Le antiche pratiche di mutazione alchemica erano incentrate sulla possibilità di dare vita in noi stessi a un’opera di autentica trasformazione.
L’alchimia non è una sorta di chimica rudimentale (sebbene la chimica abbia preso le prime mosse proprio da essa), ma una operazione che parte dall’interiorità dell’uomo per riflettersi infine anche all’esterno. Praticata fin dall’antichità in varie parti del mondo (India, Cina, Medioriente, Europa), tale operazione è possibile — per usare le parole dell’indiano Nagarjuna — per via spirituale. Ci sono certamente stati, soprattutto in epoche posteriori, uomini che hanno frainteso il suo messaggio in senso essoterico, ed è per questo che i cinesi, tardivamente, distinsero due alchimie, l’interna (nei-tan) e l’esterna (wai-tan).
Da un punto di vista esoterico, la trasmutazione del piombo in oro è un potente simbolo per rappresentare la mutazione del metallo vile che noi esseri umani siamo nel puro oro di una coscienza priva di morte, sopra-umana e divina. Nel più antico testo indoeuropeo, il Rg-Veda, l’oro rappresenta l’immortalità, amrta — o meglio, lo stato senza morte. L’oro, inoltre, è il colore del sole, che nei testi rigvedici è il simbolo della divina coscienza-di-Verità. In Cina, si dice esplicitamente che il saggio taoista Liun-Hsiang fallì nell’impresa di ottenere l’oro per mancanza di preparazione spirituale. Mentre Li Shao-Chiun affermava che una tale operazione è possibile solo per intervento della Grazia.
I riferimenti alle pratiche rigvediche, peraltro, sono utilissimi per comprendere la reale natura del processo alchemico. Secondo la terminologia alchemica, un elemento importante nel processo di fissazione del mercurio (simbolo del principio maschile, vedico nr) e dello zolfo (simbolo del principio femminile, vedico gna) è dato dal ricettacolo in cui ha luogo la trasmutazione. Tale ricettacolo (detto anche forno o vaso) deve essere accuratamente preparato: innanzitutto occorre intraprendere un lavoro di purificazione (ripulire questo spazio da elementi estranei che ostacolerebbero la combustione), quindi è necessario accendere un fuoco che fonda i due metalli per dare vita a un nuovo principio coscienziale.
La pratica dell’alchimia permette di scoprire in se stessi la cosiddetta ‘caverna del cuore’, considerata l’uovo filosofico o “embrione d’oro”. Il fuoco è Agni, la coscienza divina celata nella materia, che occorre accendere in se stessi e mantenere sempre attivo. Mentre la fusione degli ingredienti in questo crogiolo rappresenta, in Oriente come in Occidente, il ritono alla matrice e insieme la nuova nascita. Solo dopo questa nascita si può iniziare la Grande Opera.
Le tappe essenziali della Suprema Grande Opera (detta anche Opera mistica e Opera della Fenice) sono due: l’Opera al Bianco (albedo) e l’Opera al Rosso (rubedo), condensate nella celebre formula solve et coagula. Nell’ermetismo occidentale corrispondono agli arcani minori e maggiori, nell’alchimia cinese allo sbocciare del Fiore d’oro e all’uscita dell’embrione dalla cima della testa (similmente all’apertura superiore dell’atanor, l’uovo orfico dell’alchimia europea — oppure ancora all’emergere dell’energia Kundali nel brahma-randhra delle pratiche del tantra indiano), all’accesso alla condizione di “vero uomo” (chen-jen) e di “uomo trascendente” (shen-jen).
L’esoterismo islamico parla di “uomo primordiale” e di “uomo universale”, e definisce quest’ultimo con l’espressione alchemica Zolfo Rosso. Una delle pratiche più perseguite dagli alchimisti dell’Europa medioevale era chiamata Arte Regia, e consisteva nella reintegrazione dell’uomo nella sua compiutezza originaria. Trovare la pietra filosofale significava scoprire l’Assoluto, possedere la perfetta gnosi che rende possibile la trasformazione della materia, annullando così lo iato fra materia e spirito, secondo il principio del coincidentia oppositorum.
