Riportiamo qui di seguito uno scambio epistolare incentrato su un saggio che Satprem concluse nel mese di giugno del 1995 e che venne come di consueto pubblicato, a ottobre dello stesso anno, da Robert Laffont (titolo originale francese: La Tragédie de la Terre — de Sophocle à Sri Aurobindo). Tommaso Iorco, poeta e regista teatrale, fondatore di aria nuova, risponde a una richiesta di chiarimento.
«Caro Tommaso,
[…] mi piacerebbe ricevere una qualche tua impressione sul libro di Satprem La Tragédie de la Terre. Più volte sono stato tentato d’acquistarlo per poterlo leggere, ma alcune critiche negative pervenutemi da persone competenti mi hanno frenato. Come sai, tutti i libri di Satprem che ho avuto modo di leggere mi hanno sempre appassionato e coinvolto all’estremo e, forse, da qualche parte dentro di me, c’è il timore di rimanere deluso. Ti sarei grato se potessi dirmi la tua, se non ti è troppo disturbo.
[…] Beppe»
«Caro Bepin,
non mi dispiace affatto pronunciarmi sul saggio di Satprem da te indicato, soprattutto perché alcune critiche negative sono giunte anche alle mie orecchie e ritengo opportuno approfittare dell’occasione per tentare di portare un po’ di chiarezza, pubblicando sul sito questo scambio epistolare.
Una premessa, anzitutto: personalmente ho imparato a diffidare delle critiche (positive o negative) di chicchessia e cerco sempre di “toccare con mano”. Ritengo sia sempre preferibile farsi un’opinione propria, fosse pure sbagliata, che dipendere dalle opinioni altrui (quanto alle persone «competenti», troppo spesso ho visto annidarsi fra di essi personaggi presuntuosi, gonfi d’aria fritta).
Satprem possiede una scrittura (e una personalità) che suscita le reazioni più contrastanti: avrai certamente conosciuto individui che prendono ogni sua più minima espressione come Verità indiscutibile, guardando con un senso di religioso fastidio chiunque osi mettere in dubbio le sue affermazioni, mentre ve ne sono altri che — all’opposto — hanno tali e tanti pregiudizi nei suoi confronti che qualunque cosa derivi da lui non la ritengono degna di essere minimamente presa in considerazione. Personalmente ho sempre diffidato di entrambi questi atteggiamenti — al punto da non saper dire quale dei due mi appaia più pernicioso nella sua manifestazione di ristrettezza mentale.
E, come se non bastasse, recentemente si è formata una terza categoria, la più becera, costituita da quanti avevano un atteggiamento disgustosamente servile quando Satprem era nel proprio corpo, trasformatosi poi in rancore o disprezzo (se non qualcosa di peggio) dal momento in cui hanno da questi ricevuto il doveroso benservito. Rancore e disprezzo tenuti ben celati, sbandierati alla luce del giorno solo quando Satprem abbandonò il corpo. Il che la dice proprio lunga sulla bassezza, l’opportunismo e la viltà di questi voltafaccia.
Ma veniamo al libro in questione. Devo confessarti che, quando ricevetti la lettera informativa in cui si avvisava di questo nuovo scritto, il titolo mi lasciò un poco perplesso. Non tanto perché si paragonava la storia della Terra a una tragedia: chi è avvezzo al linguaggio di Satprem ne coglie immediatamente il senso recondito e la particolare accezione — oltre al fatto che, se guardata con sufficiente lucidità e universalità (come i poeti sanno fare in modo eccelso), difficilmente l’avventura terrestre appare qualcosa di diverso da un continuo succedersi di cataclismi e di stragi che, per quanto forse necessari, hanno dolorosamente contrassegnato tutte le sue tappe evolutive. Fu il sottotitolo invece a stupirmi alquanto — quel De Sophocle à Sri Aurobindo, “da Sofocle a Sri Aurobindo”. Cosa intendeva significare? Personalmente, infatti, non coglievo (e non colgo tuttora) alcun rapporto fra il grande Tragico greco e il moderno Avatàra. Benché Nietzsche apostrofi Sofocle come «il più amabile e il più amato fra gli Ateniesi» (ne La Gaia Scienza), che cosa poteva veramente accomunare (fatto salvo l’essere entrambi poeti di altissima levatura) Sofocle — che in Edipo a Colono fa dire al coro che LA SORTE PREFERIBILE È NON NASCERE (Canto della vita respinta, Antistasimo a, versi 1565-1566: «Non nascere: mi vinse ogni pensiero | questo soltanto.») — con Sri Aurobindo che, al contrario, indica invece la terra come IL luogo privilegiato di una manifestazione divina? «Io, la Terra, ho un potere | più profondo del Cielo; | […] Per mezzo mio il finito, | anelante, si sforza | di giungersi all’estremo | ignoto d’infinito, | l’Eterno è frantumato | in vite impermanenti | e la Deità murata | nella pietra e nel fango», leggiamo in una delle sue meravigliose liriche (nella fattispecie, The Life Heavens, del 1933). Perciò, ovviamente, l’unico modo per cercare di capire il senso di quel sottotitolo per me incomprensibile era di leggere il libro, per poi trarne le mie personali conclusioni. E così feci.
