(a cura del centro studi arya)
La memoria umana, nobile fondamento della tradizione orale, non possiede una precisione assoluta, ragion per cui l’uomo, nei millennî, si è dato molto da fare per inventare un sistema di segni capaci di restituire in forma grafica i suoni articolati in parole.
La prima forma di scrittura inventata dall’uomo fu probabilmente pittografica, partendo dalla rappresentazione figurata di simboli e di oggetti (più che di idee e di concetti astratti). Vale a dire che — per fare un esempio concreto — il disegno di un cerchio con dei raggi rappresentava il sole (su queste basi si strutturarono i geroglifici egiziani).
Poi, lentamente, si passò a una scrittura di tipo ideogrammatica (come lo è ancora oggi il cinese, e come fu la scrittura saraswatî nell’India preistorica per il primissimo sanscrito), ove i varî simboli non rappresentavano più solamente l’oggetto rappresentato, ma anche una serie di proprietà ad esso collegato; riprendendo l’esempio di cui sopra, il simbolo del sole, riprodotto in modo assai più stilizzato (un cerchio con un puntino nel centro, poniamo), prese a rappresentare, oltre al sole, anche l’idea del calore, della luce, del giorno, in un affinamento crescente di associazioni prima vitali e in seguito mentali e intellettuali.
Nel corso dei secoli tale scrittura venne ulteriormente stilizzata, fino ad apparire come una fitta trama geometrica di trattini e triangoli — perciò detta ‘scrittura cuneiforme’, utilizzata per scrivere numerose lingue, quali il sumerico, l’eblaitico, la lingua degli elamiti, degli ittiti, degli hurriti, l’accadico, l’ugaritico, l’antico persiano —, in righe verticali od orizzontali.
Successivamente, da ideogrammatica diventò sillabica (tra queste figura il devanâgarî, ovvero la più nota forma di scrittura del sanscrito, vedico o classico): ogni simbolo grafico passò a rappresentare, invece che una persona o un oggetto, una sillaba.
Infine, venne semplificata in un alfabeto di segni, arrivando così alla scrittura detta per l’appunto alfabetica, utilizzata per la maggior parte delle lingue attualmente parlate sulla terra.
Per nostra fortuna, ai primordi della scrittura si utilizzavano tavolette d’argilla che, a differenza di materiali quali il papiro (utilizzato dagli egiziani), la pergamena (romani), le foglie di palma (indiani), il rotolo di seta (cinesi), di cuoio (ebrei) o di lino (etruschi), non subiscono le ingiurie del tempo in modo così impietoso. Certo, la tavoletta d’argilla può scheggiarsi o spaccarsi, ma non si brucia. Un incendio — fatale per una biblioteca di carta —, di fatto cuoce le tavolette d’argilla e le rende ancora più resistenti. Interrate e sepolte, possono sopravvivere per moltissimo tempo invece di corrompersi e marcire. Questo spiega perché gli scavi in zone quali la valle dell’Indo-Saraswatî, o l’area mesopotamica, abbiano riportato alla luce migliaia e migliaia di tavolette, permettendo di effettuare affascinanti ricerche in ambito linguistico.
Tra questi studi, merita un posto d’onore il lavoro pionieristico del dottor N. Jha (nato in India nel 1939), il quale è giunto a decifrare più di 3.500 tavolette contenenti i primi shabdakosha vedici, attirando così l’attenzione del World Archaeological Congress Forum, in particolare con i suoi lavori di deciframento delle iscrizioni rinvenute negli scavi effettuati nell’area in cui sorse la civiltà dell’Indo-Saraswatî. Prima di lui, infatti, non era ancora chiaro il collegamento tra la letteratura vedica e tali tavolette (e, di conseguenza, non si era ancora certi di poter identificare come vedica la ricca e progredita civiltà Saraswatî, risalente a più di novemila anni fa!).
È sconcertante notare come la popolazione dell’Indo-Saraswatî, nonostante la remota antichità, non sia poi così lontana da noi nella sua forma di pensiero. Lo studio del dottor Jha ci permette per l’appunto di ammirare il vigore e l’elevatezza intellettuale di un popolo i cui effetti si fecero sentire, nel tempo, perfino in ambiti culturali geograficamente molto distanti, in particolare nell’area semitica, in quella celtica e in quella greca (ma recenti studi riscontrano sorprendenti corrispondenze perfino con i cosiddetti ‘nativi d’America’). E non soltanto nel dominio proprio della poesia e della filosofia, ma anche delle scienze esatte quali la matematica, la geometria, la trigonometria.
