Suona davvero ridicolo il sillogismo secondo cui chi si permette di criticare gli Stati Uniti d’America è considerato ipso facto un antiamericano e, per conseguenza, un antidemocratico. Non molto tempo fa, similmente, chiunque osasse criticare la Chiesa cattolica era un miscredente, un ateo, un eretico degno delle torture e del rogo dell’Inquisizione. Cambiano le bandiere, ma la stupidità umana resta identica a se stessa, a quanto pare. Ed è oltremodo buffo notare l’accanimento di alcuni personaggi politici nei confronti di chiunque formuli una qualche critica nei confronti degli States. «Lei è un antiamericano!», si sente immediatamente tuonare, esattamente al modo di quei preti che davano dell’anticristo a chiunque osasse mostrare delle idee diverse da quelle professate dalla chiesa, seguendo poi con la filza degli appropriati anatemi e delle doverose scomuniche. Senza contare che lo stesso Martin Luther King era accusato di essere un antiamericano, mentre adesso il suo impegno di vita viene studiato nelle scuole statunitensi ed è rispettato in tutto il mondo.
Noi siamo persuasi che una grande democrazia si mostri tale proprio quando è capace di una costante volontà di miglioramento, e ciò si esplica in primo luogo in una sincera capacità di autocritica e in una piena accettazione di tutte le osservazioni mosse nei propri confronti, siano esse costruttive o meno. E, per dirla fino in fondo, noi, pur non sentendoci affatto antiamericani, non riusciamo proprio a capire cosa possa esserci di male a considerarsi tali. Mah… probabilmente l’America, per taluni, è diventata l’unico vero Dio da adorare, con i bigliettoni verdi che sostituiscono i santini, e Wall Street che funge da Sancta Sanctorum.
Ad ogni modo, ben consapevoli di doverci sentire pienamente liberi di esternare tutti i nostri dubbi, e senza nutrire preoccupazione alcuna per le etichette che i faziosi vorranno affibbiarci, vogliamo partire da una riflessione che è di un’evidenza lapalissiana: dopo il crollo del blocco sovietico, la Confederazione degli Stati Uniti d’America è rimasta l’unica superpotenza mondiale, e ciò comporta giocoforza il pericolo di un qualche tentativo di egemonia — sia essa politica, culturale, economica o di altro genere. Per quanto democratico possa essere il sistema sul quale è fondato tale regime, le velleità di dominio sono ancora troppo radicate nell’essere umano per ritenere illegittimi simili sospetti. La simpatia che ci lega al popolo americano non ci permette di chiudere gli occhi dinanzi alle numerose ingiustizie compiute dagli U.S.A. nel passato più recente, né ai barbari rituali ancor oggi perpetrati (basti pensare alla pena di morte, di cui George W. Bush si è mostrato uno strenuo e dovizioso praticante quando era governatore del Texas), e neppure ai pericoli che si annidano nel loro attuale sistema, che in una qualche misura possono minacciare — o per lo meno ostacolare e rallentare — il cammino dell’umanità del prossimo futuro.
Oltretutto, è perlomeno curioso notare come spesso, per favorire gli interessi economici delle potentissime lobbies statunitensi, i politici della Grande Mela abbiano osteggiato la formazione di sistemi democratici, finanziando e favorendo in vario modo l’instaurarsi di cruenti dittature — e non soltanto in America Latina (Nicaragua, El Salvador, Cile, Guatemala, Honduras, Paraguay,…), ma un po’ dappertutto nel mondo. Così, per rinfrescarci la memoria, intendiamo qui anzitutto riassumere qualche esempio tra i più eclatanti e vergognosi in proposito, sui quali non esiste la minima ombra di dubbio. Facendoli precedere da una nota del dipartimento di Stato americano risalente al 1948: «Dovremo smetterla di parlare di obiettivi vaghi e irrealistici come i diritti umani, il miglioramento del tenore di vita e la democratizzazione del mondo. In un prossimo futuro dovremo ragionare in termini puri e semplici di relazioni di potere». Ed ecco i risultati.
Negli anni Cinquanta, in Iran i marines deposero Mossadegh perché aveva intenzione di nazionalizzare il petrolio, sostituendolo con lo scià Reza Pahlavi, armando, allenando e finanziando la terribile Savak, la polizia segreta dello scià, che schiavizzò e brutalizzò il popolo iraniano per proteggere l’interesse finanziario delle compagnie di petrolio.
