Verso 1
îshâvâsyam idam sarvam
yat kinca jagatyâm jagat;
tena tyaktena bhunjîthâ
mâ grdhah kasya svid dhanam.
«Tutto quello che esiste è la dimora del Signore Supremo, e ogni cosa è un universo che si muove nell’universale movimento. Quindi di tutto godi, rimanendo distaccato; non bramare alcun bene che non appartenga alla tua interiorità».
L’intero universo è un’operazione del Supremo. È un perpetuo svolgersi dell’Assoluto in miriadi di forme, simili a infinite correnti dell’unico Motore immobile. Ogni forma è un particolare flusso dell’oceano senza rive e senza confini dell’Essere. Ogni singola onda è parte del mare e, al tempo stesso, ha dietro di sé l’intera distesa. L’universo fenomenico è l’abitazione del Signore, che ha originato da se stesso questa infinita estensione quale Sua dimora, per la gioia di proiettarsi nel divenire. La Gioia, dicono le Upanishad, ha creato l’universo, e nella gioia tutte le cose devono trovare la loro giustificazione finale e il loro vero senso. La gioia dell’Uno deve essere goduta da ogni singolo essere individuato: è questo il fine dell’esistenza manifesta.
Tuttavia, la gioia e la felicità non sembrano costituire la trama dell’esistenza; semmai, sembra proprio l’opposto. Perché? Il motivo risiede nel fatto che l’individuo vive e agisce nella più completa ignoranza della sua vera natura, essendo l’identità con lo Spirito il fondamento del suo essere, da cui deriva la sua unità con il Tutto. Ogni essere individuato guarda se stesso come distinto e differente dagli altri, ed è proprio a causa di tale senso di separazione che l’ego cerca di affermare se stesso sugli altri, cerca una gioia egoica, per mezzo o addirittura a discapito del prossimo.
È questa la vera radice della sofferenza e della disarmonia esistente nel mondo. Viceversa, realizzando la propria unità con l’Essere — e con il Tutto quale manifestazione dell’Essere —, l’anima giunge a realizzare il mondo come un’operazione dell’Assoluto, nella quale egli ha accettato di prendervi parte quale potere operante di questo medesimo Assoluto. Pertanto, la presa di coscienza da parte dell’uomo del suo vero sé non abolisce l’azione nel mondo — al contrario, conferisce il vero significato dell’umano agire su questa terra.
Verso 2
kurvanneveha karmâni jîjîvishet shatâm samâh;
evam tvayi na anyatheto asti na karma lipyate nare.
«Compiendo le opere in questo mondo, l’uomo desideri pure vivere cent’anni. Così sia anche per te; l’azione però non resti incollata all’uomo».
L’uomo deve agire. Il rafforzativo eva in kurvanneva è teso a conferire più forza all’affermazione: “compiendo le opere, certamente, e non astenendosi dall’azione”. Nessun essere umano può astenersi dall’agire; anche la cosiddetta inattività è in realtà una sorta di azione che produce i suoi risultati. Occorre pertanto agire nel modo giusto e efficace, partecipando pienamente al moto universale per affrettarne il compimento nella gioia, ovvero il godimento dell’Uno in sé e dell’Uno nei Molti. Così facendo, nessuna azione può limitare l’individuo pervenuto a tale divina consapevolezza. È questa la vera arte di vivere, apportatrice di autentica felicità e di vera libertà. Quanti persistono nella loro ignoranza e nel loro egoismo, scelgono di vivere una vita falsa in cui la loro egolatria li conduce a restare incatenati a una vita infelice e scissa, segnata dalla sofferenza e dalla disarmonia.
Verso 3
asûrya nâma te lokâ andhena tamasâvrtâh;
tâmste pretya âbhigacchanti
ye ke ca âtmahano janâh.
«Senza sole sono quei mondi avvolti da cieche tenebre, ai quali vanno, una volta di qui partiti, coloro che uccidono il proprio essere».
