GLOBALIZZIAMO I DIRITTI!

(a cura del CENTRO STUDI arya)

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Quando, nel 1996, l’acuta e sensibile giornalista francese Viviane Forrester pubblicò il libro L’horreur économique, molti lettori ebbero la sensazione descritta nella celebre fiaba dei vestiti nuovi dell’imperatore, in cui il bambino gridò «ma il re è nudo!», e tutti si riconobbero fingere di vedere Sua Maestà riccamente abbigliato con chissà quali splendidi broccati. Ora, il Re è precisamente questo enorme e tentacolare Moloch conosciuto con il nome di WTO (World Trading Organization, l’Organizzazione mondiale del commercio), mentre i sarti imbroglioni sono, in tutta evidenza, i grandi possessori di capitali, le cui ricchezze aumentano proporzionalmente al crescere del loro cinismo (pertanto, sono immense). Viviamo insomma in quella che in India viene chiamata l’èra degli Asura, in cui dominano le creature più basse della scala evolutiva. Una strana epoca in cui, per usare le parole di Shakespeare, «Hell is empty, and all the devils are here» (The Tempest, I.II.214-215, “l’inferno è vuoto, e tutti i diavoli sono qui”). I bardi del passato vedevano in anticipo, e parlavano di una imminente età del Ferro, Kali-yuga, l’epoca buia. E noi, con Elias Canetti, «neppure presagiamo quanto tempo ci sia rimasto per vedere il peggio; ma potrebbe darsi benissimo che il nostro destino sia subordinato a determinate conoscenze che ancora non possediamo» (Die Gespaltene Zukunft). A ogni modo, proprio come nelle antiche saghe indoeuropee, è necessario combattere per opporsi alle forze dell’oscurità che minacciano il progredire della coscienza umana e terrestre.
Ma, per restare giustappunto con i piedi per terra, cosa accadde dopo che il libro di Viviane Forrester divenne un best-seller e vinse il prestigioso premio Médicis? E cosa avvenne quando altri libri uscirono sull’argomento, primo fra tutti (nel 2000) il celebre “No logo” della giornalista canadese Naomi Klein? Niente di niente, giacché è sempre lo stesso Demiurgo a governare il mondo con tutta l’abilità stregonesca del suo nulla. Gli economisti si sono affrettati a annacquare il vino di quelle vigorose denunce, i politici hanno sollevato il loro solito polverone linguistico, le multinazionali hanno potuto continuare a impoverire impunemente Madre Terra per ingrassare alle spalle dei comuni mortali.
Ciò nonostante, e in brevissimo tempo, un vento di protesta si è propagato su tutto il pianeta — da Seattle, a Nizza, a Genova, a Davos, a Porto Alegre — suscitando indignazioni e grida di sdegno, per organizzarsi in un movimento apartitico sempre più efficente, che è diventato uno dei segnali più significativi di una profonda rivolta contro le varie forme di ingiustizia sorta nel cuore di questa nostra Terra oltraggiata — rivolta che assume via via proporzioni e forme sempre più precise, che i potenti non possono più occultare né sminuire, sebbene tentino in vario modo di screditare il movimento, di dividerlo, di indebolirlo. Ma, fortunatamente, esso è nato con l’impeto di uno di quei maestosi torrenti dotato per natura del potere di attrarre ogni cosa nella sua poderosa corrente e si sta propagando in ogni direzione con la rapidità di un ciclone. Segnali, questi, che dovrebbero offrirci una qualche garanzia sul fatto che esso sopravviverà a tentativi di manipolazione e di delegittimazione, evolvendosi in forme sempre più adeguate a esprimere il profondo rifiuto di quanti non accettano di tollerare questo miserevole stato di cose. Oltre al fatto che i più grandi sociologi stanno osservando il fenomeno con molto interesse e speranza (Werner Hofmann addirittura lo preconizzò, per certi aspetti, nelle previsioni finali del suo istruttivo saggio Ideengeschichte der sozialen Bewegung). Interessante, in tal senso, anche il libro dell’economista inglese Noreena Hertz, The Silent Take-Over, il quale pone in evidenza in modo efficace le più palesi contraddizioni delle moderne ‘democrazie’, le cui redini sono in realtà nelle mani di pochi plutocrati.
L’incontro di Porto Alegre del febbraio 2002 costituisce una chiara testimonianza di questa speranza che si fa via via più concreta; alcuni punti chiave sono stati posti in giusta evidenza, che vogliamo qui riassumere in modo saliente:
- il rifiuto della violenza come metodo di lotta;