Quando mi arrivò a casa la copia, lo aprii e notai subito un ulteriore elemento che contribuì a rafforzare l’iniziale incomprensione: a pagina 8 e 9, fianco a fianco, trovai riprodotte due foto: la testa della statua di Sofocle e il primo piano di Sri Aurobindo risalente al 1950. Messe così, una di fronte all’altra, sembrava volessero ribadire una qualche continuità di coscienza fra i due Poeti che non risultava affatto al mio sentire, pur nutrendo per entrambi il massimo rispetto (e ben altro ancora!).
A uno spirito poco dotato di quella preziosissima qualità conosciuta con il nome di onestà intellettuale, pronto perciò a saltare in conclusioni affrettare per poter confermare quanto già aveva nella propria testa, questi due elementi sarebbero bastati per formarsi un’opinione preconcetta negativa del libro e decretare che il suo autore cercava di far apparire Sri Aurobindo come una figura fondamentalmente tragica, il che sarebbe indubbiamente stata una colossale deformazione di quanto in realtà Sri Aurobindo incarna e rappresenta per la coscienza della Terra: la promessa di una Gloria di realizzazione materiale senza precedenti, la certezza di una manifestazione della Gioia divina nel cuore della Materia.
In realtà, leggendo attentamente il libro, compresi che non vi era la minima intenzione di porre alcun nesso comparativo fra Sofocle e Sri Aurobindo. Nel mostrare alcuni tratti della poetica sublime e suasiva e melodiosa di Sofocle, Satprem ha cercato (questa la conclusione che una lettura attenta mi ha dettato) di condensare il meglio della tradizione dell’Occidente, ovvero la sua capacità di guardare con occhi indagatori lo spettacolo universale, il coraggio di scorgere il soggiacente Orrore e di tentare di coglierne il senso più profondo. In quest’ottica, Sofocle sintetizza magistralmente una linea di ricerca che in Occidente vanta un nutrito numero di filosofi e di ricercatori (poeti, alchimisti ed ‘eretici’ vari). Parallelamente, Satprem fa notare come quell’interrogativo mai risolto trovi in Sri Aurobindo piena soluzione e significazione — e quella che finora è stata una Tragedia, è destinata, grazie all’Opera di Sri Aurobindo e Mère, a trasformarsi in una gloriosa manifestazione della Gioia divina. «Per la gioia, non per il dolore questo mondo fu fatto», leggiamo in Savitri, il capolavoro poetico di Sri Aurobindo, le cui citazioni ricorrono in continuazione in questo scritto di Satprem, come a fare da contrappunto e da continua risposta poetico-rivelatoria agli interrogativi così scintillanti d’arguzia e di grazia poetica dei versi di Sofocle. Interrogativi che, come si diceva, rappresentano il filone più genuino e più profondo del lungo percorso conoscitivo occidentale.
Da non trascurare nemmeno il fatto che Satprem, come forse saprai, fu un appassionato della tragedia greca fin dai primi anni liceali parigini (in quel periodo frequentò pure una scuola di recitazione diretta dal grande Charles Dullin, il rivoluzionario regista teatrale, autore di Ce sont les dieux qu’il nous faut e collaboratore di Jacques Copeau). Al punto che il suo secondo romanzo, Par le corps de la terre ou le Sannyasin, nella sua prima versione aveva la forma di una tragedia greca. Oltre al fatto che in tutta quanta la sua produzione letteraria le citazioni dei tragici greci abbondano, fin dal suo primo libro (L’Orpailleur), contenente una stupenda citazione tratta da Le Baccanti di Euripide.
Ad ogni modo, questo saggio di Satprem, diviso in due sezioni che si consumano in un epilogo, nella seconda parte (soprattutto da pagina 154, a partire dal paragrafo intitolato “Le phénomène”) si sofferma con particolare insistenza su quel Lavoro di trasformazione della Materia che costituisce l’essenza dei tredici volumi de L’Agenda de Mère (per la realizzazione dei quali Satprem, non dimentichiamolo, fu scelto espressamente da Mère in vesti di testimone e di scriba) e dei ventiquattro volumi degli stessi Carnets d’une Apocalypse, i diari personali attestanti il tentativo dello stesso Satprem di continuare, a livello umano, quello che i due Avatàra hanno intrapreso nei loro corpi e che stanno portando avanti a livello sottile.
