(a cura della redazione di arianuova.org)
Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre,
non la tua conversion, ma quella dote
che da te prese il primo ricco patre!
Dante, Inferno, XIX.115-117.
Una delle più interessanti novità del panorama cinematografico di questo inizio di nuovo millennio, è costituito dalla realizzazione di pellicole di notevole levatura incentrate sul bisogno di mettere in luce le profonde contraddizioni e i soprusi della chiesa cattolica. Già il secolo scorso ha lasciato qualche segno significativo di tale tendenza — basti citare La passione di Giovanna d’Arco del grande cineasta Carl Theodor Dreyer (con un’attrice del calibro di Irene Falconetti), che è uno dei capolavori del cinema muto, oppure Giordano Bruno di Giuliano Montaldo (interpretato magistralmente da Gian Maria Volonté, forse il migliore attore cinematografico italiano) o, ancora, Il prete di Antonia Bird —, che ora pare accentuarsi con il rafforzarsi della necessità di gettare luce sull’intero passato dell’uomo al fine di prepararci per una nuova e più grande figurazione mondiale.
Molti, animati da partigianeria e bigottismo, si chiedono quanto sia opportuno trattare simili argomenti in un momento così delicato in cui la chiesa cattolica ha raggiunto il minimo storico del suo consenso (‘carenza di vocazioni’, la chiamano enfaticamente i vescovi). Ma noi riteniamo che la verità — qualunque essa sia — debba sempre essere mostrata alla luce del giorno. Abbiamo in tal senso molto ammirato il coraggio di quel prete zen, tale Brian Victoria, che dopo avere effettuato un serio e accurato lavoro di documentazione pubblicò nel 1997 il rigoroso libro Zen at war in cui viene mostrata l’inopportuna connivenza tra i monasteri zen e il militarismo giapponese nella prima metà del XX secolo. A quel che sappiamo, nessun prelato cattolico ha mai avuto il coraggio di rendere partecipe il mondo di una simile autocritica. Certo, da anni Wojtyla continua, in piena buona fede, ci pare (ma senza dare mai una reale concretezza alle sue parole), a chiedere scusa per le nefandezze compiute dalla chiesa nel corso della storia, diciamo da Costantino ai giorni nostri, ma tali atti di contrizione restano vaghi e generici, contribuendo più a aumentare la sua aura di personale santità che non a mostrare un genuino sentimento di autocritica nell’ambito dell’intera istituzione ecclesiastica (taluni cardinali tengono anzi a sottolineare come tali esternazioni siano semplicemente da imputarsi alla sopraggiunta senilità del papa polacco). Eppure, ce ne sarebbero di nefandezze di cui vergognarsi: i sei secoli bui dell’Inquisizione, le sette crociate, i nove volte nove papi nepotisti e pornocrati, la famigerata “lotta per le investiture” dei vescovi-conti, fino a vicende più recenti, dall’accanimento contro i carbonari che lottavano per l’unità d’Italia, alla nefasta guerra dell’oppio in Cina (e, più in generale, il sanguinoso intreccio tra missionarismo cristiano e colonialismo europeo), alle connivenze con il fascismo e perfino con il nazismo (per non parlare degli ancor più recenti appoggi vaticani ai dittatori sanguinari in Cile e in Argentina), fino a giungere all’attualità dei preti pedopornografi, i quali ammontano all’incirca a un migliaio nei soli Stati Uniti d’America (d’altronde, si tratta di una pratica ben consolidata nella storia della chiesa cattolica — basti pensare a papa Giovanni XII, il quale nominò vescovo un bambino di 10 anni, per «ringraziarlo dei suoi servigi», come si apprende dalle cronache dell’epoca —, causa di varî tentativi di riforma: la gregoriana, la luterana, la tridentina…). Insomma, per citare un alto prelato, «il fumo di Satana è entrato dentro la Chiesa», impregnando a fondo tutte quante le sue mura. Per cui, Giovanni Paolo II farebbe prima a chiedere scusa di tutto (tanto non gli costa nulla!) e così la finiamo una buona volta… — ma, in tal caso, sarebbe forse opportuno che si scusasse preventivamente anche per gli errori attuali (che dire dei trenta bambini spediti anzitempo in paradiso — quando si dice dovizia missionaria! — per leucemia in quel di Cesano, a due passi dagli enormi tralicci di Radio Vaticana?) e futuri.