Vi sono altri piani di coscienza oltre a quello materiale in cui viviamo. E quando il corpo fisico muore, l’essere interiore dell’uomo attraversa i varî piani sottili, che hanno specificità differenti, e egli viene naturalmente attratto da quelli che durante la sua esistenza fisica hanno esercitato per lui una maggiore influenza. Sicché, coloro che si sono elevati al di sopra delle pulsioni animali, operando una progressiva armonia delle parti costituenti la loro natura interiore, ascenderanno del tutto spontaneamente verso mondi di luce e gioia. Per contro, coloro che hanno scelto di vivere in modo convulso e disarmonico, sopprimendo il loro essere più vero, graviteranno in mondi privi di sole, ovvero immersi nelle tenebre dell’ignoranza e dell’incoscienza.
Da notare oltretutto il doppio senso del termine asûrya, che significa al tempo stesso senza sole e malvagio. Inoltre, nella poesia mistica vedico-upanishadica il sole, sûrya, rappresenta il mondo della conoscenza divina, come viene chiaramente indicato più avanti.
Questa mirabile Upanishad affronta con sublime stringatezza la conciliazione tra Essere e Divenire. Pertanto, dopo questi primi tre versi, in cui traccia le coordinate essenziali della propria visione del mondo, descrive la Realtà suprema nei suoi due aspetti principali: innanzitutto quello di suprema Stasi, quindi quello di suprema Dynamis — due aspetti dell’unica inscindibile Realtà.
Versi 4 & 5
anejad ekam manaso javîyo
nainad devâ âpnuvam pûrvam arshat;
tad dhâvato anyânatyeti tishthat
tasminn apo mâtarishvâ dadhâti.
«Immobile, unico, più rapido del pensiero, Quello gli stessi Dei non possono raggiungere nel suo procedere. Quello, stando fermo, supera coloro che corrono. In Quello la Madre della Vita stabilì le Acque».
tat ejati tannaijati tad dûre tadvantike,
tadantarasya sarvasya tadu sarvasyâsya bâhyatah.
«Quello si muove, eppure sta fermo; è lontano, e al tempo stesso è vicino; è all’interno di tutto questo ma è anche all’esterno di tutto questo».
L’Assoluto, il brahman, è al di là di tutto quanto si possa concepire: al di là dello spazio del tempo e della causalità. Nulla può descriverlo pienamente, nulla può limitarlo. Tuttavia, nella manifestazione assume due stati, uno statico, l’altro dinamico. Lo spazio, il tempo e la causalità sono i termini della propria manifestazione. Esso contiene in sé ogni cosa, e al tempo stesso trascende ogni cosa. Gli Dei, Poteri che l’Assoluto riveste nel divenire, ovviamente non possono essergli superiori; pur contenendoli in sé, Quello resta sempre superiore a essi e a qualsiasi Sua emanazione o manifestazione.
Il Brahman, secondo i rishi vedici, si manifesta attraverso una settuplice gradazione di principî: bhuh, bhuvah, swah, mahas, jana, tapas, satya — che in un linguaggio moderno possiamo tradurre rispettivamente con materia, vita, mente, gnosi, beatitudine, coscienza, forza, esistenza. In quest’ottica, l’Isha parla della Madre di tutte le cose viventi intenta a porre in ordine le Acque — che nel simbolismo vedico rappresentano le sette gradazioni dell’essere. «Le Acque — spiega Sri Aurobindo —, altrove chiamate le sette correnti o le sette vacche, sono un simbolo vedico utilizzato per designare i sette principî cosmici e le loro attività, tre inferiori — il fisico, il vitale e il mentale — e quattro superiori, la Verità divina, la Gioia divina, la Volontà e la Coscienza divine, e l’Esistenza divina. Su questo stesso concetto si basa l’antica idea dei sette mondi di cui i sette principî sono attivi per mezzo delle loro specifiche armonie. Pertanto Egli è l’origine, la fine e il contenitore di tutte le cose; Egli abita le forme delle proprie manifestazioni, e gode variamente delle sue mille dimore. Egli è l’Uno, l’Identico dovunque. E se ogni formazione individuale si pensa e agisce come fosse un’entità separata, differente dalle altre, è a causa di un obnubilamento nella propria coscienza esteriore, avendo temporaneamente perduto il contatto con la conoscenza e coscienza unificatrice che sta nel profondo — da essa stessa sostenuta, assieme a tutto il resto. Allorché viene realizzata tale verità in modo concreto, diventando coscienti del Sé in tutti e del Tutto, si ottiene la giusta prospettiva dell’unione di tutto nell’unico Sé, il senso della separatività perde la sua validità e con esso cade il bisogno di affermare se stesso a spese degli altri, ovvero il senso di opposizione nei confronti delle altre forme» (Isha Upanishad).
