatta per momenti di mirabile ispirazione come ad esempio la cantica conclusiva della Divina Commedia, che sarebbe inopportuno citare solo parzialmente, e che comunque è ben nota a tutti), arriviamo a Giordano Bruno, uno di quegli spiriti liberi che nessuno può ingabbiare. Condannato dalla Chiesa, nonostante il suo ingegno fosse ammirato in tutta Europa dai massimi intellettuali, fu bruciato vivo il 17 febbraio del 1600 — ma il vero fuoco che lo anima non può essere consumato da nulla e non necessita d’alcun combustibile per ardere. Mezzo secolo prima di Galileo Galilei, Giordano Bruno affermò che è la terra a girare intorno al sole e non viceversa (in alcuni brani de La Cena delle Ceneri, ricorrendo all’esperimento mentale dell’uomo chiuso in una nave in movimento, Bruno dimostra il principio della relatività dei moti, col proposito di confutare le errate concezioni aristoteliche); inoltre, parla dell’infinità dei mondi, della reincarnazione, del fatto che condividiamo tutti quanti la filiazione divina (anzi dice che perfino i diavoli si salveranno) e, last but not least, è convinto che anche la Materia è Dio, a differenza della Chiesa che aveva relegato Dio in Cielo regalando la Terra a Satana. La poesia è per lui l’appropriato canale per esprimere il più alto stato mistico, di cui può proclamarne l’unione inscindibile tra l’anima individuale e lo Spirito supremo con un’arditezza tale da ricordare lo stile dei poeti mistici dell’India (come nell’upanishadico aham brahmasmi — «Io sono l’Assoluto»): Io per l’altezza de l’oggetto mio | Da suggetto più vil dovegno un dio | […] Ed io, mercé d’amore, | Mi cangio in dio da cosa inferiore (da una lirica tratta — al pari di quella che segue — dagli Eroici furori).
Chiama per suon di tromba il capitano
Tutti gli suoi guerrier sott’un’insegna;
Dove s’avvien che per alcun in vano
Udir si faccia, perché pronto vegna,
Qual nemico l’uccide, o a qual insano
Gli dona bando dal suo campo e ’l sdegna:
Cossì l’alma i dissegni non accolti
Sott’un stendardo o gli vuol morti, o tolti.
Un oggetto riguardo;
Chi la mente m’ingombra, è un sol viso.
Ad una beltà sola io resto affiso.
Chi sì m’ha punto il cor, è un sol dardo,
Per un sol fuoco m’ardo,
E non conosco più d’un paradiso.
Tommaso Campanella fu talmente perseguitato dalla Chiesa, più volte incarcerato e torturato a sangue, che decise negli ultimi anni della sua vita di trasferirsi a Parigi per pubblicare le proprie opere. Egli era fermamente convinto del potere magico della poesia, purché composta per mano di «poeti architettonici» come li chiama lui stesso, tra i quali ama in particolar modo Lucrezio (il celebrato autore del De Rerum Natura, opera di poesia filosofica epicurea sublimata in un’atmosfera di maestosità e grandezza sconosciuta agli epicurei). E, proprio come ogni atto di magia che si rispetti necessita l’esecuzione di una serie di pratiche scrupolosamente eseguite se si intende correttamente evocare determinate forze o spiriti, allo stesso modo l’esercizio metrico e tecnico, per Tommaso Campanella (ma potremo assai agevolmente estendere tale affermazioni a tutti i poeti mistici), è la magica propiziazione di un estremo rituale di conoscenza che si consuma nell’evocazione e nel risveglio della Deità assopita nella Materia.
Del Sommo Bene metafisico
L’Essere è il Sommo Ben, che mai non manca,
e di nulla ha bisogno, e nulla pave.
Amanlo tutto sempre; e’ sol se stesso,
perché non ha maggior, né più soave.
S’egli è infinito, noi di morte affranca,
ché fuor non ha, né dentro a lui framesso
puote il Nïente star. Né dunque alcuna
cosa s’annulla, ma si cangia spesso.
Lo spazio immenso all’esser d’ogni cosa
è base a lui nascosa,
che solo in sé riposa,
da cui, per cui e in cui son tutte in una;
e da cui lontanissima è ciascuna
da infinito finita; e perch’è incinta
e cinta, è vicinissima anche, stante
in lui viva e per lui, s’è per noi estinta,
come pioggia nel mar mai non mancante.