Nel 1956, in Vietnam, l’imperatore Bao Dai fu destituito dal regime del dittatore Ngo Dinh Diem, sostenuto dagli U.S.A., facendo nascere in tal modo la guerriglia dei vietcong, fautori dell’unificazione del paese e appoggiati dal governo nordvietnamita. Nel 1967, l’appoggio statunitense al regime dittatoriale sudvietnamita si trasformò in un vero e proprio intervento militare, provocando una lotta spietata che costò al Vietnam pesantissime perdite di vite umane ed enormi distruzioni, suscitando vaste indignazioni in tutto il mondo e particolarmente negli stessi U.S.A.
Indonesia, 1965: gli Stati Uniti (e la Gran Bretagna) appoggiano apertamente il generale Suharto — che sarà presidente tra il 1968 al 1998 —, il quale farà uccidere barbaramente da 1 a 2 milioni di civili inermi allo scopo di distruggere il partito comunista indonesiano (il PKI). I più importanti quotidiani statunitensi e britannici salutarono Suharto come l’unica stella che brilla nel firmamento asiatico (New York Times: «è un raggio di luce sull’Asia»; Newsweek: «è la speranza là dove non ve n’era»; The Economist: «è un moderato dal cuore benevolo»!!!). E più recentemente, nelle elezioni avvenute sull’isola indonesiana di Timor Est (nel 1999), qualcosa di simile si è perpetrato, su scala più ridotta, quando all’indomani del referendum, che ha dimostrato un appoggio schiacciante della popolazione al movimento indipendentista del Fretilin, guidato da Xanana Gusmao (arrestato nel 1992), l’esercito indonesiano ha permesso feroci rappresaglie da parte delle milizie (migliaia i morti, e parecchi i deportati nei campi di concentramento di Timor Ovest).
In Cile, la CIA, desiderosa di fermare il progetto di Salvador Allende di nazionalizzare le miniere di rame, appoggiò il golpe militare del 1973 che insediò al potere il generale Pinochet, il quale ordinò alle forze armate (compresa la tremenda Dina, la polizia segreta dello spietato dittatore) di uccidere o di fare sparire (e per ciò detti desaparecidos) migliaia di cileni — senza contare gli ottantamila prigionieri politici.
Negli anni Novanta, un forte sostegno politico (oltre alla fornitura massiccia di armi) giunse alla Turchia da parte di Stati Uniti, Germania e Inghilterra per il terribile sterminio dei curdi, i quali avevano creato un partito separatista (il PKK, il partito dei lavoratori del Kurdistan), guidato da Abdullah Oçalan (catturato nel 1999).
In Afghanistan, sul finire del 2001, l’unico esito positivo alla caccia a Bin Laden (tuttora latitante!) da parte degli Stati Uniti è stata la deposizione del regime di terrore dei talebani, a suo tempo voluto e finanziato proprio dagli Stati Uniti d’America, i quali armarono e addestrarono la milizia studentesca islamica insediatasi al potere nel 1996 uccidendo Najibullah e occupando Kabul.
E ora, in Iraq, dopo la Guerra del Golfo del 1991 (voluta da Bush padre e rivelatasi del tutto fallimentare), questa caccia al sanguinario dittatore Saddam Hussein (anch’egli a suo tempo ampiamente sostenuto dagli States) appare l’ennesima ridicola farsa americana, in cui l’Europa gioca il ruolo di semplice spettatore, incapace perfino di alzare una voce unitaria di protesta (gli inglesi, addirittura, si sono schierati a fianco degli americani, sperando illusoriamente in una reviviscenza dell’antico impero colonialistico che ormai è definitivamente tramontato a dispetto della futile e risibile sopravvivenza della Corona). I ‘grandi’ strateghi anglo-americani ci hanno assicurato che l’attacco all’Iraq sarebbe durato 72 ore (è da più di un secolo che ci promettono guerre-lampo, e ancora abbocchiamo!) e che avrebbe portato alla