Versi 6 & 7
yastu sarvâni bhûtâni
âtmani eva anupashyati,
sarvabhûteshu câtmânam
tato na vijugupsate.
«Colui il quale, però, riconosce tutte le forme dell’esistenza nel Sé e il Sé in tutte le forme dell’esistenza, perde ogni timore».
yasmin sarvâni bhûtâni
âtmaivâbhût vijânatah,
tatra ko mohah kah shoka
ekatvam anupashyatah.
«Colui per il quale tutte le forme del divenire sono diventate il proprio Sé, colui che è pervenuto a tale conoscenza perfetta, quale sofferenza può turbarlo, scorgendo dappertutto l’unità?».
Per un simile individuo, che scorge ovunque l’unico Sé, non esiste divisione e disarmonia, giacché essendosi liberato dell’illusione di essere separato da tutto ciò che ci circonda, è in grado di scorgere l’unità dappertutto; l’ego si dissolve; la libera e inalienabile delizia dell’Uno nella propria infinita esistenza prende il posto della coppia degli opposti (raga-dvesha).
L’Assoluto non è limitato dalla propria proiezione soggettiva nelle cose e negli esseri. Così come, d’altra parte, non è soltanto un’entità impersonale astratta in cui il divenire trova spazio a guisa di un’illusione. L’Assoluto è Colui che dà origine, abita e governa l’universo, pur non essendo limitato da alcuna formula cosmica.
Verso 8
sa paryagâc chukram akâyam avranam
asnâviram shuddham apâpaviddham,
kavir manîshî paribhûh swayambhûr
yâthatathyato arthân
vyadadhâc chashvatîbhyah samâbhyah.
«Diffuso, luminoso, incorporeo, privo d’imperfezione, senza sostegni, puro, invulnerabile al male; il Vate, il Pensatore, Colui che tutto diviene, l’Esistente in sé ha ordinato le cose secondo la loro essenzialità da tempo immemoriale».
L’Upanishad insiste sul fatto che nell’esistenza vi sono due aspetti principali: da un lato, un’infinità stabilità, dall’altro, un’infinita mutevolezza, un incessante evolversi di possibilità. Essa illustra il primo aspetto come qualcosa di luminoso in sé, incorporeo, illimitato, perfetto, intoccato dai fenomeni, puro e inalterabile, senza possibilità di essere contaminato da alcunché. Se ne parla di lui come del supremo Poeta-veggente (kavi) le cui rime e i cui ritmi sono costituiti dalle armonie cosmiche, del Pensatore (manîshî) che concepisce e elabora i principî di Verità di tutte le cose manifeste, dell’Autogeno che diventa (paribhû) il Tutto autocosciente. In tal modo, i due aspetti — statico e dinamico — vengono ricondotti all’unico Essere che assume innumeri posizioni, pur essendo al di là di ognuna di esse. Da ciò ne consegue che il Moto possiede la sua verità, esattamente come la Stasi, e che il Molteplice è reale proprio come reale è l’Uno, poli opposti di una medesima globalità che la visione comprensiva abbraccia come parti di una medesima inscindibile Realtà. Ignorare o negare uno dei due aspetti significa rifiutarsi di accettare la piena realtà delle cose e, di conseguenza, farsi preda di una fondamentale Ignoranza.
Versi 9, 10 &11
andhah tamah pravishanti
ye avidyâm upâsate,
tato bhûya iva te tamo ya u vidyâyân ratâh.
«In cieche tenebre entrano coloro che seguono l’Ignoranza; in tenebre ancora maggiori coloro che cercano solo la Conoscenza».
anyadevâhur vidyayâ anyadâhur avidyaya,
iti shushruma dhîrânâm
ye nastad vicacakshire.