Nel frattempo, consoliamoci con qualche buon film realizzato in proposito da quel grande eretico che è il cinema. E partiamo dal lungometraggio del geniale regista Costa Gavras intitolato AMEN, uscito nelle sale nella primavera del 2002, incentrato sul silenzio del Vaticano durante lo sterminio antisemita perpetrato dai nazisti. Il film si avvale di una sceneggiatura scrupolosa e storicamente ineccepibile, basata sul bel libro Il vicario di Rolf Hochhulth, che Costa Gavras ha saputo valorizzare con la sua consueta abilità di cineasta consumato (ricordiamo pure che, nel 1964, Gian Maria Volonté allestì uno spettacolo teatrale su questo stesso testo, ma la rappresentazione venne impedita dalla polizia a causa del fatto che tale messinscena avrebbe violato il Concordato tra Stato e Chiesa — no comment!!!). Sappiamo che il genocidio, peraltro, fu sistematicamente praticato dalla chiesa cattolica. Lo stesso Hitler, nel corso di un’amichevole conversazione con un vescovo, disse: «Io sto solo continuando ciò che la Chiesa ha fatto nel corso degli ultimi quindici secoli; l’unica differenza è che io agisco in maniera più metodica» (e una frase molto simile, nel film, viene messa sulla bocca di un ufficiale delle SS). Né sarebbe giusto soffermarsi eccessivamente sul senso di certe scene (forti e efficaci) che i detrattori del film vorranno faziosamente intendere come un attacco stesso alla figura di Gesù (la locandina del film, in cui il crocifisso appare essere una svastica, è piuttosto forte). È evidente, nell’intera pellicola, un fondamentale rispetto per ciò che di genuino esiste nel cristianesimo (che, guarda caso, risiede sempre al di fuori delle mura istituzionali). Come ha dichiarato lo stesso regista, «Con Amen intendo condannare il silenzio dei potenti». E la condanna giunge forte e precisa. La scena finale è, in tal senso, una delle più riuscite operazioni del dire senza dire, tipica del linguaggio cinematografico, basato in gran parte sulla pura forza visiva e sui sottintesi. Ci si domanda infatti come diavolo abbiano fatto molti spietati capi nazisti, macchiatisi di orrendi crimini contro l’umanità, a sottrarsi al giudizio del processo di Norimberga e a vivere indisturbati e protetti (talvolta perfino influenti) come piccoli nababbi fino a tarda età? Il film offre una possibile inquietante (ma non così ipotetica) risposta proprio nei suoi ultimi fotogrammi.
Nell’estate del 2002 è uscito anche l’atteso I BANCHIERI DI DIO di Giuseppe Ferrara, ritirato subito dopo dalle sale per una querela di diffamazione, ma poi rientrato in circolazione, avendo ottenuto giustizia in tribunale. Una ricostruzione assai fedele (che ha richiesto ben quindici anni di lavoro), delle vicende legate al crack del Banco Ambrosiano negli anni Ottanta, conclusosi con l’omicidio del suo direttore, Roberto Calvi (nel film d’altronde si fanno nomi e cognomi, rendendo la pellicola ancora più pregevole). Diverse personalità del Vaticano si trovarono coinvolte in queste oscure vicende (primo fra tutti il cardinale Marcinkus, nel film ottimamente interpretato da Rutger Hauer), sulle quali grava peraltro l’ombra di organizzazioni ecclesiastiche quali lo IOR e l’Opus Dei, oltre alla P2 (la loggia massonica di Licio Gelli, per intendersi). Particolarmente azzeccata ci pare oltretutto la scelta di mostrare Woytila sempre di spalle, facendo così risaltare in modo ancor più palese l’altro lato della personalità del papa: in opposizione al personaggio frontale che lo stesso Vaticano tiene a presentare avvolto da un’aura di santità, emerge questo lato nascosto, di uomo spregiudicato e a tratti cinico, avverso alle dittature di sinistra assai più che a quelle di destra — in linea d’altronde con la tradizione del Vaticano (il cardinale Sodano, intimo amico di Pinochet, ne costituisce un esempio assai emblematico). Ne emerge una chiesa in sostanziale coerenza con ciò che è sempre stata nel corso della sua storia, interessata agli intrallazzi di potere piuttosto che a prodigarsi per aiutare fattivamente gli oppressi e i diseredati della terra; una chiesa attratta più da Mammona che da Dio; una chiesa, insomma, fomentatrice di ingiustizie, piuttosto che foriera di giustizia.
Viene quindi il turno di MAGDALENE di Peter Mullan, Leone d’Oro alla Mostra di Venezia conclusasi a settembre del 2002, la cui sceneggiatura (firmata da Augustin Diaz Yanes) è basata sulla situazione reale, perdurata fino al 1996, dei conventi di clausura delle cosiddette Sorelle della Misericordia, in cui le ragazze-madri (spesso vittime di stupri), dalle suore “ospitate e accolte” (circa trentamila negli ultimi cento anni!!!), venivano percosse, umiliate, affamate, sfruttate, obbligate a lavorare in condizioni di schiavitù e senza alcuna retribuzione. Peter Mullan, scoperta la realtà dei conventi “Maddalene” grazie a un documentario, ha voluto trarne un film anche nella speranza che esso possa spingere la chiesa cattolica a risarcire le vittime, molte delle quali ancora viventi (sebbene la maggior parte di esse vegetino in ricoveri, del tutto incapaci d’intendere e di volere).
Dopo questo film pluripremiato, il documentario televisivo citato, le inchieste di alcuni giornalisti e le indagini preliminari, è stata istituita la Child Abuse Commission dall’allora primo ministro irlandese Bertie Ahern, per fare luce su questo indegno scandalo. Dopo nove anni di inchieste ha presentato un rapporto che fotografa con esattezza le dimensioni e i dettagli di quanto è avvenuto: un dossier con le testimonianze di 2500 vittime di violenze, avvenute tra gli anni Quaranta e gli anni Ottanta, negli istituti gestiti da preti e suore in Irlanda. Racconti atroci, di uomini e donne oggi adulti che ricordano di essere stati picchiati in ogni parte del corpo con le mani e con ogni tipo di oggetti, seviziati, stuprati, talvolta da più persone contemporaneamente. La pedofilia e l’abuso sessuale nei confronti dei bambini erano un fatto “endemico”, conclude il documento.
