(a cura della redazione del sito arianuova.org)
Aravind è il più grande ospedale oftalmico del mondo; sorge in India e possiede diverse sedi distaccate. Dal 1976, il suo fondatore, il dottor Venkataswamy, ha ridato la vista a oltre un milione e mezzo di persone. E una decina di milioni di pazienti ha ricevuto benefici dai servizi ospedalieri grazie a lui offerti.
In India ci sono 17 milioni di non vedenti per cataratta, glaucoma e malattie degli occhi; tutti problemi che, in Occidente, possono essere curati con una semplice operazione (bisogna oltretutto precisare che l’80% della cecità mondiale può essere curata). Da qualche anno, grazie alle cliniche Aravind, questo è possibile anche in India. Per chiunque — vale a dire, anche per chi non ha i soldi per pagarsi l’operazione.
Infatti, ad Aravind le cure mediche e infermieristiche vengono offerte indistintamente, e con uguale trattamento, a tutti i pazienti, siano essi paganti o meno. L’intero sistema è basato su un’ottica di non profit, che peraltro non dipende da donazioni governative. Ben due terzi dei pazienti sono curati gratuitamente — e tuttavia i bilanci di tutti gli ospedali Aravind sono in attivo. I costi unitari sono abbattuti dalle quantità elevate di operazioni (quattro chirurghi assistiti da dodici infermiere sono arrivati a operare ben 100 cataratte al giorno!) e da uno staff che lavora dieci ore al giorno per sei giorni alla settimana. Le domeniche, invece, sono riservate ai campi mobili — fino a 1.500 l’anno —, che rappresentano una tra le più geniali iniziative pioneristiche del dottor Venkataswamy (o, come viene affettuosamente chiamato dai suoi stessi pazienti, il dottor V.), per raggiungere e curare quanti non possono permettersi nemmeno il costo di viaggio per recarsi presso la clinica Aravind più vicina.
Le scuole di business di Harvard e del Michigan studiano da anni, con interesse e ammirazione, il sistema del dottor V., creato dal nulla, con risorse limitate e in pochissimo tempo, che oggi viene visto dal mondo come il miracolo sanitario dell’India.
Il dottor V. ha ricevuto numerose onorificenze, dal Governo Indiano, dall’ONU, dall’Organizzazione Mondiale per la Prevenzione della Cecità, e da altre istituzioni simili in Asia e in America, oltre al Dottorato Onorario dell’università dell’Illinois e, in occasione del recente convegno del Centro Pio Manzù, la medaglia del Presidente della Repubblica Italiana, conferita a «questo apostolo della medicina e della luce».
Ma chi è, anzitutto, il dottor V.?
Nato il 1° ottobre del 1918 a Vadampuram (un villaggio nel sud dell’India a ottanta chilometri da Madurai) da una famiglia di contadini, Govindappa Venkataswamy è riuscito a diplomarsi in chimica e a laurearsi in ostetricia. Nel 1945 si arruola nel Corpo Medico dell’esercito indiano. Sennonché, nel 1948 un grave attacco di artrite reumatoide lo immobilizza per più di un anno in ospedale, dopodiché inizia una lenta e faticosa riabilitazione. Come egli stesso ammette, «il dolore fisico acuto è stato da allora il mio compagno e non mi ha mai lasciato».
Poiché l’artrite gli preclude la strada dell’ostetricia, nel 1951 ottiene il dottorato in oftalmologia e lentamente si allena a tenere nelle mani gonfie e deformate strumenti chirurgici di foggia speciale, che ha progettato e fatto costruire da sé, che gli consentissero di operare nonostante il proprio stato fisico. Inoltre, e soprattutto, nel 1950, il 24 aprile, assiste a un Darshan di Mère e Sri Aurobindo, il cui contatto sarà per lui determinante, risolvendosi di mettere in pratica — nella propria vita e attraverso il proprio lavoro — quello sviluppo spirituale che è alla base del Lavoro di Sri Aurobindo e Mère, come il dottore stesso spiega in alcune conversazioni e in un libro (Illuminated Spirit, a cura della Harvard University e pubblicato da Paulist Press, New York) contenente due sue conferenze tenute presso la Harvard University qualche anno fa, che gli valsero lo ‘Harold Wit Lectureship’ (nel 1991). Citiamone qualche breve estratto:
«Sri Aurobindo non ha mai cessato di ripetere che la mente umana non rappresenta lo stadio finale dell’evoluzione. L’evoluzione non si arresta con l’uomo.