«Ben altro — è stato detto — giunge dalla Conoscenza, ben altro viene dall’Ignoranza. Questo abbiamo appreso dai saggi, che ci hanno rivelato ciò».
vidyâm ca avidyâm yastad vedobhayan saha,
avidyayâ mrthyum tîrtvâ
vidyayâ amrtam ashnute.
«Colui il quale conosce congiuntamente la Conoscenza e l’Ignoranza, mediante quest’ultima supera la morte, mediante la prima consegue l’immortalità».
La Conoscenza, vidyâ, è la consapevolezza dell’Assoluto, mentre l’Ignoranza, avidyâ, è la consapevolezza del relativo. Coloro che sono coscienti unicamente della molteplicità delle forme e non della loro unità fondamentale, vivono all’oscuro dei principî essenziali della realtà. Ma coloro che sono coscienti unicamente dell’Uno atempore extracosmico, e che guardano il molteplice come un’aberrazione, una allucinazione, una illusione, negando di fatto la realtà della manifestazione, entrano in una caligine ancora più densa. Come ci dice Sri Aurobindo, «coloro che si consacrano interamente al principio dell’unità indiscriminata e cercano di rigettare da sé l’integralità del Brahman, rifiutano la totalità della conoscenza e entrano in tenebre ancora più fitte. Costoro entrano in un particolare stato di coscienza e lo prendono per il tutto, scambiando tale processo di esclusione per trascendenza. Nonostante si tratti di uno stato superiore al primo, questa Notte suprema è definita come una più grande oscurità, poiché quella inferiore è nata dal caos da cui è sempre possibile ricavare un ordine, mentre quella superiore è un Vuoto, una non-esistenza (Asat), un attaccamento al non-essere da cui è più difficile ritornare alla coscienza del Sé. Conoscere in modo integrale è il vero cammino che conduce a Vidyâ» (ibidem).
Considerati nel giusto modo, i risultati della Conoscenza e dell’Ignoranza, afferma l’Upanishad, sono ambedue utili e conducono a due distinte scoperte, la cui armonizzazione giunge a vedere il Divenire come un fenomeno dell’Essere. Vidyâ e Avidyâ non sono due termini contraddittorî, bensì complementari. Realizzando la piena unità, il nodo dell’Ignoranza viene sciolto, l’individuo perde il senso di separazione e oltrepassa i ristretti limiti che generalmente imprigionano l’umana esistenza, conquistando lo stato di immortalità cosciente.
Lo stesso vale per la nascita e la cessazione delle nascite, ovvero l’accettazione della manifestazione o il ritiro da essa: anch’esse sono verità che, se prese separatamente, ci imprigionano, mentre se vengono realizzate in modo globale e inclusivo, ci conducono alla più alta coscienza.
Versi 12, 13 & 14
andham tamah pravishanti ye asambhûtim upâsate,
tato bhûya eva te tamo ya u sambhûtyâm ratâh.
«In cieche tenebre entrano coloro che inseguono la cessazione della nascita; in tenebre ancora maggiori coloro che desiderano solo la nascita».
anya devâhuh sambhavâd anyadâhur asambhavât,
iti shushruma dhiirânâm ye nastad vicacakshire.
«Ben altra cosa — è stato detto — giunge dalla nascita, ben altra dalla non-nascita. Questo abbiamo appreso dai saggi, i quali ci hanno rivelato ciò».
sambhûtim ca vinasham cha yastad vedobhayan saha,
vinâshena mrthyum tîrtvâ
sambhûtyâ amrtam ashnute.
«Colui che assieme riconosca nascita e dissoluzione, per mezzo di quest’ultima supera la morte, per mezzo della prima ottiene l’immortalità».
Con i termini sambhûti e asambhûti, nascita e non-nascita, non ci si riferisce qui a stati meramente fisici, ma a una condizione interiore di accettazione o di rifiuto dell’esistenza manifesta. Scegliendo esclusivamente la non-nascita, si rifiuta la nascita e qualunque manifestazione della coscienza, per evadere in un Nihil, un Vuoto che è assenza di tutto. D’altra parte, restare schiavi della nascita, significa vivere in modo cieco e insensato. Anche in questo caso, occorre integrare le due realtà. Il ricercatore distrugge i limiti dell’ego che lo imprigionano a una visione ristretta e soffocante e diventa spiritualmente libero, senza tuttavia rifiutare la manifestazione, la quale viene goduta in piena consapevolezza. Così facendo, il Divenire viene trasfigurato nella sua divina verità, perdendo progressivamente le sue deformazioni e facendosi manifestazione cosciente dello Spirito.