Restando grosso modo nella medesima epoca storica, Giacomo Lubrano fu un poeta religioso più che mistico. E tuttavia, in rari momenti, ovvero quando gli riuscì di elevarsi al di sopra del dogmatismo gesuitico, raggiunse risultati nient’affatto trascurabili. Così, ad esempio, nel sonetto dedicato alla parafrasi del versetto biblico di Esodo, III. 14: ’Ehjeh ’Asher ’Ehjeh (“Io sono colui che è”), autodefinizione di Dio che traduce il tetragramma ebraico YHWH, e utilizzando per modello il lessico del De Divinis Nomibus dello Pseudo Dionigi, ci offre una composizione realmente ispirata.
Ego sum, qui sum
Un poter sempre in atto, un centro immenso,
che fuor de l’Esser mio linee non stendo.
Luminoso Oceàn, che da me uscendo
in me ringorgo, ove tempesta il senso.
Formo Idee di più Mondi, e non ripenso,
del proprio Bel contemplator godendo:
ingenito splendor, che pur nascendo
Paradisi di glorie a’ miei dispenso.
Fulmino i Rei senza scoccare un dardo;
di nulla mi ricordo, e nulla oblio;
sono geloso, e sicuro; amo, e non ardo.
La Terra, il Fato, il Cielo, il Tempo è mio:
pienissimo di me, vivo d’un guardo,
Fattor non fatto, Unico in Tre, son Io.
Vincenzo da Filicaia, vissuto nella seconda metà del VII secolo e membro delle accademie della Crusca e dell’Arcadia, non lo si può definire un grande poeta. Foscolo e Leopardi ritennero non privi di efficacia i suoi canti politici e patriottici, sebbene in linea di massima la sua produzione poetica sia enfatica e poco ispirata. Con qualche significativa eccezione. Nelle sue ristrettezze economiche fu aiutato da Cristina di Svezia, alla quale dedicò un insieme di nove sonetti raggruppati sotto il comune titolo Ritratto d’un’anima contemplativa, di cui riportiamo il quinto, caratterizzato da un notevolissimo afflato mistico che ben si sposa con lo spirito della presente raccolta.
Elevazione dell’anima a Dio
Così mi dormo, e per me veglia il Cuore,
quel Cuor che alberga in me più che ’l cuor mio:
in Dio mi dormo, ed in me veglia Iddio;
Amor mi assonna, e lui tien desto Amore.
Io dormo, e uscito de’ fantasmi fuore,
a lui l’alma da i sensi esule invio,
tanto di me, maggior, ch’io son più ch’io,
tanto maggior, quanto di me minore.
Deh se in braccio a sì grande alta fortuna,
è sì dolce il dormir, non veglio io mai,
né mai rompa i miei sonni alba importuna,
finché spuntando (ed è ben tempo omai)
per me quel dì che non tramonta o imbruna,
gli occhi non apro a i sempiterni rai.
Nello stesso periodo Pier Matteo Petrucci seguiva un ‘cammino di negazione’ simile a quello intrapreso dallo spagnolo Juan de la Cruz, o dall’autore inglese (che ha voluto mantenersi anonimo) della Nube della Non-conoscenza. Nel sonetto I Mistici Enigmi Petrucci dà voce, come recita il sottotitolo, a “un’Anima Contemplativa”. In questa «sperimentale pratica della divina Inconoscibilità», nell’ordine paradossale di una «visione oscura», culmina per lui l’orazione al suo più alto grado, quando «L’Anima contemplativa, posta nell’altissimo Stato mistico (cioè segreto) dalla Divina Grazia, e nulla intendendo di così profonda e sovranaturale operazione, si volge allo Spirito […]; dall’altra parte questa sua cecità non è cieca, e la sua caligine spirituale è una luce di verità mirabile».
I Mistici Enigmi
Svelami Amor che stravaganze io provo.
Veggio; e pur non m’illustra alcun splendore.
Amo; e pur non so chi, né sento amore:
Godo; e pur nulla stringo, e nulla trovo.
Quando torno al mio Centro, io non mi movo:
Quando mi pasco più fame ho maggiore:
Quando morta son più, vita ho migliore:
Quando a tutti son tolta, a tutti io giovo.