- l’attacco deciso alle lobbies che vogliono monopolizzare i brevetti sui farmaci (impedendo di fatto ai paesi poveri di utilizzare i medicinali per curarsi), commercializzare indiscriminatamente gli OGM(organismi geneticamente modificati), oltre all’opposizione agli allevamenti zootecnici intensivi;
- l’istituzione della Tobin Tax, un’imposta sul commercio mondiale; a questo proposito, il “Rapporto Lugano” metteva in evidenza che «politiche keynesiane globali come la tassazione delle transazioni internazionali e la costituzione di fondi di ‘sicurezza’ potrebbero prevenire catastrofi e gravi rivolgimenti sociali, ma coloro che ne beneficerebbero non ci credono più di quanto le élite del commercio e della finanza americane credessero al New Deal» rooseveltiano;
- la lotta contro la privatizzazione delle risorse idriche;
- il deciso no alla guerra come strategia politica per portare la pace nei punti caldi del pianeta, cercando piuttosto di capire e prevenire le cause degli scontri, quale ad esempio la necessità di una più equa distribuzione delle ricchezze (da cui deriva la necessità di una maggiore equità nelle regole del commercio internazionale, tendente a combattere lo sfruttamento della manodopera nei paesi attualmente poveri e a conferire maggiori diritti ai lavoratori ‘atipici’ nei paesi industrializzati), azzerando innanzitutto il debito dei paesi poveri (e ciò, vale proprio la pena di precisare, sarebbe un atto di giustizia, non di carità, dato che la maggior parte di questi paesi sono diventati poveri anche e soprattutto a causa dello sfruttamento da parte dei paesi ricchi, come gli storici iniziano a documentare).
A tale programma di vasta portata occorre ovviamente aggiungere tutte quelle iniziative locali (intraprese perlopiù da piccoli gruppi, ma non per questo di minore rilevanza) volte a una maggiore consapevolezza nell’uso delle risorse.
Tali rivendicazioni hanno assunto un grido comune, una sorta di mantra che sintetizza bene la richiesta attualmente più impellente: «globalizziamo i diritti!». Ciò per ribadire che non si è affatto contrari alla globalizzazione tout court, bensì che si vogliono evitare gli aspetti deleteri di un simile inevitabile (e, tutto sommato, benvenuto) processo. Se per globalizzazione si intende una crescente vivacità di interscambi tra i popoli e una sempre maggiore attenzione nei confronti delle diversità in direzione di un affratellamento amorevole, allora siamo pronti a sostenere tale processo con tutte le nostre forze. Viceversa, se si vuole appiattire il mondo su uno stampo univoco affinché i grandi imperi finanziari possano controllarlo sempre meglio, esasperando giocoforza le disparità economiche, allora no, non possiamo accettare e ci batteremo per impedire che ciò avvenga. Noi auspichiamo l’avvento di quell’homo novus (per citare il grande Giordano Bruno) capace di creare un ponte tra materia e spirito, non l’aberrazione dell’homo economicus che pretenderebbe ridurci in voraci consumatori senz’anima.
Molte personalità di spicco, nelle varie parti del pianeta, guardano al movimento impropriamente detto “no-global” (da altri definito, con maggiore precisione, movimento antiliberista — contrario cioè a quel liberismo che rende i ricchi sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri) con crescente spirito di simpatia e di collaborazione. Tra queste, particolarmente degno di nota è l’alto numero di presenze femminili: ci basti ricordare qui Aminata Traoré (ex ministro della Cultura del Mali), il Premio Nobel per la Pace Rigoberta Menciù, l’agguerrita sindacalista filippina Nida Barcedas, la biologa indiana Vandana Shiva (la quale sostituisce il termine ‘no-global’ con quello di ‘pro-local’), l’argentina Estela Carloto di Plaza de Mayo. Fa piacere notare, in questo mondo tristemente al maschile, quanto le donne siano determinate nel denunciare i misfatti dei potenti. Perfino Hilary Clinton ha avuto il coraggio di ammettere davanti ai suoi concittadini che «noi americani non abbiamo fatto la nostra parte per rispondere alle sfide globali come la povertà e le malattie», sebbene tale incapacità sia notevolmente accresciuta con il ritorno negli States (e non solo là, purtroppo) della peggiore destra retrograda, qualunquista e guerrafondaia.