cattura del dittatore e alla scoperta dei mezzi di distruzione di massa da parte di Saddam senza colpo ferire sui civili, grazie alle cosiddette ‘bombe intelligenti’ (espressione che rappresenta una palese contraddizione in termini, un controsenso, un patetico giro di parole). Ma tale conflitto ha dimostrato soltanto che gli Stati Uniti d’America posseggono potentissimi mezzi di distruzione di massa e che possono utilizzarli con tracotante veemenza e senza farsi troppi scrupoli, anche senza il consenso dell’Organizzazione delle Nazioni Unite. Così, per fare un esempio, nonostante la convenzione di Ginevra abbia dichiarato illegale l’utilizzo delle cosiddette ‘bombe a grappolo’ (cluster-bombs), le truppe angloamericane le hanno usate impunemente in questa guerra, causando gravi perdite di vite umane tra la popolazione civile irachena. Oltretutto, l’Unicef e la Croce Rossa hanno sottolineato il fatto che tali bombe hanno lo stesso colore delle razioni alimentari lanciate con gli elicotteri e che, come se non bastasse, i bambini le scambiano per giocattoli (per chi non lo sapesse, basta toccarle per farle esplodere). Noi, ovviamente, guardiamo con il massimo favore la caduta del ferocissimo Saddam, ma ciò non basta a giustificare l’attacco angloamericano. Inoltre, esistono seri interrogativi sul futuro dell’Iraq e sull’auspicato ma improbabile avvento della democrazia. Quanto ai mezzi di distruzione di massa, l’ex-ispettore dell’ONU Scott Ritter, dopo sette anni di ispezioni in Iraq, è convinto che «Saddam non può avere quelle armi», dimostrando come i documenti che dovrebbero provare l’acquisto da parte dell’Iraq di una partita di tubi d’alluminio allo scopo di fabbricare ordigni nucleari in realtà sono falsi. E Saddam, dov’è finito? Dileguato come Bin Laden? Queste improvvise scomparse sono perlomeno strane, a meno che non si voglia considerare la CIA come un gruppo di sprovveduti dilettanti o di patetici imbecilli!
Ed è perlomeno curioso notare l’attenzione angloamericana per proteggere i pozzi di petrolio, pari solo alla perfetta noncuranza nei confronti di ospedali, biblioteche e musei. Mentre la bruttezza di ben cinquantasei carri armati erano schierati a protezione del palazzo del Ministero del Petrolio!
Ma è un luogo comune pensare che tutto graviti unicamente intorno all’interesse per il petrolio. Certamente questa componente possiede la sua enorme importanza (assieme all’acqua, destinata ad avere un ruolo sempre più importante negli equilibri mondiali — e il Kurdistan iracheno, guarda caso, è la regione mediorientale più ricca di acqua), ma non è l’unica né forse la più importante delle motivazioni. La “guerra fredda”, che ha occupato quasi per intero la seconda metà del XX secolo (e che taluni hanno definito, esageratamente ma con una certa pregnanza, la III guerra mondiale) è stata vinta dagli americani. E adesso, Bush junior sogna di attuare l’anacronistico (per usare un eufemismo!) disegno iniziato dal padre, il quale a un certo punto si trovò impossibilitato a compierlo fino alle sue estreme conseguenze. Così ‘Dabliu’ Bush cerca di dimostrare al padre, al mondo intero e soprattutto a se stesso che non è solo un ex-alcolizzato cocco di mamma, ma un uomo di polso capace di realizzare ciò che al padre non fu possibile: il nuovo Impero del terzo millennio, l’Impero Americano, a maggior gloria del Signore (il bigottismo religioso gioca anch’esso un suo ruolo ben preciso nella vicenda, unitamente al fanatismo). Insomma, l’american way of life è la sola e più giusta via possibile, e gli United States of America hanno il dovere morale di imporla al resto del mondo. Amen.