Tra gli ordini religiosi investigati dalla commissione ci sono per l’appunto anche (ma non solo) le Sisters of Our Lady of Charity Refuge, le suore che gestivano la Magdalene Laundry di Dublino.
Ora che la verità è venuta a galla, la Chiesa cattolica si è finalmente trovata costretta ad ammettere di avere perpetrato un abominio che non aveva mai voluto prendere nemmeno in considerazione, nemmeno quando una qualche vittima trovava il coraggio di testimoniare direttamente le atrocità. Una di queste, Mary Norris, si è battuta per diversi anni nel tentativo di fare emergere la verità di tali conventi-lager. Vale proprio la pena di citare un lungo estratto di una sua recente intervista: «Esistiamo davvero, noi Maddalene; ci hanno cambiato nome, ma io sono Mary, ho 70 anni e sono stata la prima a parlare nel 1985; chiamavo i giornali, le radio, ma nessuno mi credeva. In molti preferivano ignorare, anche nel 1996 quando ha chiuso l’ultimo convento, anche dopo molti documentari, anche dopo molte canzoni. Un po’ come in Germania ai tempi del nazismo quando la gente perbene diceva di non sapere e faceva di tutto per non sapere. Io non ce l’ho con le suore per le percosse o per il lavoro. Quello che ti segna per sempre sono le ferite alla mente. Credevo che non sarei mai riuscita a liberarmi dall’odio che avevo per le suore, invece ce l’ho fatta, altrimenti avrebbero vinto loro. Ce ne sono altre come me, ma stanno zitte, si vergognano, non vogliono ricordare. Povere Maddalene, non parlano nemmeno se le ammazzi. E ormai le hanno ammazzate quasi tutte: il resto lo ha fatto il dolore, la sofferenza, la pazzia. Ma già: i cattivi ora sono i musulmani, il male è l’Islam. Alla gente come me io dico: non abbiate vergogna di arrabbiarvi, è un vostro diritto, non lasciate che l’amarezza vi rovini. Molte di noi provano ancora vergogna per il luogo in cui sono cresciute. Là dentro io ho perso tutto: dignità e identità. Ma la vergogna sta sulla porta della chiesa cattolica perché loro hanno istruito le persone e loro hanno permesso tutta questa miseria. “Se abbiamo fatto del male, ci scusiamo”, dice ora la chiesa. Come sarebbe a dire se? Noi, le Maddalene, non ci siamo inventate niente. Veramente il Vaticano crede che il film sia esagerato?». Sì, veramente, e non soltanto. Poco prima dell’assegnazione del Leone d’Oro, Emilio Tadini tentò di screditare la pellicola di Peter Mullan: «Un film che non dice la verità sulla chiesa e rischia di squalificare la Mostra del cinema di Venezia». Amen!
Nel 2003 il regista Aislin Walsh realizza un lungometraggio — ANGELI RIBELLI —intenso e straziante sul romanzo di Patrick Galvin “Ballata per un giovane straccione” (il cui titolo originale, Song For A Raggy Boy, corrisponde anche al titolo originale del film), basato su fatti realmente accaduti in Irlanda nel 1939. Il protagonista, William Franklin, ha partecipato alla guerra civile spagnola dove ha perso la fidanzata e diversi cari compagni di lotta; tornato in Irlanda con il cuore lacerato e la mente oppressa dai ricordi, ottiene un posto come insegnante di poesia e letteratura presso il riformatorio di Saint-Jude gestito da preti cattolici. E, in quell'ambiente apparentemente decoroso, inizia a notare una eccessiva severità di trattamento da parte di alcuni preti — in particolare, dal principale responsabile della disciplina, frate John che, poco per volta, mostrerà agli occhi dello sbalordito William una natura spietata degna del peggiore gerarca nazista. Nel frattempo, i metodi pedagogici di William vengono accolti dai ragazzi del riformatorio come una ventata di aria fresca nell'atmosfera repressiva, rigida e violenta di quel riformatorio cattolico che, spesso, sembra più simile a un lager. Non mancano nemmeno esempi di violenza sessuale perpetrata dai preti su alcuni minorenni. Il prof. William è visto con sospetto da quei preti che utilizzano il paravento educativo per dare sfogo alle loro pulsioni più bestiali e, infatti, non esita a intervenire — rischiando di perdere il posto di lavoro — per difendere i ragazzi e impedire alcune violenze, mascherate sotto pretesti disciplinari. I ragazzi iniziano a prendere coscienza della necessità di ribellarsi e frate John decide di dare una punizione esemplare al giovane che sembra mostrare più coraggio e determinazione; ma la folle crudeltà di frate John ha il sopravvento e arriva a uccidere il ragazzino sotto lo scudiscio impietoso che brandisce con inaudita crudeltà, ricavandone una sorta di piacere morboso. Il prof. William riesce a fare intervenire il vescovo (lo stesso che aveva nominato frate John come prefetto della disciplina) per rimuovere i responsabili degli atti più oltraggiosi nei confronti dei minorenni e l'istituto pare prendere finalmente una direzione più autenticamente educativa. La forza di questo film emerge soprattutto nelle scene di violenza, capaci di destare nello spettatore la più feroce indignazione (l'intensità recitativa è in ogni momento esemplare). Purtroppo, come si diceva, i fatti sono realmente accaduti e questo film mette in luce uno degli innumerevoli luoghi in cui alcuni rappresentanti della chiesa cattolica hanno abusato del proprio potere e del proprio prestigio nel modo più sadico e perverso.