La povertà più nuda è mia ricchezza:
La pena più profonda è gaudio mio:
La tenebra più densa è mia chiarezza.
Mi manca ivi ogni bene, ove son’io:
Dove è ’l mio vacuo, ivi è la mia pienezza:
Nel Tutto ho nulla, e in un gran Nulla ho Dio.
Arrivando al XIX secolo, Niccolò Tommaseo è certamente una figura ponte nel nostro viaggio, poiché anticipa, e in qualche modo incoraggia, la rinascita novecentesca della poesia mistica, ponendosi a cavallo tra antichità e modernità. Nella sua produzione lirica — come già era avvenuto magicamente con Jacopone, che resta un esempio insuperato in tal senso — vediamo legarsi insieme l’ardente vibrato della passione alla più pura tensione spirituale in un tutt’uno armonico. Ancora una volta, là dove la filosofia non riesce a giungere (fermandosi a metà strada in un dominio di aride speculazioni metafisiche) e dove la teologia fallisce (perdendosi in un raccapricciante dedalo di avvilenti moralismi e dogmatiche concettuosità), la poesia vive e liberamente spazia, rivelandoci il vibrato delle Vastità. È il caso, ad esempio, di questo invito all’estasi (esci di te) e al puro volo, fino a giungere all’Origine, con un invito finale — piuttosto ricorrente nella poetica di Tommaseo — a calare quaggiù le ricchezze spirituali (sali, raggiando, e scendi).
Vita nuova
Esci di te. Ne’ liberi
splendor’ del cielo immenso,
sul mar profondo e placido
degli enti, il volo intenso
corra del tuo pensier.
Ogni alito che senti
è un’immortal parola;
ogni respir de’ venti
è un angelo che vola
de’ mondi messaggier.
Esci di te. Nell’ampia
luce che avviva i mondi
le tue virtù ritempera,
le gioie tue trasfondi,
dilegua i tuoi dolor’.
Il tuo destino apprendi;
de’ secoli le vie
sali, raggiando, e scendi,
concorde all’armonie
del provvidente Amor.
Ugo Foscolo non era certo un poeta mistico, e tuttavia alcuni suoi versi contenuti in quell’opera incompiuta e frammentaria che è Le Grazie esprimono la percezione da parte del poeta dell’Anima Mundi, lo Spirito universale dovunque diffuso, in modo talmente suasivo ed efficace da trasmetterci un’intensa impressione della coscienza cosmica in poche pennellate da maestro. Vale proprio la pena di riportare questo sparuto gruppo di versi.
La Fiamma di Vesta
Una è l’alma del mondo, in infinite
Forme, e negli astri, e negli immensi mari
E ne’ fiori e ne’ fulmini diffusa
Inegualmente e negli umani petti.
Ma in ogni loco a se medesma eguale
In sé ritorna, e da sé parte, e vive
Ricongiunta a se stessa.
La presenza dell’infinito di Giacomo Leopardi, per quanto possa apparire scontata, è tuttavia d’obbligo. Ci troviamo infatti di fronte a uno dei sonetti più meravigliosi dell’intera poesia lirica universale, interamente soffuso di un sentimento mistico d’immenso respiro — e anticipatore, nel suo stile così scevro da ogni religiosità, della poesia mistica del futuro. Qui, di fronte a questo squarcio improvviso, tutto tace; non si può che restare in silenzio estasiati, avvolti nel meraviglioso. Questa celebratissima lirica fa sorgere alla memoria un verso di Claudio Trivulzio: Un lampo aprì, pur come un occhio, il cielo.
L’infinito
Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
E questa siepe, che da tanta parte
Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
Spazi di là da quella, e sovrumani
Silenzi, e profondissima quiete
Io nel pensier mi fingo; ove per poco
Il cor non si spaura. E come il vento
Odo stormir tra queste piante, io quello
Infinito silenzio a questa voce
Vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
E le morte stagioni, e la presente
E viva, e il suon di lei. Così tra questa
Immensità s’annega il pensier mio:
E il naufragar m’è dolce in questo mare.