Ciò che più infastidisce, è l’ipocrisia di Bush junior, il quale dichiara guerra al terrorismo internazionale, eleggendosi a paladino della giustizia, giungendo a proclamare che «finché le nazioni ospiteranno i terroristi, la libertà sarà in pericolo», fingendo di non sapere che gli U.S.A. sono da sempre luogo di riparo di terroristi, come dimostra il documentatissimo libro pubblicato da Amnesty International intitolato U.S.A. - A Safe Haven for Torturers (ovvero Stati Uniti, un covo sicuro per terroristi). Non solo Ferdinand Marcos (presidente non legittimato delle Filippine per oltre un ventennio, morto in U.S.A. nel 1989), ma anche assassini e carnefici della mole di Orlando Bosch (che il Dipartimento di Giustizia americano ritiene implicato in attentati dinamitardi contro uffici e ambasciate, sequestri di persona, affondamento di navi e abbattimento di aerei — le sue vittime furono perlopiù cubani o americani accusati di simpatizzare per Fidel Castro; l’FBI scrisse di lui: «Per trent’anni Bosch ha propugnato la violenza terrorista in modo risoluto e senza cedimenti. Ha minacciato e portato a termine attacchi terroristici contro numerosi bersagli… Le sue azioni sono state quelle di un terrorista indifferente alle leggi e alla decenza umana, che ha inflitto violenza senza considerazione alcuna per l’identità delle sue vittime») e di Emmanuel Constant (ex leader delle squadre della morte di Haiti), considerati da Human Rights Watch come pericolosi terroristi al soldo della CIA, macchiatisi dei peggiori crimini contro l’umanità, sono tuttora vivi e ben protetti dal governo federale statunitense. Curiosamente, proprio nel momento in cui la Casa Bianca chiedeva al Pakistan la consegna del terrorista Bin Laden (il cui rifiuto causò il bombardamento a tappeto che tutti conosciamo), Washington rifiutava la richiesta d’estradizione di Emmanuel Constant fatta da parte del presidente di Haiti (Jean Bertrand Aristide), il cui tribunale ha condannato questo terrorista all’ergastolo in contumacia. Oltre al fatto che nel 1986 la Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia, dopo due anni di dibattimenti, ha emesso una sentenza contro gli Stati Uniti d’America, colpevoli di terrorismo ai danni del piccolo stato del Nicaragua, ove, nel 1981, l’amministrazione dell’allora presidente statunitense Ronald Reagan fece inviare le terribili squadriglie di morte conosciute come Contras, bombardando il deposito petrolifero di Corinto, minando diversi porti civili, assassinando diversi funzionari civili del governo nicaraguense (giudici, medici, insegnanti, sindacalisti, amministratori).
Ovviamente, dietro i sogni di gloria (o vanagloria) di un uomo c’è sempre un disegno più vasto (o un più vasto complotto, a seconda dei casi). È l’eterna brama di potere, di cui il Guicciardini già si lamentava definendola assai efficacemente come una vera e propria «sete pestifera di dominare» (Storia d’Italia, 1537-40). E fu proprio questa brama che spinse, nel 1997, un gruppo di conservatori statunitensi particolarmente potenti e cocciuti a unirsi intorno a un’associazione che prese l’enfatica denominazione di New American Century (NAC), predisponendo «un piano di pace globale» che prevedeva il controllo militare del Golfo e la necessità di «combattere e vincere con decisione in varî e simultanei teatri di guerra», nonché di «scoraggiare i paesi industrializzati avanzati dal mettere in discussione il nostro potere o solo aspirare a un più ampio ruolo regionale o globale». Dal documento si apprende che si prevedeva di realizzare tutto ciò con l’Inghilterra alleata, intraprendendo una serie di “missioni di pace” guidate «dagli USA piuttosto che dall’ONU» e si spingeva fino a auspicare una più massiccia presenza militare USA nel Sud-est asiatico. Infine, indicava i nemici di «breve periodo»: Iraq, Siria (attenzione: è la prossima della lista!), Libia, Iran, Corea del Nord. Firmatari del documento: Dick Cheney (attuale vice-presidente degli Stati Uniti), Donald Rumsfeld (attuale segretario alla Difesa), Paul Wolfowitz (attuale vice-segretario alla Difesa), Joe Bush (fratello dell’attuale presidente). Vale a dire, il presente vertice strategico-militare del Pentagono.
È innegabile che stiamo attraversando un momento alquanto delicato. E non dobbiamo neppure dimenticare che gli Stati Uniti hanno rifiutato di siglare l’accordo di Kyoto sull’ambiente, nonostante le legittime preoccupazioni espresse pressoché all’unanimità dai membri della comunità scientifica mondiale sugli enormi sconvolgimenti — irreversibili, secondo taluni studiosi — che le nazioni industrializzate (e più recentemente anche quelle in via di sviluppo) stanno causando sulla natura e sul suo ecosistema. Approfittiamo anzi dell’occasione per ricordare che, erroneamente, quando si parla di guerra ci si occupa quasi esclusivamente di vite umane, trascurando le vittime animali e i grandi disastri ecologici che essa inevitabilmente crea.
Al fondo di questo tragico bilancio, c’è da dire che, per nostra fortuna, nelle vene degli americani non scorre sangue dittatoriale né, forse, imperialistico. Per quanto si siano macchiati di abominevoli crimini nei confronti dell’umanità (verso i nativi d’America, innanzi tutto, e subito dopo nei confronti degli afro-americani), e per quanto infantili possano essere nel loro essere interiore, troppo profondamente la nascita della loro grande Confederazione democratica si è nutrita con ideali che affondano le radici nella Rivoluzione francese e nel sogno di una maggiore equità sociale.