All’epoca in cui tale saggio venne pubblicato, i Carnets non avevano ancora fatto la loro comparsa editoriale (il primo volume sarebbe uscito solo quattro anni dopo, nel 1999), sicché il contenuto ne veniva mirabilmente anticipato in alcune linee essenziali (proseguendo quel percorso che Satprem aveva già incominciato con un altro suo bel libro, del 1989, speculare a questo fin dal suo titolo: La Révolte de la Terre). E perfino adesso, nel 2008, in cui sette dei ventiquattro volumi dei Carnets sono stati pubblicati, le riflessioni contenute ne La Tragédie de la Terre relativamente alla Trasformazione possiedono un valore immenso per chi è interessato a seguire il cammino del “dopo-uomo”.
Se proprio volessimo cercare a tutti i costi dei limiti di questo bellissimo saggio (ogni libro ha i suoi limiti, per forza di cose), forse il suo Autore avrebbe dovuto addentrarsi in tutti e tre i grandi tragici greci, in particolare nell’immenso Eschilo, mentre lo fa solo di sfuggita e si concentra quasi esclusivamente su Sofocle. Eschilo fu probabilmente il più grande, il più vasto e il più profondo dei tragici greci, oltre ad avere divulgato i misteri eleusini (forse proprio questa accusa fu responsabile del suo esilio siculo); lo stesso Sri Aurobindo considerava Eschilo assai superiore a Sofocle dal punto di vista poetico, e sarebbe certo stato opportuno riservargli un maggiore spazio. Tuttavia, questi sono dettagli in fin dei conti trascurabili, che nulla tolgono al valore del testo in sé, soprattutto se si tiene conto che non è stato scritto con l’intenzione di figurare quale saggio poetico (Satprem, peraltro, non ha mai avuto la pretesa né tanto meno l’interesse di essere un critico poetico), ma un testo più simile a quelli cui la sua prosa personalissima e carica di forza ci ha abituati (senza mai stancarci, oltretutto) in tanti anni di alta produzione letteraria — e attraverso i quali non ha mai cessato di stimolarci e fornirci chiavi d’inestimabile valore.
Ecco. Come vedi, mi sono dilungato parecchio, ma tenevo a darti qualche indicazione sufficientemente precisa dell’impressione che questo libro ha in me suscitato e ti ringrazio per avermene dato l’opportunità.
[…] Tommaso».
Lugnasad, 1 agosto 2008
NOTA SUCCESSIVA,
(INSERITA NEL 2016):
Con la pubblicazione del dodicesimo volume del diario privato di Satprem (“Carnets d’une Apocalypse”, relativo all’anno 1992), abbiamo modo di comprendere il reale motivo che spinse Satprem a scrivere il saggio “La Tragédie de la Terre”. Il 2 maggio 1992, infatti, egli annota:
«È da parecchie decadi che non penso più a Sofocle: dagli anni dei miei studi scolastici (talvolta mi sono tornati alla memoria Euripide e Eschilo).
E, questa notte, ho visto Sri Aurobindo — l’immenso Sri Aurobindo, in piedi —, il quale mi ha fatto dono di due libri: uno relativo a Sofocle, l’altro all’Evoluzione…! Mi sono chinato ai suoi piedi, tenendo in mano i due libri, che esitavo a poggiare per terra. (Si trattava di “grandi” libri, dalla forma rettangolare, di circa 20 cm x 15 — non particolarmente spessi ma aventi una forma bizzarra). Sofocle e l’Evoluzione…».
Lo stesso giorno, Satprem racconta tale visione a Sujata, la quale gli chiede se, prima d’ora, avesse mai associato Sofocle all’evoluzione. Satprem risponde perentorio:
«No, non ho mai associato Sofocle all’evoluzione! Resta il fatto che tutti i suoi eroi sono in lotta contro il destino, e contro gli dèi.»
Sujata, poco dopo, osserva: «Tutti questi irriducibili che hanno lottato contro il Destino, vogliono magari significare che, adesso, giungono al Vero Senso dell’evoluzione, ti pare? Perché mai Sri Aurobindo, che ha presieduto all’evoluzione fin dal principio, ti consegna questi due libri insieme? La cosa deve certamente avere un senso.»
Da qui nascerà l’esigenza di scrivere La Tragédie de la Terre.