Nel 2004 il regista Pedro Almodóvar dirige LA MALA EDUCACIÓN, un film incentrato sulla pedopornografia presente nella chiesa cattolica. Ambientata negli anni Ottanta, la pellicola risulta sopra le righe come tutti i lavori di questo regista spagnolo, il quale tuttavia conta diversi estimatori. Il film, in ogni caso, ha vinto alcuni premi prestigiosi e mette in luce abusi sessuali perpetrati da preti cattolici, ormai tristemente noti a tutti.
Pochi anni dopo il nono centenario della presa di Gerusalemme, al termine della prima crociata (15 luglio 1099), Ridley Scott realizza nel 2005 il film LE CROCIATE (Kingdom of Heaven). Nel 2000, papa Giovanni Paolo II aveva chiesto scusa per la prima Crociata, quella di Urbano II. All’epoca l’Europa versava in terribili condizioni sociali e religiose, e quello fu un modo per cercare di dare alla popolazione europea una distrazione: andate a sud, riconquistate la Terrasanta e guadagnerete il paradiso e, anche, una dignità sociale.
Ridley Scott ha scelto l’ultimo scorcio del XII secolo, precedente alla riconquista di Gerusalemme nel 1187 ad opera del condottiero curdo sunnita Yssuf ibn-Ayyub, chiamato dagli europei Saladino. Fu il periodo che vide il tramonto della convivenza più o meno pacifica fra musulmani e cristiani, insediatisi nella Terrasanta circa cento anni prima al seguito della prima Crociata, in un periodo che fa da parentesi fra la seconda e la terza crociata, dando comunque per scontato il fatto che la periodizzazione delle otto crociate, tante furono complessivamente le “spedizioni” dell’Occidente cristiano in Terrasanta, è il risultato di una convenzione comunemente accettata dagli storici e che, all’epoca delle prime crociate fino al Trecento circa, il termine stesso era ignoto ai promotori e partecipanti alle spedizioni della cristianità per la conquista del Santo Sepolcro. Fra la seconda e la terza crociata si stabilì una sorta di parentesi, quasi una medievale pausa di Dio, nel conflitto fra cristiani e musulmani e si sperimentò la possibilità di una pacifica convivenza fra gli uni e gli altri: una pace fragile, come il corso degli eventi narrati dal film ci dirà.
Il fabbro Baliano, rimasto vedovo dopo il suicidio della moglie, è il figlio tardivamente riconosciuto dal nobile Goffredo di Ibelin, il quale lo induce al viaggio in Terrasanta dove cercherà espiazione per le sue colpe (ha appena ucciso un prete che aveva profanato il cadavere della moglie).
Giunto a Gerusalemme, dopo aver preso il posto del padre frattanto morto, Baliano si trova al centro di una difficile pace fra cristiani e saraceni, ora insidiata dalle subdole manovre di due vassalli del saggio e sfortunato re Baldovino, Reginaldo di Chatillon e Guido di Lusignano, che, precipitando la situazione, provocano la reazione dei musulmani i quali, alla guida del Saladino, sconfiggono i cristiani, scacciandoli da Gerusalemme, strenuamente difesa da Baliano. Alle gesta valorose del quale si intrecciano quelle relative al suo amore per la moglie di uno dei due traditori, Sybilla, sorella dello sventurato re Baldovino che morirà a Gerusalemme per lebbra.
Le ragioni della rottura, provocata dalle manovre politiche di Rinaldo di Chatillon e Guido da Bisignano, alludono alla componente economica – imperialistica diremmo oggi – che non fu secondaria nella promozione e realizzazione delle Crociate, cui fece seguito la spartizione dei territori occupati da parte dei principi e vassalli cristiani occupanti. Premessa per successivi e prevedibili attriti, anche fra di loro, che avrebbero provocato, come in effetti accadde e come il film ci racconta, le premesse per la riconquista di Gerusalemme da parte di Saladino (personaggio centrale sul piano della ideologia del film, che Scott ha descritto in tutta la sua magnanimità e lealtà), e per dare inizio a quella che poi si chiamò la terza crociata.
Il film di Scott si chiude con il viaggio in Terrasanta di Riccardo Cuor di Leone, primo sovrano giunto dalla lontana Inghilterra (fra gli altri sovrani partecipanti ricordiamo l’imperatore svevo Federico I Barbarossa e Filippo II Augusto re di Francia), verso quella che sarebbe stata denominata poi la terza Crociata. La fragile tregua fra cristiani e musulmani si era rotta, aprendo un nuovo conflitto: una situazione destinata a ripetersi ancora nel successivo millennio, come ricorda, a mo’ di sconsolata conclusione, la didascalia finale, chiave di volta per comprendere il carattere di attualità che Scott ha voluto conferire al kolossal.
Al di là di alcuni anacronismi (qualche esempio: la presenza di un consigliere sciita presso il Saladino curdo e sunnita; la bandiera con la mezzaluna che apparirà solo nel Quattrocento con i turchi ottomani) e un certo semplicismo nel contrasto tra i cattivi che vogliono lo scontro e i buoni desiderosi di dialogo, il film ha il pregio di mostrare al più ampio pubblico l’intento per nulla edificante, per nulla santo, delle crociate.
