Prima dell’avvento dell’alfabeto “devanagari” (ovvero dei caratteri utilizzati per il vedico e il sanscrito classico e moderno), esisteva un linguaggio che alcuni studiosi hanno chiamato “sarasvati”, poiché rinvenuto nelle migliaia di tavolette (oltre 4000 reperti, fra iscrizioni, frammenti di ceramica, sigilli, amuleti, frutto di 130 anni di scavi) ritrovate nei siti della cosiddetta ‘civiltà Sarasvati’, una raffinatissima civiltà urbana fiorita nell’India del nord circa 5000 anni fa e durata fino al 1900 a.C., in corrispondenza della vallata dove il RgVeda parla dell’esistenza del fiume Sarasvati. Si tratta di una civiltà sofisticata come quelle mesopotamica e egizia, ma estesa in un’area geografica molto più vasta. Con l’esaurirsi di tale fiume (1900-1500 a.C.), da questa vallata la popolazione si trasferirà verso la pianura gangetica, dando vita a un’altra raffinata civiltà, detta dell’Indo. Nel complesso, come è spiegato nel libro Dai Veda a Kalki di Tommaso Iorco, si è presto riscontrata una continuità fra le due culture, che hanno preso il nome comune di “civiltà dell’Indo-Sarasvati”.
Per decenni si è tentato di decifrare l’alfabeto sarasvati, senza tuttavia produrre risultati significativi. Ora, perlomeno, possiamo affermare con certezza che si tratta di un vero e proprio codice linguistico e non di semplici simboli grafici ricorrenti, come alcuni scettici ipotizzavano.
Il 23 aprile 2009, la prestigiosa rivista Science ha pubblicato i risultati di una équipe di scienziati indiani e statunitensi, in un articolo dal titolo: Entropic Evidence for Linguistic Structure in the Indus Script, in cui si segnala l’evidenza del linguaggio sarasvati, il quale appare peraltro affine ad altri antichi linguaggi: il sumero, il tamil e il sanscrito.
Ma procediamo con ordine.
Nel 2000, gli studiosi Farmer e Witzel scrissero che «i testi della vallata dell’Indo sono criptici al massimo, e gli scritti mostrano pochi segni di mutamenti. La maggior parte di queste iscrizioni non superano i quattro o cinque caratteri; parecchi contengono solo due o tre caratteri.» Aggiungiamo che l’iscrizione più lunga finora trovata presenta 27 caratteri.
Recentemente, una équipe di studiosi dell’università di Washington — coadiuvati da ricercatori locali, quali Nisha Yadav e Mayank Vahia del Tata Institute of Fundamental Research and Centre for Excellence in Basic Sciences di Mumbai; Hrishikesh Joglekar di Mumbai; R. Adhikari delloInstitute of Mathematical Sciences di Chennai; e Iravatham Mahadevan dello Indus Research Centre di Chennai — hanno utilizzato un complesso software conosciuto come “modello Markov”, che rappresenta uno strumento di calcolo usato per mappare le dinamiche di sistema. Tale modello, messo a punto dal matematico russo Andrej Markov agli inizi del XX secolo, è oggi abbondantemente utilizzato in vari ambiti di ricerca (dalla genetica all’economia, oltre appunto al riconoscimento dei linguaggi). Come precisa uno dei ricercatori, Rajesh Rao, «il modello statistico getta luci sulla struttura grammaticale di questi scritti, rendendone possibile la decifrazione, in quanto ogni possibile significato di un determinato simbolo ne convalida il senso all’interno del suo contesto, fra gli altri simboli che lo precedono o lo seguono.»
La prima cosa certa scaturita da questi calcoli, è la conferma che i simboli utilizzati veicolano un preciso significato linguistico. «Questi primi risultati ci mostrano che esiste un chiaro senso logico in tale scrittura,» ha detto Mayank Vahia.
In pratica, il linguaggio oggetto dello studio viene comparato a quattro linguaggi umani noti (tre antichi — il sumero, il sanscrito, il tamil — e uno moderno, l’inglese) e a quattro sistemi di comunicazione che non fanno uso del linguaggio parlato (il DNA umano, il Fortran, la sequenza delle proteine dei batteri e un linguaggio artificiale). Mediante questi dati, il programma calcola il livello di ordine presente in ogni singolo linguaggio; i linguaggi non parlati presentano un alto livello di ordine (o, viceversa, in mancanza di ordine, possono rilevare un livello assolutamente caotico), mentre i linguaggi parlati presentano un livello di ordine medio. Il linguaggio sarasvati si è mostrano “mediamente ordinato”, esattamente come gli altri linguaggi parlati esaminati.
Altro particolare interessante emerso, è che il linguaggio sarasvati mostra alcune differenze in rapporto alle aree geografiche in cui è stato rinvenuto. La scrittura sarasvati, infatti, è stata ritrovata non solo nel nord dell’India e nel Pakistan, ma anche in Mesopotamia e nell’attuale Iraq. Ebbene, il modello statistico mostra che le sequenze presenti nell’Asia centrale sono ordinate in modo diverso da quelle presenti sulle iscrizioni della valle Sarasvati. Ciò suffraga l’ipotesi, precedentemente formulata da diversi ricercatori, che tale sistema di scrittura fosse stato utilizzato da viaggiatori indiani per scopi specifici e per comunicare informazioni di varia natura. Secondo Rajesh Rao, dell’università di Washington, «la scoperta che tale scrittura avesse una versatilità sufficiente da rappresentare materie differenti è affascinante. Ciò proverebbe che essa non era tesa a rappresentare unicamente simboli politici o religiosi» (ricordiamo che nel 2004 il linguista Steve Farmer pubblicò un articolo nel quale affermava che questo sistema grafico era unicamente un sistema di simboli politici e religiosi). Inoltre, aggiunge Rao, «la struttura grammaticale soggiacente pare simile a quella riscontrata in molte altre lingue.»
Già nel 1877 l’archeologo britannico Alexander Cunningham ipotizzò che questo sistema di scrittura fosse il naturale precursore del moderno devanagari, ma la maggior parte degli studiosi mostrarono scetticismo e prudenza.
Oggi, fra i linguaggi che vengono analizzati in modo comparato con il linguaggio sarasvati — e che vengono considerati in qualche modo connessi — figurano alcune fra le lingue più antiche conosciute: il cinese lolo, il sumero, l’egiziano, il dravida, l’indo-ariano, l’antico slavo.
Asko Parpola, considerato una autorità nell’ambito delle antiche iscrizioni indiane, ricorda comunque che tale ricerca, per il momento, «non contribuisce nel darci la comprensione di questo sistema di scrittura». Tuttavia, perlomeno, offre delle garanzie che si tratta di un vero e proprio linguaggio. In realtà, il prof. Rao precisa che tale ricerca getta alcune luci sulla grammatica e, di conseguenza, sul significato della scrittura — e aggiunge: «il prossimo passo consisterà nel creare una grammatica sulla base dei dati in nostro possesso, per confrontarla con la grammatica del sanscrito e di altri antichi linguaggi».
Teniamo gli occhi puntati su queste ricerche, perché rappresentano per noi una possibile chiave di accesso allo svelamento di molti ‘misteri’ ancora non risolti riguardanti il passato dell’uomo.
Cercheremo pertanto di dare un seguito al presente articolo, pubblicando le evoluzioni successive della ricerca.
Agosto 2009