Iniziamo a questo punto a intravedere il senso di questa Upanishad. Il verso di apertura afferma che questo universo è governato dall’unico Essere che tutto abita. L’oggetto di tale manifestazione cosmica è il puro godimento dell’Uno in tutte le sue innumerevoli frazioni, tutte quante riconducibili a Lui. E, per fare ciò, occorre liberarsi dal senso deformante dell’ego, che rende i divenire del Sé dimentichi della loro divina origine e, di conseguenza, preda della divisione, dell’inconsapevolezza, del dolore. Quanti non compiono tale operazione di sostituzione dell’ego con il loro vero sé, vivono nelle tenebre dell’ignoranza, in una coscienza divisa e oscurata. E coloro che, all’estremo opposto, si fondono nella Stasi rigettando il Molteplice, entrano anch’essi in una tenebra assai più perniciosa, seppure consolatoria e affrancatrice dalle umane vessazioni gravanti su chi vive nell’ignoranza. Quanti invece comprendono la propria essenza e non la vedono disgiunta dall’essenza di tutto, integralmente coscienti dell’Essere unico, accolgono in sé il Divenire e si fanno strumenti per la fondazione di una VITA DIVINA sulla terra. Liberi dal ciclo delle rinascite, accettano la nascita per svelare dappertutto l’immortalità cosciente e la Gioia ineffabile dello Spirito.
Per giungere a un simile compimento, per realizzare la Meta della Beatitudine divina, l’Upanishad invoca gli Dei, poteri operanti dell’unico Divino, preposti a aiutare l’uomo in tale impresa, guardiani dell’immortalità. Anzitutto viene invocato Surya, il dio della Luce, quindi Agni, il dio della Volontà divina e dell’azione perfetta.
Versi 15 & 16
hiranmayena pâtrena
satyasyâpihitam mukham,
tat tvam pûshann apâvrnu
satyadharmâya drshtaye.
«Da un Velo d’oro il volto del Vero è celato. Sollevalo tu, o Pushan, per la legge della Verità e della visione».
puhsannekarshe yama sûrya prâjâpatya
vhyûha rashmîn samûha tejo,
yat te rûpam kalyânatamam tat te pashyâmi
yo asâvasau purushah so aham asmi.
«Supremo Evolutore, unico Rishi, Rettore, Sole illuminatore, Potere del Padre delle creature, ordina e disponi i raggi della tua Luce. Lo Splendore, che è la tua forma più bella, è ciò che di te io contemplo. Quel Purusha che è qui e dappertutto, io sono».
«Nel senso interiore dei Veda, Surya, il dio-Sole, rappresenta l’illuminazione divina del kavi che supera la mente e dà forma alla pura e auto-luminosa Verità delle cose. Il suo potere principale è conoscenza auto-rivelatoria, che nei Veda è definita ‘vista’ (drishti). Il suo regno è quello del Vero, del Vasto, dell’Esatto (satyam rtam brhat). Egli è il Nutritore o l’Accrescitore, in quanto colma e trasporta l’essere oscuro e limitato dell’uomo in una coscienza infinita e luminosa. Egli è il solo Veggente, Colui che vede l’unità, conoscitore del Sé, e che ci conduce alla più alta Visione. È Yama, colui che controlla o che ordina, poiché governa l’azione dell’uomo e manifesta l’essere in virtù della spontanea legge di Verità, satyadharma, e del giusto principio della nostra natura, yathatathyatah — un potere luminoso che proviene dal Padre di tutte le esistenze, che rivela in se stesso il Purusha divino di cui tutti gli esseri sono manifestazioni. I suoi raggi sono i pensieri luminosi che si irradiano dalla Verità, dal Vasto, ma che nella coscienza generatrice della divisione (ovvero nella mente) diventano riflessi e distorti, interrotti e caotici, dando forma al velo d’oro che copre la faccia della Verità. Il veggente prega Surya di rimuovere tale velo e rendere visibile il giusto ordine e l’esatta relazione, conducendole nell’unità della verità disvelata. Il risultato di tale processo interiore consiste nella percezione dell’unità di tutti gli esseri nell’Anima universale. […] Questa è la più divina forma di Surya. È la suprema Luce, la suprema Volontà, la suprema Delizia d’esistere. Questo è il Signore, il Purusha, l’Essere auto-cosciente. Quando riceviamo una simile visione, otteniamo la conoscenza integrale di sé, giungendo all’upanishadico so’ham (“io sono Lui”). Il Purusha che è qui e dappertutto, io sono» (Sri Aurobindo, ibidem).