Nel 2006 il festival di Cannes ha ospitato un film che ha suscitato uno scalpore assai più grande: IL CODICE DA VINCI, realizzato da Ron Howard nel 2006 e tratto dal fortunato romanzo di Dan Brown (tradotto in quaranta lingue). Ancor prima dell’uscita del film, tutte le gerarchie cristiane dei cinque continenti si sono lanciate in una accesa campagna di boicottaggio: la chiesa anglicana, la chiesa ortodossa e, ovviamente, la chiesa cattolica — particolare accanimento è stato mostrato dall’Opus Dei, che nel romanzo (e nella pellicola) viene fortemente attaccata. Il regista, per tutta risposta, ha definito «un atto fascista» negare il diritto di vedere il film come chiede la prelatura fondata da Josemaria Escrivà de Balaguer. Sulla medesima scia di denigrazione, monsignor Angelo Amato, segretario della “Congregazione della dottrina della fede” (erede naturale di quel Sant’Uffizio che ha mandato al rogo milioni di ‘eretici’ e che è stato per lunghi anni capitanato da Ratzinger prima dell’investitura papale), ha lanciato la parola d’ordine: “boicottate il Codice Da Vinci”. Non è passato molto tempo, in fondo, da quando i preti cattolici italiani dal loro pulpito cercavano di boicottare gli spettacoli teatrali di Dario Fo. Come si suol dire, il lupo perde il pelo ma non il vizio.
Diciamo subito che Dan Brawn ha raccolto varie teorie (formulate in particolare dagli storici Richard Leigh, Michael Baigent, Mikhail Anikin) e le ha cucite insieme in un romanzo che non pretende certo di essere una ricostruzione storica. Insomma, ha creato uno sfondo credibile per un’azione avvincente senza preoccuparsi troppo — com’è lecito per un romanzo (e per un film) — della fondatezza storica delle vicende narrate. Da questo punto di vista la sua operazione è simile a quella degli scrittori che cuciono insieme i misteri delle piramidi, Orione, le supposizioni di alcuni egittologi, pitture rupestri, strani reperti archeologici, il diluvio universale, e riescono a creare teorie immaginifiche su civilizzatori alieni che avrebbero colonizzato il mondo più di ventimila anni fa.
Perché, allora, il film è così fortemente temuto dai vertici degli apparati cristiani, assai più di film-denuncia come Amen, I banchieri di Dio, Magdalene, che al contrario sono trascrizioni piuttosto scrupolose della realtà dei fatti? La risposta sta nel fatto che, anzitutto, la produzione holliwoodiana del Codice Da Vinci ha prodotto un vero e proprio kolossal, un evento cinematografico mondiale, un fenomeno di massa imperdibile, mentre gli altri films citati sono destinati a restare “di nicchia”; inoltre, e soprattutto, perché l’affermazione di fondo che emerge dal romanzo di Brown e dal film di Howard è corretta e assai più corrosiva: la chiesa (cattolica, protestante, anglicana che sia) sta nascondendo la verità su Gesù. Da un paio di millenni!
La chiesa cattolica, per esempio, non può negare di avere sequestrato e nascosto nei suoi archivi decine di testi scoperti negli ultimi decenni in alcune giare sigillate e sepolte nel deserto. Conosciamo pochi frammenti di questi testi. Sappiamo che si tratta di scritti provenienti dalle prime comunità cristiane. È di pubblico dominio che questi testi esistano e siano nelle mani del Vaticano. Ed è evidente che da tempo si attende la loro pubblicazione, che viene rinviata con ogni scusa. E pare che alcuni studiosi che li hanno visti abbiano dichiarato qualche cosa del tipo: se questi documenti vengono fuori le chiese cristiane cesseranno di esistere.
Tornando alla vicenda narrata nel Da Vinci Code, il protagonista, Robert Langdon (interpretato da Tom Hanks) è un avventuriero con la giacca da professore universitario (il nome è stato scelto da Brown in omaggio a John Langdon, uno studioso di caratteri tipografici, suo amico). La storia, in parte, ricalca quella di un racconto francese del 1200, Le Livre du Graal, di Robert de Broron, in cui si parla del rapporto fra Maria Maddalena, la Francia e il “SANGREAL” (‘santo Graal’ o, meglio, ‘sangue reale’?). Nel Codice Da Vinci si recupera un classico delle interpretazioni apocrife cristiane: il “Priorato di Sion”. Si tratta di un ordine fondato da Goffredo di Buglione, del quale sarebbero stati Gran Maestri personaggi come Leonardo Da Vinci, Sandro Botticelli, Isaac Newton, Claude Debussy, Victor Hugo. Il Priorato sarebbe il custode della discendenza “reale” di Gesù e della Maddalena: i Merovingi, dinastia reale francese. Si sostiene che Maria Maddalena ebbe una figlia dalla sua unione con Gesù (la vera ‘coppa’ del Graal sarebbe in questo caso il ventre materno della Maddalena) — unione che in alcuni Vangeli considerati ‘apocrifi’ viene enfatizzata, con grande fastidio della chiesa cristiana che invece l’ha trasformata in una prostituta.