Tutti quanti noi possiamo aspirare affinché la grazia divina operi in noi, in modo da aprire la nostra coscienza a qualcosa di più alto.
La nostra coscienza mentale non è il culmine dell’evoluzione. Esiste un altro stadio, lo stadio della coscienza ‘sopra’mentale, per il quale Sri Aurobindo e Mère hanno lavorato in modo da farlo discendere sulla terra.
La meta della vita, secondo Sri Aurobindo, non consiste nel fuggire dal mondo per raggiungere un qualche elevato paradiso, ma di trasformare la vita sulla terra in una vita divina.
Sri Aurobindo stesso ha promesso che la sua coscienza sarebbe rimasta sulla terra affinché lo scopo per cui è venuto sulla terra — l’evoluzione sopramentale e la stabile fondazione della coscienza sopramentale — fosse raggiunto. C’è dunque un nuovo potere in azione sulla terra, che nessuna ideologia può rinchiudere, e con il quale si può entrare in comunicazione proprio come ci si può sintonizzare con i satelliti.
Sri Aurobindo e Mère hanno calato sulla terra la sopramente, e gli aspiranti ora possono mettersi all’opera.
Certo, è arduo cercare anche solo di concepire intellettualmente il sopramentale. Soltanto il descriverlo richiederebbe una lingua diversa dal nostro povero e astratto linguaggio. Ciò che possiamo dire è che la transizione dalla mente alla sopramente segna il passaggio dalla natura alla soprannatura. Per questa precisa ragione non è qualcosa che può essere compiuto attraverso il solo sforzo della nostra mente. La coscienza surmentale e la coscienza sopramentale, sono entrambe involute e nascoste nella natura terrestre; ma il loro manifestarsi in noi richiede la discesa dei poteri sopramentali, che innalzano e trasformano il nostro intero essere».
La consapevolezza dell’unità sostanziale degli esseri umani e dell’intero cosmo porta il dottor V. a esercitare la medicina al tempo stesso come un servizio e una sâdhana (una disciplina interiore); riprendendo le sue stesse parole, «aiutando gli altri, aiutiamo noi stessi… noi non agiamo con l’idea di fare del bene a qualche povero diseredato, ma con la consapevolezza che essi sono parte di noi. Una parte di me soffre con loro della loro sofferenza».
Quando nel 1976 viene pensionato per limiti d’età dall’ospedale statale di Madurai, in cui dirigeva il reparto di oftalmologia, collabora già da alcuni anni con l’Organizzazione Mondiale della Sanità per il controllo della cecità nei paesi in via di sviluppo e, dotato ormai di un notevole bagaglio professionale e spirituale, si dedica a trovare il modo per ridare la vista al maggior numero di persone, indipendentemente dal loro status economico e sociale, ma rivolgendosi con particolare attenzione a quanti non hanno le possibilità economiche di pagarsi le cure. Sebbene il dottor V. non accetti che ci si riferisca ai pazienti che non possono pagare le cure come a dei poveri: «Povero è un termine volgare. Chiamereste Cristo un uomo povero? Pensare a certe persone come ‘poveri’ ci mette in posizione di superiorità e ci rende ciechi di fronte ai modi della nostra stessa povertà, che sono molteplici».