Ora che stiamo vivendo un momento in cui, più che mai, i capi di stato d’Europa e d’America (e spesso anche del cosiddetto Terzo Mondo) controllano enormi interessi economici, non possiamo più accettare lo status quo — riteniamo anzi debba essere preciso dovere di ogni singolo individuo far sentire la propria voce di protesta utilizzando mezzi pacifici ma decisi. Ognuno di noi può certamente contribuire a suo modo; riprendendo una frase quanto mai azzeccata di Franca Rame e Dario Fo, ognuno di noi va a votare ogni volta che fa la spesa. All’indomani del terribile attentato alle Torri Gemelle, Dario e Franca concludevano la loro personale riflessione con parole che dovrebbero farci riflettere: «In questi anni abbiamo lavorato con successo per dimostrare che è possibile consociare i nostri consumi, risparmiare, avere prodotti migliori e, al tempo stesso, boicottare il mercato della morte rifiutandoci di portare i nostri soldi al loro mulino. Oggi queste scelte non sono più solamente giuste e convenienti, sono anche urgenti e irrimandabili. Ti chiediamo di fare un gesto, subito, ora. Non c’è più tempo per pensarci sopra. La locomotiva del capitalismo selvaggio sta accelerando la sua velocità, punta con determinazione assoluta verso la guerra e la distruzione del pianeta. Il mondo è governato dal denaro. I soldi sono l’unico argomento al quale i potenti siano sensibili. Dai una possibilità alla pace. Subito. Inizia tu. Non aspettare che lo facciano gli altri. Ogni lira che togli ai signori del mondo è un respiro che regali all’umanità. Voti ogni volta che fai la spesa!» (Dario Fo e Franca Rame News, 12 settembre 2001).
Ma ciò che, in fin dei conti, ci preme più d’ogni altra cosa porre in evidenza, è che, come la stessa Viviane Forrester scrisse nel libro citato in apertura del presente articolo, tutti noi oggi non ci troviamo in una delle tante crisi (economiche, politiche, sociali, morali o religiose) che l’umanità ha conosciuto nel passato: siamo alla fine di un ciclo umano, stiamo assistendo al definitivo tramonto di una civiltà, ci troviamo in piena transizione verso QUALCOSA D’ALTRO che ignoriamo totalmente, ma che bussa insistentemente alle porte del nostro mondo in decomposizione affinché un nuovo ignoto possa finalmente irrompere e concretarsi, qui e ora.
Lasciando ai perdigiorno ogni vana congettura sul futuro, ciò che a noi interessa è affrettare con il nostro grido, con la nostra rivolta, con il nostro impegno, l’avvento sulla terra di questa nuova coscienza, affinché la sua venuta ponga definitivamente fine alle aberrazioni crepuscolari di questo piccolo e presuntuoso essere mentale che siamo. Ogni volta che apprendiamo con quale spietata crudeltà l’uomo si abbatte sui bambini (abusandone sessualmente), sulle donne (costringendole a prostituirsi e, più in generale, a ridursi a delle bambole gonfiabili), sui più deboli (sottoponendoli a ritmi di lavoro disumani e remunerandoli con paghe da fame), sugli animali (massacrandoli per trasformarli barbaramente in pellicce, o in pietose mucche tremanti affette dal morbo della BSE, o in tacchini nutriti a forza con un imbuto cacciato in gola, o in povere bestie costrette a vivere in stalle-lager) la nostra indignazione cresce di pari passo con la nostra vergogna, e cresce soprattutto la nostra ribellione contro questo mondo umano insopportabile e rivoltante. Sì, abbiamo tremendamente bisogno di qualcosa di radicalmente altro! Non un mondo ‘migliore’, che sarebbe poi lo stesso orrore con una lieve doratura in superficie, no: vogliamo un mondo ALTRO, totalmente ALTRO da quello tristemente noto. Non ci pare ci siano molte alternative possibili.

«Poiché l’uomo ha finito!
L’uomo ha recitato tutti i ruoli!
… Il dio che vive, sotto la sua argilla di carne,
salirà, salirà, bruciandogli la fronte!»

— come Arthur Rimbaud seppe vedere in anticipo (in Soleil et Chair), da autentico vate. Probabilmente, noi ci troviamo a vivere in un’epoca assai più cruciale di quel che la nostra ristretta e sempre più surriscaldata ‘fronte’ è in grado di congetturare — e così, giunti al fondo di questa notte di piombo (non dovrebbe mancare molto, ormai) potremmo ritrovarci di colpo in una nuova aurora. Assorbiti dalla ristretta visione del quotidiano, spesso facciamo fatica a scorgerne anche solo qualche vago albore. Oppure — e questa è forse l’unica domanda sensata che ognuno di noi dovrebbe porsi (ammesso che ne trovi il coraggio) — non sarà che c’è talmente tanta oscurità dentro di noi da essere un corpo unico con quelle tenebre destinate a svanire, fugate dall’imminente nuovo Sole?

Marzo 2002