Il film ha un cast di alto profilo (compresi un Ian Mc Kellen grande come di norma e Jean Reno, quest’ultimo nel ruolo di Bézu Fache, un poliziotto francese affiliato all’Opus Dei), locations prestigiosissime (prima fra tutte il Louvre), ricostruzioni meticolosissime, ambientazioni di grande fascino. Che piaccia o no, è un film, peraltro ottimamente realizzato, che scuote le fondamenta — sempre più fragili — della chiesa cristiana. Ed è un grande omaggio al femminino, che sempre più cerca di prendere la sua rivincita dopo millenni di maschilismo imperante. Fu proprio la chiesa a congedare il culto della Grande Dea presente nella nostra grande tradizione euroasiatica (celtica e pre-celtica), ponendo al suo posto un Dio Padre violento e vendicativo, punitore dei peccatori e degli infedeli.
Nel 2009 il regista spagnolo Alejandro Amenábar dirige AGORA, un film incentrato sulla figura di Ipazia (interpretata da Rachel Weisz), filosofa alessandrina assassinata dai cristiani. Il film, in lingua inglese, è uscito il 9 ottobre in Spagna, mentre in Italia si dovrà attendere fino al 23 aprile, dietro insistenza di alcuni intellettuali (pare infatti che le case di distribuzione italiane giudicarono inizialmente questo film poco appetibile in Italia e quindi non erano intenzionate a farlo circolare).
Ipazia (Alessandria d’Egitto, ca 370 - 415) fu una matematica, astronoma e filosofa greca. Rappresentante della filosofia neo-platonica, la sua uccisione da parte dei monaci cristiani l’ha resa una martire del paganesimo e della libertà di pensiero.
Suo padre, Teone, geometra e filosofo, studiava e insegnava matematica e astronomia a Alessandria. Le fonti antiche sono concordi nel rilevare come non solo Ipazia fosse stata istruita dal padre nella matematica ma, sostiene Filostorgio, anche che «ella divenne molto migliore del maestro, particolarmente nell’astronomia e che, infine, sia stata ella stessa maestra di molti nelle scienze matematiche».
Matematica, astronoma e filosofa, Ipazia aveva tutti i titoli per succedere al padre nell’insegnamento di queste discipline nella comunità alessandrina. La mancanza di ogni sua opera scritta (forse “san” Cirillo le ha fatte distruggere) rende problematico stabilire il contributo effettivo da lei prodotto al progresso del sapere matematico e astronomico della scuola di Alessandria. Analoghe difficoltà presenta la ricostruzione del pensiero filosofico di Ipazia; di certo è che aderiva al pensiero neoplatonico. E, come ricorda lo storico Socrate Scolastico, «era giunta a tanta cultura da superare di molto tutti i filosofi del suo tempo, a succedere nella scuola platonica riportata in vita da Plotino e a spiegare a chi lo desiderava tutte le scienze filosofiche. Per questo motivo accorrevano da lei da ogni parte tutti coloro che desideravano pensare in modo filosofico».
Un’altra testimonianza proviene dal filosofo Damascio: questi scrive che Ipazia «di natura più nobile del padre, non si accontentò del sapere che viene attraverso le scienze matematiche a cui era stata introdotta da lui ma, non senza altezza d’animo, si dedicò anche alle altre scienze filosofiche. La donna, gettandosi addosso il mantello e uscendo in mezzo alla città, spiegava pubblicamente a chiunque volesse ascoltarla Platone o Aristotele o le opere di qualsiasi altro filosofo». Risulterebbe dal passo che Ipazia, iniziato il suo percorso culturale dallo studio delle scienze matematiche — che sono, secondo la concezione platonica, le scienze propedeutiche alla filosofia — fosse approdata alla «altre scienze filosofiche», ossia alla «vera filosofia», che raggiunge il suo culmine nella dialettica. Peraltro, l’immagine di Ipazia che insegna nelle strade sembra sottolineare un comportamento la cui audacia sembra quasi voluta, come un gesto di sfida e, a questo proposito, va rilevato che quando Ipazia comincia a insegnare, nell’ultimo decennio del IV secolo, ad Alessandria sono stati appena demoliti i templi dell’antica religione per ordine del vescovo Teofilo, una demolizione che simboleggia la volontà di distruzione di una cultura alla quale anche Ipazia appartiene e che ella è intenzionata a difendere e a diffondere.
Il prestigio conquistato da Ipazia ad Alessandria ha una natura eminentemente culturale, ma quella sua stessa eminente cultura è la condizione dell’acquisizione, da parte di Ipazia, di un potere che non è più soltanto culturale: è anche politico. Scrive ancora Socrate Scolastico: «Per la magnifica libertà di parola e di azione che le veniva dalla sua cultura, accedeva in modo assennato anche al cospetto dei capi della città e non era motivo di vergogna per lei lo stare in mezzo agli uomini: infatti, a causa della sua straordinaria saggezza, tutti la rispettavano profondamente e provavano verso di lei un timore reverenziale».
Quasi un secolo dopo, anche il filosofo Damascio riprende le sue considerazioni: «era pronta e dialettica nei discorsi, accorta e politica nelle azioni, il resto della città a buon diritto la amava e la ossequiava grandemente, e i capi, ogni volta che si prendevano carico delle questioni pubbliche, erano soliti recarsi prima da lei, come continuava ad avvenire anche ad Atene. Infatti, se lo stato reale della filosofia era in completa rovina, invece il suo nome sembrava ancora essere magnifico e degno di ammirazione per coloro che amministravano gli affari più importanti del governo».