Tutto ha inizio da una presa di coscienza dei propri limiti (le due opere, infatti, sono precedute da un lavoro di preparazione: è L’Opera al Nero). Come disse l’indiano R.P. Kaushik nei primi anni Settanta in una serie di conversazioni intitolate Alchimia Organica, «quando l’intelletto si accorge di non avere mezzi a propria disposizione per trasformare se stesso, ha inizio la trasformazione. Vedere l’impossibilità della trasformazione, è l’inizio del vedere. […] È il fuoco che trasformerà l’osservatore. Richiede molto coraggio e energia vedere la propria stupidità senza esserne sgomentati o angustiati. […] Chi è la persona idonea per entrare in questo crogiolo o ricettacolo di trasformazione? Quali requisiti deve possedere? La sola qualifica che una mente deve possedere perché si operi una trasformazione, è l’aver visto che nell’intera sua vita non c’è nulla di degno e meritevole. Se pensate che nella vostra vita ci sia ancora qualcosa di meritevole o di valido, non iniziate questo viaggio avventuroso e rischioso. […] Sarete pronti per l’alchimia organica solo quando avrete visto che la vita che conducete dal mattino alla sera, nella strada o al volante di una Rolls-Royce, o al sessantesimo piano di un grattacielo, è vuota, banale e insignificante. Potete essere il Presidente, il Primo Ministro o un miliardario, ma anche in questo caso la qualità della vostra vita è scadente. […] Quando cominciate a osservare, il piacere dell’automobile, della compagnia maschile o femminile, il piacere del conseguimento, scompaiono, sono infranti. Quando vi siete lasciati alle spalle tutto ciò che avete osservato non c’è più evasione o fuga possibile. […] Voi stessi siete il mercurio e lo zolfo, siete maschio e femmina, siete il guru e il discepolo, siete il calore, il fuoco, il crogiolo. […] È nella natura della mente umana di separare e di vedere tramite queste divisioni. Se vedete che voi siete tutto e ogni cosa, non ci sono più parole».
Ma, facendo un passo indietro e creando ancora per un momento separazioni e divisioni che possano servire all’intelletto che adora classificare e distinguere, le operazioni necessarie alle trasmutazioni che presiedono al lavoro del cosiddetto “artefice” (ovvero l’alchimista all’opera) in realtà sono quattro — in senso progressivo: l’Opera al Nero (nigredo), l’Opera al Bianco (albedo), l’Opera al Giallo (citrinitas) e l’Opera al Rosso (rubedo) con il finale ottenimento della pietra filosofale, dell’Oro della coscienza divina unita al rosso della coscienza materiale.
L’Opera al Nero (in alcuni testi detta anche ‘calcinazione’, ‘melanosi’, ‘putrefactio’ e in molti altri modi) consiste nel prendere coscienza dello stato asservito dell’individuo e di operare una purificazione preliminare. Un autore seicentesco parla di “lutto” che bisogna celebrare per attingere successivamente alle gioie dell’alchimia, vera e propria rinascita nella coscienza divina. E infatti Filalete così commenta questa prima fase: «O triste spettacolo, immagine di morte; e tuttavia, quale gradito messaggio per l’artefice!». Questa fase è sotto il segno di Saturno, e alcune antiche illustrazioni la rappresentano ritraendo una donna etiope (nera, appunto) seduta, con il capo reclinato sostenuto dalla mano, in posizione malinconica, attorniata da strumenti alchemici (alambicchi, mantice, crogiuolo); talvolta la donna viene raffigurata con le ali, chiuse dietro la schiena, che le permetteranno infine di volare. Altri simboli pittorici ricorrenti: un putto e un cane (simboli di Mercurio che trasforma se stesso da alato a terrestre e viceversa); la ruota di macina, simbolo di triturazione della materia; una borsa vuota, che a opera conclusa si riempirà del simbolico oro; un serto vegetale sul capo, allusivo alla viriditas, che coronerà il processo. Interessante infine confrontare l’espressione sol niger (‘sole negro’) [vedi, qui in basso, la riproduzione della miniatura tratta dallo “Splendor Solis” di Trismosin, del 1582], con la concezione rgvedica di Màrtanda, il “Sole Nero” — il principio illuminativo che dimora nell’oscurità e che attende di essere svelato dai rishi.