Estremamente aperto e pronto ad accettare e adottare qualunque innovazione tecnica possa essere di aiuto, il dottor V. è cosciente del fatto che la tecnologia spesso è difficilmente applicabile nei paesi in via di sviluppo, a causa dei costi elevati che essa richiede. Perciò, inventa e sperimenta strade del tutto nuove e quasi rivoluzionarie: fonda anzitutto il “Govel Trust”, un fondo destinato a gestire le sue iniziative e forma un team di parenti, che convince, l’uno dopo l’altro, a lavorare con lui, rinunciando ad altre professioni e dando così vita a una sorta di impresa familiare (seguendo in tal modo una pratica molto diffusa in India). Con i risparmi personali di una vita apre una clinica oculistica a Madurai che chiama per l’appunto “Aravind” (utilizzando cioè il corrispondente sanscrito del nome di Sri Aurobindo). Parallelamente, viene fondato l’Aravind Eye Care System (AECS), la più efficiente e completa rete mondiale di cure oftalmiche, con attività diversificate e complementari. L’AECS organizza e provvede autonomamente a tutto, dalla ricerca alla formazione del personale. La qualità è sempre la migliore e il personale altamente specializzato, tanto che oggi numerosi chirurghi dalle più note università del mondo, quali Harvard e la John Hopkins, così come da Boston, Chicago e New York, vi ruotano periodicamente per stages formativi e di specializzazione (e il dottor V., per rispondere al meglio a tali richieste, ha fondato il Lion’s Aravind Institut for Community Ophtalmology, offrendo corsi di approfondimento, clinici e manageriali, agli studiosi provenienti da ogni parte del mondo). Inoltre l’AECS, riconosciuto come un sistema modello per i paesi in via di sviluppo, fornisce la propria competenza ad altri stati, come il Nepal, lo Sri Lanka e l’Indonesia, sia mandando il suo staff di esperti a formare i medici locali, sia accogliendo questi ultimi ad Aravind per la specializzazione. Inoltre, una sezione del Centro, denominata Aurolab, costruisce apparecchiature mediche quali lenti intraoculari di alta qualità, fili di sutura e quant’altro necessario per permettere l’operazione alla cataratta, riducendo così i costi al minimo.
Il dottor V. — dotato di un eccezionale dinamismo (al pari di un inesauribile buonumore), che lui stesso attribuisce alla pratica dello ‘yoga integrale’ di Sri Aurobindo e Mère — ha creato anche un ospedale infantile a Madurai e un centro nutrizionale per prevenire la cecità causata da carenza di vitamina A. Il complesso ospedaliero di Madurai è il primo realizzato, nel 1979. Ad esso sono seguiti i complessi ospedalieri di Theni (nel 1984), di Tinunelveli (1988), di Coimbatore (1997) e di Pondicherry (2003). La prima Aravind Eye Clinic aveva undici lettini; oggi i posti-letto sono più di tremila!
È bene precisare che, da tutta questa grandiosa istituzione, strutturata al meglio ed efficientissima, il dottor V. non intasca nulla. Egli vive della sua pensione e lavora instancabilmente senza alcuna remunerazione economica, mentre il resto dello staff viene pagato secondo le tariffe sindacali di mercato, sebbene sia sempre disposto di buon grado a eseguire parecchie ore di straordinario a puro titolo di volontariato.
Il dottor V. è fermamente convinto che, per la vera medicina, l’efficienza e l’alta qualità delle cure devono fondarsi su una solida base spirituale: «quel che serve oggi è la tecnologia moderna integrata con la coscienza spirituale». Così, non soltanto trova il tempo e la pazienza per interessarsi e parlare con i suoi pazienti, nei quali vede e onora la divinità racchiusa nell’intimo, ma raccomanda e controlla che lo staff mantenga sempre lo stesso atteggiamento di comprensione e sollecitudine.
Egli, ormai ultraottantenne, sempre energico e assorto nella sua professione, così come nella comunione silenziosa col Divino, descrive la soddisfazione e la pace profonda che il lavoro gli procura, nonché il senso di gioia e di leggerezza di chi è riuscito a liberarsi dei propri limiti: «Come direbbe Sri Aurobindo, spiritualmente si è felici di non essere più rinchiusi all’interno di un ego piccolo e meschino, limitati a preoccuparsi unicamente della propria vita e della propria famiglia». Egli parla dell’importanza di una concentrazione continua, dell’estrema attenzione che ad Aravind si presta anche ai più piccoli dettagli, e del tentativo costante di realizzare la perfezione del Divino in ogni aspetto del lavoro e della vita.
Di fronte all’incredibile e sempre crescente sviluppo delle sue iniziative, che ormai si ramificano nel mondo intero, rivela semplicemente che «ci sono forze superiori all’opera e le soluzioni globali al problema dei non vedenti cominciano a prendere forma spontaneamente. Mentre le cose evolvono, lo fa anche la coscienza e così le soluzioni arrivano».
Il dottore sta realizzando un programma (detto Vision 2020) che permetta, entro il 2020, di eliminare il problema della cataratta nel mondo intero.
Auguri, dottor V., e grazie di cuore!
Ottobre 2003