Il Novecento, come dicevamo, abbonda di esempi di poesia mistica, a partire da Arturo Onofri, il suo cantore più originale e rappresentativo, il quale nella sua ultima e più originale produzione poetica, che si caratterizza nel ciclo della «terrestrità del sole», si consacra a un modello di poesia orfica, tutta tesa ad esprimere verità mistiche e filosofiche accese di messianico ardore. Non esiste, per Onofri, una demarcazione netta tra poesia ispirata dall’alto e poesia di natura più mentale e umana, sicché la sua produzione lirica si fa sterminata e contiene pietre d’ogni tipo (preziose e comuni), assortite insieme (proprio come accade in Natura, tutto sommato). Noi prediligiamo i suoi momenti più autenticamente ispirati quali segni di genuina poesia mistica. E ne riportiamo qui uno dei più pregevoli esempi, tratto dalla raccolta Zolla ritorna cosmo — un’autentica perla pescata nel profondo.
Divampa in sogni cosmici la terra,
nel desiderio di germogliar mondi.
Un alone volatile di fuoco
fiammeggia nelle ampiezze della luce
da lei, come dal seme planetario
che di sé schiuderà nuovi sistemi
di cieli e nuova terra; e alimentando
l’albero della vita dalla morte
futura sua, già sogna il mio vegliarla,
alzato sopra lei con forze d’uomo.
Nel mio notturno sonno, o Madre, io vidi
te balenante sprigionar dal seno
tuo, nei cori degli angeli frementi,
quel Sole umano che t’aurèola d’ali,
nel flutto del mio sonno respirando,
come la veglia massima d’un noi
futuro, che ti vuole per suo Corpo.
Su, fra le morte costellazioni
già porta il morir nostro il tuo messaggio
di vita nuova, e in esso anzi risveglia
sé dal sonno profondo che fu sangue:
nel volere del tempo, ove tu vivi.
Dino Campana è forse il più grande poeta mistico italiano del XX secolo. E i suoi Canti Orfici sono con ogni probabilità il vero capolavoro della poesia italiana del Novecento (checché ne dicano i “poeti laureati” — anzi, anche grazie al loro niet). La sua poesia descrive quel viaggio iniziatico che deve compiere il suo autore per diventare uomo nuovo, libero, pienamente felice. Non a caso il poeta s’identifica costantemente con la figura del viandante, mentre il modello ideale di questa poesia è il Faust di Goethe e, più ancora, lo Zaratusthra di Nietzsche, verso cui Campana si sente legato da un genuino e autentico fervore di discepolo. La forma tripartita di quest’opera incompiuta, ricorda per certi versi le tre cantiche della Commedia dantesca: partendo dall’umano dolore, attraverso la purificazione del salire si giunge infine alla liberazione orfica. Alternando ai versi il diario lirico, il poeta modella la parola su forme espressive moderne e rivoluzionarie, introducendo ritmi e colori nuovi, e liberandola dagli stereotipi ottocenteschi e dannunziani. «Io vidi dalle solitudini mistiche staccarsi una tortora e volare distesa verso le calli immensamente aperte. […] Volava senza fine sull’ali distese, leggera come una barca sul mare. […] Si levava la fortezza dello spirito, le enormi rocce gettate in cataste da una legge violenta verso il cielo, pacificate dalla natura prima che le aveva coperte di verdi selve, purificate poi da uno spirito d’amore infinito: la meta che aveva pacificato gli urti dell’ideale che avevano fatto strazio, a cui erano sacre pure supreme commozioni della mia vita».
Poesia facile
Pace non cerco, guerra non sopporto
Tranquillo e solo vo pel mondo in sogno
Pieno di canti soffocati. Agogno
La nebbia ed il silenzio in un gran porto.
In un gran porto pien di vele lievi
Pronte a salpar per l’orizzonte azzurro
Dolci ondulando, mentre che il sussurro
Del vento passa con accordi brevi.
E quegli accordi il vento se li porta
Lontani sopra il mare sconosciuto.
Sogno. La vita è triste ed io son solo.
O quando o quando in un mattino ardente
L’anima mia si sveglierà nel sole
Nel sole eterno, libera e fremente.