L’Opera al Bianco (o ‘volatilizzazione’) consiste nella purificazione del soggetto, mediante la dissoluzione del principio egoico e la conseguente estinzione dei desiderî, oltre alla distruzione degli opposti (acqua e fuoco) e delle differenze (maschile e femminile). È sotto il segno di Giove, mentre nel simbolismo degli artisti alchimisti è talvolta rappresentato mediante la cauda pavonis (‘coda di pavone’) o l’arcobaleno, simboli della presenza di molti colori, e della loro conseguente unione. Così come nelle raffigurazioni alchemiche possono trovarsi il poliedro, la scala a (sette, otto o nove) pioli, il forno magico (l’athanor), la clessidra, la bilancia, il compasso, le chiavi (quattro, in genere, a rappresentare le quattro fasi che, come porte, bisogna penetrare per accedere alla conoscenza), e vari strumenti di triturazione della materia prima (la macina, come abbiamo visto, ma anche il martello, la pialla, la sega…). Anche il “quadrato magico” (o “quadrato di Giove”) ben rappresenta questa fase: sommando i numeri in ogni direzione (orizzontale, verticale, diagonale) si ottiene sempre il 34, cifra magica della compresenza (vedi i nostri appunti di numerologia).
L’Opera al Giallo consiste nell’ottenere la consapevolezza della coscienza pura al di là della formula spazio-temporale, vale a dire svaporando nella trascendenza, elevando la propria coscienza fino all’origine.
L’Opera al Rosso (o ‘distillazione’) si attua mediante la ritrovata coesistenza dei contrarî, l’universalizzazione dell’essere e l’accentramento intorno alla pura psyché di tutti gli elementi che compongono l’essere strumentale (mente, vita, corpo). Il simbolo più ricorrente è quello del cerchio, che testimonia il passaggio dalla forma quadrata o separata e angolare, alla circolarità unitaria — la “quadratura del cerchio”, la coniunctio (o copula) dei contrarî, simboleggiati dal maschile e dal femminile (che, nell’ultima fase, vengono integrati nel rebis, l’androgino) o da altre coppie di opposti, come la notte e il giorno (spesso antropomorfizzati in un uomo e una donna con, al posto della testa, rispettivamente, il sole e la luna). Sovente vengono rappresentati alcuni bambini che giocano con un cerchio — metafora alchemica del ludus puerorum, a significare come in realtà l’arduo e complesso opus sia “un gioco da bambini” per chi possiede la chiave della Conoscenza (a un alchimista dichiarato come Albrecht Dürer è attribuito il dipinto del cosiddetto Paedogeron, il fanciullo-vecchio). E, come amplificazione del cerchio, la sfera (talvolta l’uovo) viene usata sia per rappresentare il punto originario di partenza, il caos, sia il culmine finale, l’armonia conclusiva fra gli apparenti opposti.
A conclusione di tutto ciò, nasce una nuova combinazione spirito-natura sotto il dominio dell’essere vero, chiamato Oro o Dio. Il culmine di questa ultima fase si attua — come si diceva — per Grazia divina, e concilia il mondo interiore con quello esteriore, il mondo soggettivo con quello oggettivo, lo Spirito e la Materia, la Natura Naturans e la Natura Naturata, l’Essere e il Divenire. È questa la “pietra filosofale” tanto cercata dall’alchimista — e infine ritrovata nel proprio corpo e insieme nel corpo della terra, come un poeta-alchimista del XVII secolo (sotto lo pseudonimo di Francesco Maria Santinelli) ci descrive in un bel sonetto:
In ogni cosa il ciel sempre esistente,
Spirto nel seme, ed anima nel Frutto,
È sommo ed imo universal aggente;
Nel basso mondo e tenitor del tutto.
Fuori d’ogni composto, entro d’ogn’Ente,
Visibil produttor non maj distrutto.
Pieno è di sua virtù l’esser vivente
Vive dell’Esser suo quanto è prodotto.
Nell’animal è vita sensitiva,
Nel mineral sostanza luminosa,
Nel vegetal virtù vegetativa;
E nel centro alla terra in ogni cosa,
Umido radical che i misti aviva,
Pietra filosofal ne i corpi ascosa.
Alcuni alchimisti sostenevano inoltre che l’opera doveva in ultimo risolversi con la conquista di uno stato fisico senza morte, ma questo comporterebbe innanzi tutto la creazione di un corpo trasformato, un corpo di luce, un “corpo di gloria” finora soltanto immaginato o visto in visione sottile.