Versi 17 & 18
vâyuranilam amrtam athedam
bhasmântam sharîram,
om krato smara krtam smara
krato smara krtam smara.
«O Energia vitale dell’universo, Soffio immortale, questo corpo tuttavia finisce in cenere! Quindi, o Potenza, ricorda ciò che è stato compiuto, ricorda. OM».
agne naya supathâ râye
asmân vishvâni deva vayunâni vidvân,
yuyodhyasamaj juhurânameno
bhûyishthâm te namauktim vidhema.
«O Agni, guidaci nel giusto sentiero della felicità, tu che conosci tutte le cose manifeste. Allontana da noi la distrazione che distoglie dal vero scopo. Per te offriamo la nostra più grande parola di sommissione».
Mediante l’intervento di Surya, la mente umana perviene alla illuminazione. Ma la conoscenza, da sola, non è sufficiente. È necessario un elevarsi, un ampliarsi e un approfondirsi delle facoltà volitive e dell’azione. Anch’esse devono essere liberate dai limiti cui sono sottoposte. Similmente, il corpo, la struttura fisica dell’uomo, è assediato dai limiti, ed è attualmente soggetto alla morte. Ciò nonostante, esiste un potere attivo anche nel corpo e nel dinamismo delle energie vitali, che è fondamentalmente immortale. Manifestare sempre più tale principio vitale è il compito di Vayu, il dio della Vita (detto anche Matarishwan nel quarto verso) — tale concetto viene qui ricordato in forma di preghiera, esprimente una sorta di speranza che un giorno tutti questi sforzi possano trovare il loro coronamento nel raggiungimento di una immortalità cosciente in un corpo fisico senza morte.
Qualunque siano i moventi apparenti che dirigono l’azione universale, esiste una segreta Volontà, un Potere divino, che la dirigono. Questo rappresenta kratu, la Volontà divina che elabora il proprio disegno universale nonostante tutto, utilizzando tutte le resistenze per stabilire la vasta fondazione della Verità eterna. Nell’intreccio caotico dell’umana vita, Egli vede la Via, e aiuta l’uomo a percorrerla.
«C’è una strada diretta che procede in modo naturale verso la luce e la verità, rjuh pantha, ritasya pantha, conducente a infiniti livelli e infinite distese, vitâni, prsthâni, ove la nostra natura trova il suo compimento. Il veggente invoca l’aiuto di Agni per oltrepassare le proprie deficienze e a tale fine offre “la più completa sommissione e il dono di sé” di tutte le facoltà della inferiore natura umana egoistica alla Volontà-Forza divina, Agni, affinché possa essere liberato da contrasti interni e l’anima dell’uomo possa essere condotta attraverso la verità a una felicità piena di ricchezza spirituale, râye» (Sri Aurobindo, ibidem).
Pertanto, questo verso finale non rappresenta la preghiera che l’uomo pronuncia nel momento di morire (come taluni hanno ipotizzato), ma è la potente invocazione del rishi che, giunto al culmine di un’ascesa nei dominî spirituali, chiede l’intervento divino affinché possa eliminare in lui l’ultima barriera ostruttiva in modo da immergersi pienamente nella Luce di Verità che conduce l’aspirante verso la meta dell’immortalità cosciente, qui sulla terra, in un corpo fisico, realizzando così il Disegno di un divino connubio tra Materia e Spirito.