Dal linguaggio saraswatî rinvenuto nelle tavolette, si sviluppò in seguito il devanâgarî (che, dicevamo, è la scrittura sillabica mediante la quale viene scritto ancora oggi il sanscrito) e, posteriormente, verso il XV secolo a.C., il linguaggio detto brâhmî (ripreso poi all’epoca del grande imperatore indiano Ashoka, sovrano della gloriosa dinastia Maurya) e, contemporaneamente, il primo linguaggio semitico, come dimostrano alcune tavolette rinvenute a Takshila (nell’attuale Pakistan, ove sorse la prima università del mondo). Come il linguaggio saraswatî sia giunto in Medio Oriente, non è ancora stato svelato con certezza; pare comunque che verso la fine del XV secolo a.C. alcuni emissarî del re Ashoka, da questi inviati per propagare il buddhismo, si recarono nello Sri Lanka e, successivamente, nell’Asia occidentale, ove i popoli semitici ebbero modo di conoscere il linguaggio saraswatî accettandone 22 segni, la cui evoluzione avrebbe portato alla formazione dell’aleph-beit (alfabeto) ebraico. Al tempo stesso, un flusso migratorio dall’India in Europa fece conoscere ai greci il saraswatî, il quale formò la base del greco antico e dei primi caratteri alfabetici del latino.
Molti studiosi hanno ormai esaminato con attenzione le corrispondenze che legano il sanscrito al greco e al latino, al punto che è ormai accettata da tutti la loro appartenenza a un comune ceppo denominato ‘indoeuropeo’. Limitiamoci qui a fornire qualche esempio — indichiamo, nell’ordine, il termine sanscrito, greco, latino, e infine la traduzione italiana: matar, meter, mater, madre; paradesha, paradeisos, paradisus, paradiso; âtman, anemos, animus, anima. Assieme a sanscrito, greco e latino, ovviamente, tutte le lingue da esse derivate sono legate dalla stessa parentela; cioè a dire, tutte le lingue europee e tutti i varî ‘prâcrita’ indiani (compreso il tamîl, parlato nel Tamil Nadu, e il kafiri, parlato nel nord dell’Afganistan).
Più recenti sono invece gli studi che cercano di ravvisare simili corrispondenze tra il sanscrito e talune lingue appartenenti a civiltà non indoeuropee, per esempio quelle precolombiane. Un caso piuttosto sorprendente e affascinante è rappresentato dalla lingua quichua, parlata dall’antico popolo degli Inca. Al sanscrito sura (illuminare) possiamo infatti affiancare agevolmente il quichua chirau (risplendente). Così come al sanscrito mita (passo), poniamo il quichua mita (tempo). E così via: mut (controllare) e muti (controllo); nanda (sorella) enana (sorella); pike (frantumare) e pakkni (frantumare); paksa (luna piena) e paksa (luna).
Molti sono i misteri che la linguistica e l’archeologia ci dovranno svelare nei prossimi decennî, dall’origine della scrittura fino all’origine della civiltà umana stessa. Scoperte che potrebbero rivoluzionare radicalmente le nostre attuali conoscenze sull’antichità della specie umana e sulla complessa rete di interscambi avvenuta in epoche preistoriche tra i primi abitanti umani di questo pianeta.
Su questa linea, alcuni ricercatori hanno da poco intrapreso affascinanti esplorazioni sottomarine lungo le coste dell’Oceano Indiano, iniziando a scoprire i resti di una remotissima civiltà sommersa dalle acque, che conferirebbe — secondo alcuni studiosi — un fondamento storico al mito di Lemuria (conosciuto in India con il nome di Kumarikhandam, o la terra di Sund, di cui si parla abbondantemente nella letteratura tamîl, la cui tradizione ci dice che venne sommersa dalle acque qualcosa come trentamila anni fa!).
Ma questo ci porta ben oltre l’argomento del presente articolo. A meno che non si voglia congetturare sulla lingua e la scrittura dei lemuri!… compito che lasciamo volentieri ad altri.
Novembre 2003