a cura della redazione del sito arianuova.org
Rabindranath Tagore, premio Nobel 1913, fu una delle poche persone cui fu permesso di visitare Sri Aurobindo dopo il suo completo ritiro del 1926. In seguito a questo incontro, avvenuto il 29 maggio 1928, Tagore rinnovò il suo atto di fede in lui, come aveva fatto venti anni prima nella sua poesia in bengali “Aurobindo Rabindrer laho namaskar” (“Aurobindo, Rabindranath s’inchina a te”, che riportiamo qui in basso) scrivendo un articolo che apparve sul Modern Review di Calcutta del luglio 1928. Nessun altro fu presente al colloquio — perciò, a parte l’accenno dato da Tagore in questo articolo che riproduciamo parzialmente, nulla si sa di cosa si dissero.
«Da molto tempo avevo un grande desiderio di incontrare Sri Aurobindo, e ora finalmente è stato esaudito. […] Al primissimo sguardo mi resi conto che egli aveva cercato l’Atman e l’aveva trovato; attraverso questo lungo processo di realizzazione, aveva accumulato dentro di sé un silenzioso potere d’ispirazione. Il suo volto risplendeva di una luce interiore e la sua serena presenza mi fece chiaramente percepire che la sua anima non era affatto storpiata e limitata da una dottrina tirannica che trova piacere nell’infliggere ferite all’esistenza. Certamente egli non fu mai alla scuola dei monaci cristiani dell’ascetismo europeo, che si compiacciono nell’orgoglio di torturare loro stessi, orgoglio strettamente legato all’autoesaltazione: due facce della stessa medaglia che guardano in direzioni opposte.
Sentii che la parola degli antichi Rshi parlava attraverso di lui di quell’equanimità che conferisce all’anima umana la libertà di fondersi nel Tutto. Gli dissi: “Tu hai la parola e noi stiamo aspettando di riceverla. L’India parlerà al mondo intero attraverso la tua voce”.
Anni fa vidi Sri Aurobindo nell’atmosfera della sua prima giovinezza eroica e cantai: “Aurobindo; permetti che Rabindranath s’inchini davanti a te”. Oggi l’ho visto in una più profonda atmosfera ricca di saggezza e ancora una volta canto in silenzio: “Aurobindo, permetti che Rabindranath s’inchini davanti a te”».
Rabindranath Tagore, 29 maggio 1928
Aurobindo, Rabindrer laho namaskar
Aurobindo, permetti che Rabindranath s’inchini davanti a te.
O amico, amico della patria,
libera voce incarnata dell’anima dell’India!
Scivolano via da te onori, ricchezze e piaceri;
tu non accetti elemosine o fragili favori umani
— non vai con la ciotola del mendicante in mano.
Vegli e aspetti di nascere alla perfetta perfezione infinita
che il dio nell’uomo eternamente cerca notte e giorno
di realizzare, lottando e sforzandosi in una strenua ricerca,
che i poeti cantarono con voce solenne in canti sovrani;
per essa verso il pericolo fecero vela gli eroi,
dinanzi a essa si prosterna confuso l’ozio
e la Morte dimentica la sua forma di terrore;
questo privilegio che accorda il Dio dei mondi
e che t’appartiene di nascita,
tu, che insondabilmente speri,
tu, dall’insondabile fiducia,
lo hai chiamato sulla terra,
lo hai invocato nel supremo Verbo-di-fiamma della Verità.
Oggi, ha forse il Supremo inteso la tua preghiera?
Per questo riecheggia la sua buccina di vittoria?
Per questo, nel Suo terribile amore,
oggi ha armato la tua mano destra
con la tremenda fiamma della sofferenza dal continuo bagliore
che come stella polare penetra le tenebre del paese?
Vittoria! Vittoria a te!
Chi avrà paura oggi? Chi spargerà lacrime?
Quale vile per essere risparmiato ignorerà la verità?
Indegno d’essere un uomo sarà colui
che dalle tue pene non attingerà forza!
Calmatevi, occhi impotenti, placate i vostri pianti!
Quale imperatore, ditemi, può giudicare
questo messaggero di terrore sceso sulla terra
con la lampada degli dèi?
In adorazione stanno ai suoi piedi le catene della schiavitù
e dinanzi a lui si inchinano — festosa lo accoglie la prigione!
Tentando di abbracciare il sole di Dio,
in un istante come ombra si dissolve
il demone feroce dell’eclissi.
Castigo ricada su colui che del castigo la paura
gli impedisce di superare il recinto della Menzogna,
da se stesso innalzato, la palizzata della falsità.
Impotente è colui che, pur libero e temerario,
sul volto assorto della Legge ha negato
di condannare l’ingiusto e per timore e impudente avidità
di fronte al mondo la propria umanità rinnega
e i suoi eterni diritti divini,
e superbo nella propria degradazione,
profitta delle ferite della patria insultata
e si nutre di cibo maledetto, quasi del sangue della Madre:
quel vile che piega la schiena sotto il peso del castigo
è per sempre rinchiuso in una prigione
che a nessuna prigione umana è pari.
Di fronte alla schiavitù, al dolore, alla miseria e all’orrore,
io contemplo la calma del tuo volto,
mentre alle mie orecchie vibrano
il canto d’estasi inarrestabile dell’anima,
la melodia dei cercatori, l’esaltazione
della speranza dell’eterna vita,
l’impavida voce solenne della morte magnanima.
Contemplando, o poeta, il tuo volto,
Sarasvati, lo Spirito dell’India,
ha rivelato in tutte le cose il vibrato delle vastità,
che non contiene tristezza o vergogna, povertà o paura!
In questo modo, dall’ignoto, giungono oggi a me
il grido dell’oceano che accompagna la tempesta,
la danza delle cascate ebbre di cieca rapidità
che spezzano le rocce e le prigioni;
con i suoi colpi profondi il tuono risveglia i nembi di terrore.
Fra le onde vittoriose di quest’inno,
Aurobindo, permetti che Rabindranath s’inchini davanti a te.
Quindi, m’inchino dinanzi a Colui
che nell’impeto del gioco foggia
al fuoco della dissoluzione nuovi mondi,
e dalla morte genera la vita,
partorisce nel cuore del pericolo
la perfezione e invia il devoto, con il sorriso sulle labbra,
verso il nero delle tenebre,
nella giungla di rovi, a mani nude contro il nemico,
Lui che, d’èra in èra, con nomi diversi,
si esprime in ogni azione poderosa,
in ogni sforzo supremo
e in ogni finale compimento.
“La miseria non esiste, la Menzogna scompare,
la distruzione si dissolve, fasulla è ogni paura.
Dov’è il sovrano della Menzogna,
dove il suo imperiale castigo?
Dov’è la Morte e l’oltraggio dell’ingiustizia?
O vile, o ignorante, alza il capo.
Io sono, tu sei — la Verità è eterna”.
Rabindranath Tagore, settembre 1907
(pubblicata sul Bandé Màtaram l’8 settembre 1907).