I cosiddetti decreti teodosiani, emessi dall’imperatore Teodosio tra il 391 e il 392, avevano sancito la proibizione di ogni genere di culto pagano ed equiparato il sacrificare nei templi al delitto di lesa maestà punibile con la morte. Alla morte di Teofilo nel 412 salì sul trono episcopale di Alessandria Cirillo. Subito, tra il prefetto di Alessandria Oreste, che difendeva le proprie prerogative, e il vescovo Cirillo, che intendeva assumersi poteri che non gli spettavano, nacque un conflitto politico.
In questo clima, maturò l’omicidio di Ipazia: era il mese di marzo del 415, e correva la quaresima: un gruppo di cristiani «dall’animo surriscaldato, guidati da un lettore di nome Pietro, si misero d’accordo e si appostarono per sorprendere la donna mentre faceva ritorno a casa. Tiratala giù dal carro, la trascinarono fino alla chiesa che prendeva il nome da Cesario; qui, strappatale la veste, la uccisero usando dei cocci. Dopo che l’ebbero fatta a pezzi membro a membro, trasportati i brani del suo corpo nel cosiddetto Cinerone, cancellarono ogni traccia bruciandoli» (Socrate Scolastico).
Damascio si era recato ad Alessandria intorno al 485, quando ancora «vivo e denso di affetto era il ricordo dell’antica maestra nella mente e nelle parole degli alessandrini». Divenuto poi scolarca della scuola di Atene, scrisse, cento anni dopo la morte di Ipazia, la sua biografia. In essa sostiene la diretta responsabilità di Cirillo nell’omicidio: accadde che il vescovo, vedendo la gran quantità di persone che frequentava la casa di Ipazia, «si rose a tal punto nell’anima che tramò la sua uccisione, in modo che avvenisse il più presto possibile, un’uccisione che fu tra tutte la più empia». Anche Damascio rievoca la brutalità dell’omicidio: «una massa enorme di uomini brutali, veramente malvagi [...] uccise la filosofa [...] e mentre ancora respirava appena, le cavarono gli occhi».
A partire dall’Illuminismo, Ipazia viene considerata una vittima del fanatismo religioso e una martire laica del pensiero scientifico, celebrata da Gibbon, Voltaire, Diderot, Nerval, Leopardi, Proust. Nel Settecento lo storico britannico Edward Gibbon definì la sua morte una «macchia indelebile». Ipazia fu celebrata in romanzi, poesie, opere teatrali e quadri. E ora, anche in un film. Umberto Eco, in una recensione al film, nota peraltro quanto possa essere stata imbarazzante la celebrazione di Cirillo tenuta il 3 ottobre 2007 da papa Ratzinger, il quale loda “la grande energia”, senza fare alcun riferimento al carattere violento che la storia ci tramanda e che questa pellicola, al di là di qualche anacronismo, riesce a raccontare piuttosto egregiamente.
Nel 2013, il regista croato Vinko Bresan ha realizzato un lungometraggio davvero spassoso (ma non per questo meno pungente, anzi!), dal titolo assai emblematico PADRE VOSTRO. La sceneggiatura deriva da un testo teatrale firmato da Mate Matisic, che mette a nudo l’ipocrisia della chiesa con un umorismo genuino, mordace e calzante al punto giusto. La pellicola accentua ancor più la vis comica del testo, grazie a una serie di felicissime trovate prettamente filmiche. Si tratta, forse, del più bel film di satira finora realizzato sul cattolicesimo: sincero, divertente, ben recitato, girato con il giusto brio e senza strappi, a tratti geniale. Davvero irresistibile.
«Quello che raccontiamo nel film è tutto vero, abbiamo seguito gli atti dell’inchiesta giornalistica del Globe. Sono resoconti completi, impossibili da negare». Questo hanno dichiarato Thomas McCarthy e Mark Ruffalo, regista e interprete principale di SPOTLIGHT, pellicola realizzata nel 2015 e interamente dedicata all’enorme scandalo di pedopornografia e abusi sessuali che travolge la Chiesa Cattolica americana dall’inizio del 2002, grazie agli articoli del Boston Globe sull’arcivescovo Bernard Francis Law (l’indagine vinse il prestigioso Premio Pulizer). L’epicentro dello scandalo fu la diocesi di Boston, ma il terremoto si propagò in pochi mesi in tutto lo stato del Massachusetts e in decine di altre città degli USA. Basta seguire il rullo finale, dopo due ore di buon cinema: 250 preti coinvolti, oltre 1000 vittime. In pratica, dal 1976, a Boston i cardinali responsabili e la diocesi hanno coperto ogni tipo di abuso sessuale commesso da preti, soprattutto su ragazzini minorenni: prima trasferendo i sacerdoti scoperti in flagranza di reato, poi grazie alla propria posizione di potere istituzionalizzato in città, ammorbidendo polizia, amministratori, famiglie dei ragazzi, direttori di giornali e uomini d’affari. Infine, stipulando un tacito accordo con diversi avvocati consenzienti per arrivare a un rapido patteggiamento (poi occultato dagli archivi dei tribunali), oppure dissuadendo le famiglie, spesso povere e indigenti, a far causa alla diocesi visto che, come viene spiegato nel film, l’immunità per un ente come la Chiesa prevedeva la prescrizione dei reati dopo tre anni e una pena massima per ogni vittima di soli 20mila dollari.
