a cura della redazione del sito arianuova.org
«La pena di morte non è un diritto
ma è una guerra della nazione
contro un suo cittadino»
Cesare Beccaria (1738-1794)
Non esiste modo migliore per iniziare una serie di riflessioni sulla pena di morte delle parole di Cesare Beccaria, il celebre letterato, economista e giurista italiano, autore del libro Dei delitti e delle pene (del 1764), che tanto si è battuto per eliminare questo barbaro delitto, insieme alla tortura.
Non solo in Italia, ma presso tutti gli stati dell’Unione Europea la pena di morte è categoricamente bandita. E i paesi desiderosi di entrare nell’UE devono come prima cosa dimostrare che questa pena non è prevista nel loro ordinamento giuridico. Questo è uno dei motivi per cui la Turchia non è ancora entrata a far parte dell’Unione.
Troppi paesi nel mondo applicano ancora la pena di morte. Ricordiamo i due maggiori: Cina e Stati Uniti d’America. E non si capisce come mai gli U.S.A., alleati con l’Europa, non vengano dai governi europei svergognati e aspramente criticati come meriterebbero. Che ci siano dietro interessi diplomatici e commerciali?
Uno stato-padrone che gestisce una pena assoluta, senza scampo, irreversibile, la cui schizofrenica applicazione, gli errori, l’assistenza legale inadeguata, le violazioni di procedure, le discriminazioni sociali e razziali, le montature poliziesche (emblematici i casi statunitensi dell’Objiway-Sioux Leonard Peltier e dell’afroamericano Mumia Abu-Jamal), portano troppo spesso al patibolo persone risultate poi innocenti. Proprio come hanno più volte documentato i rapporti di “Amnesty International” e le analisi della “Columbia Law School” sulle sentenze capitali negli Stati Uniti d’America, e come ha evidenziato la ricerca pubblicata sulla prestigiosa “The Stanford Law Review”. Chi ricorda i casi eclatanti di James Adams giustiziato nel 1984, Doyle Skillern e Roosevel Green nel 1985, Edward E. Johnson, Irineo Montoya, Anthony Westley e tanti altri, tutti innocenti?
Qualcuno, evidentemente cinico, sostiene che per lo meno negli U.S.A. queste cose si vengono a sapere, mentre le pene di morte in Cina sono rigorosamente top secret perché il governo dittatoriale cinese non lascia trapelare nulla. Ma questa, benché sia un’ulteriore aggravante che pesa sul regima comunista cinese, non rende certo più rosea la situazione statunitense.
Nello sprofondo infernale dell’anticamera del patibolo di San Quentin, dove si vive una pallida morte distillata in secondi infiniti e uguali, «non c’è un ricco a volerlo cercare con il lanternino, e non sono l’unico qui, a San Quentin, a essere innocente», commentava amaro Ya-nu a-di-si (‘Orso che Corre’), nel libro “Prigionieri dell’uomo bianco” (realizzato a quattro mani, insieme allo yaqui-azteco Fernando Eros Caro).
Anche fra avvocati e giuristi è diffusa l’opinione, confortata da dati empirici e da riscontri soggettivi, che gran parte dei detenuti si trovino nei bracci della morte delle carceri statunitensi non perché abbiano commesso i crimini più orrendi (ovviamente in molti casi è vero), ma perché appartengono a gruppi etnici e sociali emarginati e poveri. Non a caso l’associazione dei 500.000 avvocati americani (ABA) ha più volte protestato e chiesto di fermare le esecuzioni, sollecitando il Congresso americano a intervenire per varare quella che chiamano “Innocence Protection Act”, per salvaguardare gli imputati meno garantiti che rischiano la pena capitale perché non hanno i soldi per pagarsi un avvocato e per dissipare «i seri interrogativi sull’equità della pena», come ha osservato anni fa il giudice della Corte Suprema U.S.A., Sandra Day O’Connor;
«Sapete cosa significa la pena capitale in America, gente?», chiese John Spenkeling, prima di salire sulla sedia elettrica. E, con un sarcasmo alla Beppe Grillo, continua: «Ve lo spiego io: significa una pena per quelli che non posseggono capitale».
Non si dimentichi, oltretutto, che il crimine è un affare assai lucrativo per lo stato: gli Stati Uniti d’America sono il più grande produttore di galeotti al mondo. Un business che ingrassa lobbies governative, industrie tessili, imprese edili, multinazionali. Si è convogliato un esercito, asservito a costo zero, di forzati del lavoro nelle carceri sempre più privatizzate e trasformate in profitable enterprises (‘imprese redditizie’ quotate a Wall Street).
Gennaio 2006