L’alchimia offre così una risposta pratica ai tre quesiti del celebre frammento di Teodoto (trasmessoci da Clemente) che, rivolgendosi all’uomo, si chiedeva da dove viene, che cos’è, dove è diretto.
Giunta dal lontano Oriente (grazie agli arabi), l’alchimia giunse in Occidente e produsse una sorta di rivoluzione. All’epoca (siamo al principio del medioevo), la religione imperante in Europa — il cristianesimo — tendeva a cercare di salvare l’anima, ma non la natura a cui l’uomo appartiene. Gli alchimisti mistici, invece, oltre alla salvezza dell’anima, concepivano una purificazione tesa a coinvolgere l’intera realtà materiale del mondo e degli esseri umani.
Per questa loro importazione tendente a correlare l’alchimia di origine orientale (e quindi ‘pagana’ secondo la concezione dell’epoca) agli insegnamenti del cristianesimo, gli alchimisti medioevali furono perseguitati dalla Chiesa di Roma. Solo nel periodo del tardo medioevo in Europa, in alcuni casi rimasti famosi, gli studi alchemici furono approfonditi da personaggi potenti sia tra la nobiltà che nella sfera ecclesiastica, come Alberto Magno (1193-1280), Ruggero Bacone (1214-1294), Tommaso D’Aquino (1226-1274). Cecco d’Ascoli, autore del libro alchemico L’Acerba, non essendo un potente, fu invece messo al rogo a Firenze il 17 Luglio del 1327. Raimondo Lullo (1232-1315) discendente di un antico casato aristocratico e pertanto vicino alle leve del potere, fu uno tra i più famosi alchimisti europei; tentò una difesa dell'alchimia in relazione al concetto del libero arbitrio dell’uomo, così da farla accettare nell’ambito della teologia della chiesa cristiana.
Ma fu con il Rinascimento che l’alchimia si diffuse e, al tempo stesso, si deformò. Firenze fu uno dei centri di sviluppo dell’alchimia rinascimentale, proprio in quanto Cosimo I° dei Medici (1517-1574) fece tradurre e diffuse prima in latino e poi in volgare il Corpus Alchemico di Ermete Trimegisto. Cosimo dei Medici volle così importare a Firenze una nuova cultura in modo da rendere libera la Toscana dalle influenze del potere temporale dei Papi e, quindi, fu mecenate del rifiorire di una nuova cultura rinascimentale che ebbe origine da un processo di integrazione della antichissima cultura alchemica con la emergente capacità produttiva artigianale fiorentina nella fusione dei metalli, nella preparazione e la fissazione dei coloranti per le stoffe e gli arazzi e nella preparazione dei medicamenti in farmacia da parte della potente corporazione fiorentina degli ‘speziali’. L’alchimia fu vista dal casato dei Medici come una cultura globale e quindi più adatta a salvare il mondo perfezionandone la sua natura, ivi compresa quella umana, con una finalità non limitata alla salvezza dell’anima; in tal senso la riscoperta della alchimia ermetica fu considerata a Firenze una utile componente di un processo di rinnovamento culturale capace di superare il medioevo. Ma, con il passare del tempo, ci si concentrò sempre più sulle scoperte chimiche e sempre meno su quelle mistiche cui l’alchimia tendeva. E tuttavia, di tanto in tanto, nel corso dei secoli, emerse in Europa la figura di qualche ricercatore desideroso di recuperare l’essenza originaria dell’alchimia. Fra i più vicini a noi nel tempo, ricordiamo Fulcanelli (pseudonimo di un personaggio vissuto nel XX secolo, la cui vera identità è sempre stata mantenuta segreta). Le opere di Fulcanelli furono considerate straordinarie perché: «quale alchimista operativo nel senso più antico del termine ricostruiva, partendo dal simbolismo ermetico, i punti principali della Grande Opera illustrandone i principi teorici e la prassi sperimentale con un dettaglio e una precisione mai visti prima» (Paolo Lucarelli).
Con l’alchimia ci troviamo insomma di fronte al grande sogno della trasformazione della Terra a immagine dei Cieli, e all’emergere di un nuovo essere, più evoluto dell’uomo e finalmente compiuto e divino, nella realtà materiale.
Ancora una volta il Lavoro di Mère e Sri Aurobindo ci contagia e ci seduce (vedi TRASFORMAZIONE).
SOL NIGER: il “Sole Nero” (il rigvedico màrtanda):