Un cast di prestigio (segnaliamo, in particolare, gli ottimi Michael Keaton e Stanley Tucci) per un film-denuncia di indubbio valore.
Ciò che a noi più interessa, ben al di là delle piccole polemiche da oratorio, è il senso globale del messaggio che da tali pellicole emerge, che suscita riflessioni e necessita considerazioni concernenti il futuro della chiesa cristiana — e di tutte quante le chiese. Ha ancora senso — questa è la domanda che ci poniamo — gravare le nostre spalle del fardello di istituzioni religiose che si sono macchiate di crimini contro l’umanità e la cui strategia è stata quella di imporsi con la paura e la violenza a instrumentum regni? E, allargando ulteriormente la curvatura del nostro punto interrogativo, una istituzione religiosa non rappresenta già di per sé una palese contraddizione di quelle verità di cui pretenderebbe essere l’unica detentrice?
Appare infatti evidente che se le religioni smettessero di affermare di essere ognuna l’esclusiva depositaria della verità assoluta, non avrebbero più alcun motivo d’esistere le istituzioni che vi si sono avviticchiate tutt’intorno soffocandone il primitivo e genuino slancio rivoluzionario. Poiché, se una determinata chiesa stralciasse il dogma dell’extra ecclesia non est salus, extra ecclesia nulla salus, si eliminerebbe di fatto la stessa ragion d’essere di quella istituzione. E, al tempo stesso, molti attuali conflitti etnici perderebbero il loro principale movente. La richiesta di papa Paolo Giovanni II che l’articolo di apertura della costituzione europea contenesse un preciso riferimento alle radici cristiane è stato — grazie a Dio! — rifiutato, addirittura in modo secco da alcuni paesi, come la Francia, dalla cui lunga tradizione laica e repubblicana noi in Italia avremmo molto da imparare sulla via di una quanto mai auspicabile (e inevitabile) sprovincializzazione.
La storia peraltro ci insegna che illudersi di rinchiudere una qualche verità entro le quattro mura di una qualsivoglia istituzione, è il modo più rapido per far germogliare in quello stesso recinto il seme della menzogna, e con esso, la pianta venefica della stagnazione, i fiori carnivori del missionarismo più o meno coercitivo, la gramigna della repressione. E prendere coscienza di questo fatto, si badi bene, non sradica minimamente la vera spiritualità, anzi, semmai tale separazione servirà a porre in piena luce il vero volto del sentimento mistico più genuino, finalmente libero da tutte quelle erbacce sentimentalistico-religiose quali il bigottismo, l’eristica, la mistificazione, il fanatismo, l’intolleranza, il dogmatismo, il proselitismo. Bonum diffusivum sui, dicevano saggiamente i nostri avi latini.
Sia ben chiaro, comunque, che finché ci sarà anche un solo essere umano che sente il bisogno, nel cercare di approfondire la propria fede, di seguire il diktat di una classe sacerdotale, quale che sia, noi ci batteremo — armati di volteriano ardore — affinché egli possa esercitare pienamente il proprio diritto in assoluta libertà (purché ciò non lo induca a limitare la libertà altrui, beninteso). Ma se perfino Gesù Cristo (stando alle recenti indiscrezioni di un suo collega, un certo Zoroastro), guardando la chiesa cattolica medita di farsi ateo, allora c’è proprio di che riflettere. Fortunatamente, checché ne dicano Herr Ratzinger & soci, l’Europa ha radici vigorosamente pagane, che hanno salvato tali paesi dall’aberrazione di trasformare le rispettive istituzioni laiche in monasteri, e i sia pur tortuosi e discutibili umani tragitti in strade senza uscita verso il deserto della rassegnazione e dell’inerzia stagnante. Giacché il cristianesimo, anziché vedere il mondo come un campo da gioco ove sia stata posta in atto una qualche divina scommessa alla quale ognuno di noi è chiamato a partecipare, lo scorge come una valle di lacrime in cui bisogna soffrire per potersi guadagnare un consolatorio aldilà. Questa avversione tutta cristiana per il mondo fece inorridire Nietzsche e ne fece l’epicentro di un terremoto che ha scosso le fondamenta decrepite di quel Titano dai piedi di burro chiamato Occidente… «Vi scongiuro, fratelli, rimanete fedeli alla terra e non credete a quelli che vi parlano di speranze ultraterrene! Essi sono degli avvelenatori, che lo sappiano o no. Sono spregiatori della vita, moribondi e essi stessi avvelenati, dei quali la terra è stanca: se ne vadano pure!» (Also Sprach Zarathustra).
Per di più, vorremmo ribadire, in conclusione di tali riflessioni, un concetto che ci sta particolarmente a cuore. L’essere umano, che porti la divisa da cattolico o da musulmano, da ateo o da nazista, non sta certo a noi giudicarlo, e non saremo certo noi a tirare la prima pietra (né qualsivoglia pietra tout court). Ma le istituzioni, ebbene, quelle non possono in alcun modo essere lasciate ingiudicate, vivaddio! Si può perdonare un nazista, si può perfino pregare per la sua salvezza con un atto di amore cristiano (o buddhista, se preferite), ma non si può perdonare il nazismo, né tantomeno pregare per la sua salvezza! Lo stesso dicasi per pedopornografi e carnefici di ogni sorta e di ogni bandiera…