(a cura della redazione di arianuova.org)
La globalizzazione è un processo antico quanto l’uomo. Da sempre, infatti, i varî popoli della terra hanno cercato di conoscersi e studiarsi reciprocamente, e gli interscambi (anche di natura commerciale) che ne sono nati hanno contribuito ad arricchire notevolmente la civiltà umana nel suo complesso. L’antica civiltà greco-romana avrebbe molto da dirci in proposito. Oggi viviamo in un’èra in cui le applicazioni tecnologiche di alcune scoperte scientifiche hanno notevolmente diminuito le distanze tra i varî popoli della terra, ed è pertanto ovvio che il fenomeno della globalizzazione è destinato ad aumentare sensibilmente. Purtroppo però, la crescita della conoscenza del mondo esterno e di alcuni meccanismi della natura, non hanno incontrato una uguale crescita della conoscenza del mondo interiore e dei meccanismi che muovono la nostra umana natura, sicché l’essere umano è rimasto sostanzialmente primitivo nella sua coscienza — dominato in gran parte da un ego desideroso di accumulare per se stesso (o meglio, per la limitatissima esperienza che ha di se stesso) e sfruttare le altre creature (che egli crede essere altre da lui) —, mentre dall’altro lato dispone di mezzi tecnologici che gli permettono di operare drastici cambiamenti nel pianeta in cui vive. È questa infatti la tragedia che si sta rappresentando di continuo su questo piccolo pianeta azzurro negli ultimi millennî. Nel passato, ciò ha reso puntualmente inefficace ogni tentativo di cambiare il mondo: la rivoluzione comunista è fallita miseramente, poiché la classe dirigente (dominata, come ogni essere umano, da quell’egoismo che è la forma pervertita del nostro vero essere, la sua deformazione ignorante) ha voluto profittare della situazione, trasformando quell’utopia in una tremenda macchina stritolatrice delle masse che quel sistema economico voleva in origine sollevare e liberare; similmente, in campo religioso, il cristianesimo è fallito clamorosamente, poiché la classe dominante (in questo caso, le autorità ecclesiastiche, anch’esse sotto il totale dominio dell’ego e dei più barbari istinti di predominio) ha esercitato un potere di oppressione e di intolleranza di inaudita violenza, che ha avuto un suo pari solo nel delirio nazista (le differenze non stanno tanto nelle impressionanti cifre di vite umane che i due dispotismi hanno mietuto, quanto nei tempi di attuazione, brevissimi nel caso del nazismo, più lenti nella storia del cristianesimo).
Oggi, mutato lo scenario, si recita la sempiterna tragedia (o tragicommedia, che dir si voglia). Siamo sempre meno disposti a sottometterci a dittature palesi, o a dogmi irrazionali dettati da una qualche istituzione monarchica di stampo religioso. La globalizzazione rischia così di diventare, nel mondo contemporaneo, il pretesto di pochissimi individui particolarmente cinici e perversi, per dominare e sfruttare i molti esseri umani costretti a vivere in condizioni di sfruttamento più o meno eclatante.
Oggi, i cosiddetti “padroni del mondo”, i global leaders, sono i rappresentanti di 200 multinazionali che concentrano nelle loro mani un’oscura commistione di denaro e potere politico. Ogni anno si incontrano a Davos (in Svizzera — da qui il Club di Davos), con l’intenzione di “pianificare l’avvenire del mondo” (poveri illusi). Essi poggiano il loro sistema di sfruttamento su sei pilastri fondamentali:
1. Mondializzazione: bisogna adattarsi alla mondializzazione attuale dei capitali, dei mercati, delle imprese.
2. Innovazione tecnologica: occorre introdurre continue innovazioni al fine di ridurre i costi, poiché fermarsi nella corsa dell’innovazione tecnologica sarebbe fatale.
3. Liberalizzazione: esigere l’apertura totale dei mercati, affinché il mondo diventi un solo mercato.
4. Deregolamentazione: conferire sempre più potere al mercato, in modo da non permettere allo Stato di fissare le regole dell’economia.
5. Privatizzazione: eliminare ogni forma di proprietà pubblica, di servizio pubblico; lasciare che l’impresa privata governi la società.