Gli americani, piuttosto, hanno una sorta di imbecille ingenuità che li fa credere di essere i migliori del mondo, e quindi si sentono in diritto di imporre il loro sistema “democratico” (in realtà una plutocrazia mascherata, e neppure troppo bene mascherata) sull’intero globo — l’economia dell’U.S.A. E GETTA, per dirla in due parole, che vorrebbe infestare la terra di MacDonalds e di Coca Cola, trasformandoci tutti in sudditi devoti di questa grande pseudo-democrazia e, soprattutto, in consumatori voraci e doverosamente sottomessi.
Il pericolo di una egemonia mondiale da parte dell’economia neoliberista statunitense costituisce una minaccia reale che ha già iniziato a instaurarsi in buona parte del globo. Tuttavia, noi siamo convinti che gli statunitensi, da uomini concreti quali sono, non tollereranno a lungo le soperchierie ipocrite e ciniche di questo ‘cespuglietto’ patetico e ridicolo che usa la guerra per scopi personali — ad esempio per nascondere le notevoli falle apertesi nell’economia americana (sappiamo tutti che uno dei maggiori azionisti della Enron è l’attuale vice-presidente degli Stati Uniti d’America, e che i Bush da sempre sono animati da forti interessi economici piuttosto che politici; non tutti sanno invece che nonno Bush è stato messo sotto inchiesta perché accusato di essere un filo-nazista; secondo le accuse, avrebbe finanziato Hitler ai suoi esordi; sappiamo per certo che Prescott Bush lavorò con la Germania nazista facendo ottimi affari; fu anche direttore della Union Banking Corporation, messa sotto accusa dal governo statunitense per «commercio con il nemico» anche durante la guerra; egli era inoltre in società con un industriale tedesco, tale Friedrich Flick, processato a Norimberga e condannato a sette anni).
Alla fine, resta da chiedersi quale sarà il prezzo che bisognerà pagare per questo vergognoso abominio. L’appiattimento su un unico modello — che non ha nulla di culturale ma che al contrario è impostato su ‘valori’ meramente e brutalmente economici — è un grave fardello da cui ognuno di noi deve faticosamente lottare per liberarsi. Le contraddizioni sono tali e tante che occorre possedere la temerarietà di un guerriero per riuscire a vivere nell’apparato capitalistico occidentale (che si fa via via sempre più planetario e soffocante) senza farsi fagocitare da esso. In India, qualche secolo fa, quei grandi rivoluzionari quali furono i tantrici, solevano rifiutarsi di indossare i panni estremi e negatori della vita dell’anacoreta, e usavano paragonare il loro eroico restare nel mondo all’atteggiamento di colui che gioca con un serpente velenoso e che, di conseguenza, deve fare molta attenzione per non farsi mordere; quanto e più vera è l’analogia con il libero ricercatore dell’epoca moderna, indisposto a limitare se stesso tra i quattro muri di un credo religioso stereotipato e della comoda protezione che esso è ancora in grado di offrire nelle sue istituzioni monastiche. Né, tantomeno, a genuflettersi a un sistema politico solo perché democratico (o presunto tale). La stessa democrazia, è bene ribadirlo, rappresenta il sistema politico meno peggiore finora trovato dagli uomini per governare la res pubblica. Perfino se il sistema democratico non fosse carico di tutte quelle pesanti contraddizioni che oggi gravano su di esso, costituirebbe pur sempre il meno peggiore dei sistemi — faremmo bene a non scordare questa semplice considerazione, riconosciuta da politologi e sociologi.
L’èra della vera fratellanza universale, di una autentica libertà e dell’unità nella diversità ha ancora da venire per questo nostro mondo travagliato. E il comportamento spregiudicato e irresponsabile di alcuni governanti vorrebbe condurci nella direzione diametralmente opposta. È quindi urgente che ognuno di noi apra finalmente gli occhi e cessi di sostenere questo stato di cose. I mezzi di distruzione di cui disponiamo non ci permettono di procrastinare il nostro impegno, il quale non ci pare debba tanto essere quello di una militanza politica, quanto piuttosto attuarsi in una presa di coscienza via via più grande che ci porti in primo luogo a un più oculato utilizzo dei nostri soldi. Informarci sulle persone a cui affidiamo i nostri risparmi e alle quali ci rivolgiamo per acquistare i prodotti che ci sono necessari o utili è infatti il primo passo per non farci dominare da quegli ‘interessi forti’ che strangolano e sfruttano i più deboli.
Aprile, 2003