Carlo Betocchi ha attraversato il XX secolo con la schietta semplicità di chi non intende lasciarsi abbagliare dalla frenesia e dai mille artifizi della vita moderna. La sua esistenza fu deliberatamente lontana dai fasti e dalla mondanità, seppure mai ascetica, da vero artista qual era. Il suo ideale lo porta a calarsi con amore nel quotidiano, ma ben consapevole del flusso dell’eterno divenire e dell’infinità di sopra. A differenza del suo contemporaneo Clemente Rebora, che dopo avere abbracciato la fede cattolica e l’abito talare smise quasi del tutto di poetare (e che pure era riuscito ad esprimere una sete di assoluto che raggiunge alcune vette della produzione poetica novecentesca), Carlo Betocchi considerò sempre la poesia uno strumento — per lui senza dubbio il principale — di crescita interiore, e quindi il richiamo delle Muse non lo abbandonò mai, accompagnandolo fino in tarda età. ‘Per cui’, a ottant’anni egli poté udire dentro di sé il grido della vita, accettato in modo sereno e tutto vibrante di speranza, che va a congiungersi con quello di Goethe: Al di là delle tombe, avanti! — «siamo parte dell’humus che prepara | il futuro, noi che ce ne andiamo».
Un passo, un altro passo
Un passo, un altro passo
ivi del cielo il masso
azzurro, la vivente natura,
e l’inferma pietà
che se stessa conosce negli errori,
e la lieve follia, ivi la morte,
il rumore e il silenzio,
e il mio esistere anonimo;
e come dalla pietra sale il canto
di un colore che è muto,
un passo, un altro passo,
e inciampando nel divino esistere
io giungo a riconoscermi nel sasso
che sospira all’eterno, in alto, in basso.
Giunti al XXI secolo, che apre il Terzo Millennio, ci aspettiamo — come dicevamo — che la poesia mistica possa trovare un rinnovato vigore e trasmetterci nuove e più complesse architetture metriche e, se possibile, mantriche. Inseriamo quindi una composizione poetica di Tommaso Iorco, tratta da L’opera della fenice, silloge pubblicata giusto quest’anno (2004) e che già ha cominciato a riscuotere benaugurali critiche. Citiamo, per tutti, quella di Giorgio Bàrberi Squarotti, il quale il 5 novembre 2003 scrisse: «Mi piace molto la scelta metrica regolare di Iorco, sempre usata con perfetta misura (i sonetti sono esemplari), ma è da dire subito che il valore del discorso poetico è sempre altissimo e sicuro». La raccolta, divisa in due sezioni, nella prima parte contiene un percorso interiore che, al suo culmine, reca la trasposizione di alcune esperienze mistiche, mentre nella seconda parte si stacca dall’autobiografismo e il suo volo lirico si fa più oggettivo, se così si può dire, o più impersonale. Un sonetto della prima sezione esprime la speranza di una redenzione insieme spirituale e materiale che è il filo conduttore dell’intero canzoniere (e dell’intera poetica di Tommaso Iorco). Dopo le feconde sperimentazioni artistiche che hanno caratterizzato la seconda metà del XX secolo, ora la poesia italiana sembra essere pronta a riappropriarsi di quelle scansioni ritmiche che l’hanno resa grande, ovviamente con la consapevolezza delle importanti innovazioni nel frattempo intervenute. Non stupisca quindi il sonetto in rima. È bene anche precisare che l’Autore non appartiene ad alcuna religione, desideroso solo di trovare in tutte le tradizioni sapienziali del passato la verità di fondo, trascurando deliberatamente la dogmatica e i settarismi. La più genuina poesia mistica dovrebbe esprimere, o meglio ancora trascrivere, i voli dello spirito e i suoi tentativi di portare sulla terra una nuova vita e una nuova coscienza, armonizzando insieme l’interno con l’esterno, e congiungendo misticamente (in una sorta di ierogamia divina) un nuovo cielo a una nuova terra — lo Spirito e la Materia finalmente risolti in aspetti (solo in apparenza antitetici) del Divino Supremo che nessuna concezione intellettuale né esperienza spirituale, per quanto alta, può intrappolare.
Traversata
È notte fonda ancora, e la mia barca,
tra due abissi di tenebra, avanza;
condotta dal nocchiero insonne, varca
Eracle e il Capo di Buona Speranza.
Ma non finisce lo stato d’erranza
sebbene la tempesta più non marca
questa fragile chiglia, che sopranza
come in un ultimo diluvio arca.
Passato l’orizzonte dei mortali
fa scalo presso l’Isole Beate,
per poi riprendere ancora il suo viaggio.
Intercetta il primo bianco raggio
e penetra le aurore beneamate
infin che il sole spalanca i portali.