6. Competitività: essere il più competitivo per diventare il migliore, il leader, il vincente.
Questi pilastri, unitamente all’intrecciarsi di alcuni eventi politico-economici quali la transnazionalizzazione delle imprese, il fallimento dell’economia pianificata (comunismo), l’affievolirsi, in occidente, dei controlli statali sugli operatori economici, il predominio della finanza sull’economia, hanno determinato in pochi decenni risultati disastrosi (per l’umanità, non certo per questo manipolo di potenti); basti pensare al fatto che i primi 358 multimiliardari possiedono una ricchezza superiore a quella del 45% della popolazione più povera del pianeta, cioè di oltre due miliardi di persone costrette a crepare di fame per colpa dell’insensata avidità di pochissimi!
Le società multinazionali, poche centinaia all’inizio degli anni Settanta, oggi sono più di 40.000, gestiscono 250.000 società e controllano il 33% del Prodotto Interno Lordo (PIL) mondiale.
Le 200 multinazionali più grandi del mondo si concentrano in 12 Paesi: 66 negli Stati Uniti d’America; 52 in Giappone; 21 in Germania; 17 in Francia; 14 in Inghilterra; 5 in Italia. Il 75% del commercio mondiale è controllato dalle società multinazionali o dalle loro filiali. L’Europa, gli Stati Uniti e il Giappone, pur costituendo appena il 20% dell’umanità, controllano il 90% delle spese e posseggono l’82,7% della ricchezza complessiva del globo. Nel 1994 il rapporto tra il 20% della popolazione più ricca su scala mondiale e quello del 20% della popolazione più povera era di 78 a 1, ben trenta volte più elevato del 1960!
Ma non è tutto. Le stesse popolazioni dei cosiddetti paesi ricchi diventano sempre più povere, proprio a causa di questa forma di economia selvaggia. I ricchi che controllano la politica e l’economia sono finora riusciti a far credere agli abitanti dei paesi altamente industrializzati che questa loro declamata globalizzazione (che è in realtà solo una pseudo-globalizzazione, così come gli attuali sistemi democratici sono soltanto una pseudo-democrazia, giacché sono i poteri forti che, detenendo e manipolando i mezzi massmediatici, controllano e determinano le scelte delle masse) potrà risolvere la disoccupazione e la recessione, permettendo a tutti quanti di godere del benessere generato dalla mondializzazione. La realtà dei fatti dice esattamente l’opposto: tra il 1977 e il 1992 la produttività media dei lavoratori negli U.S.A. è cresciuta del 30%, ma il salario medio reale è diminuito del 13%. A partire dagli anni ’80 in Europa la disoccupazione ha fatto un balzo impressionante: oggi conta 37 milioni di poveri e 5 milioni di senza casa; in Italia la povertà è passata del 6,3% nel 1993 al 7,3% nel 1995 al 7,5% nel 1997. Tra il 1993 e il 1995 la distanza tra minimo vitale e tenore di vita medio si è ulteriormente divaricata, dando visibilità ai lavoratori poveri.
Il reddito dei poveri dei paesi industrializzati continua a diminuire, soprattutto il reddito proveniente da lavoro non qualificato; la disoccupazione aumenta e con essa cresce la povertà; i ricchi, da un giorno all’altro, possono decidere di delocalizzare le loro imprese per inseguire i migliori profitti, creando povertà nei loro paesi e sfruttamento nei territori ove vanno a collocarle; per rimanere nei paesi in cui sono nate, tali imprese esigono sempre maggiori incentivi ed esenzioni fiscali, ma creano sempre meno posti di lavoro. E il lavoro stesso viene sempre più considerato alla stregua di una merce qualsiasi, ove il lavoratore si trova con sempre meno soldi, meno diritti e meno tutele. In Italia, per fare un esempio che ci riguarda da vicino, mentre scriviamo è entrata in vigore la Legge 30, (approvata dal Consiglio dei Ministri il 31 luglio scorso) che introduce massivamente provvisorietà e incertezza nel mondo del lavoro (qualcuno ha maliziosamente fatto notare che il cosiddetto “Libro bianco” di Maroni si chiama così proprio perché fa tabula rasa di tutti i diritti dei lavoratori).
Ovviamente, questo tipo di sistema è un gigante con i piedi d’argilla, destinato a crollare a causa della sua stessa abnorme proporzione — mole ruet sua. La contraddizione più palese di questa novella forma di totalitarismo economico, è che i grandi poteri hanno bisogno di un numero sempre maggiore di consumatori da un lato, e di un numero di produttori sempre minore dall’altro. Viene da chiedersi pertanto chi comprerà quanto viene prodotto su scala sempre maggiore. Insomma, le ricerche spaziali stanno conoscendo un nuovo periodo d’oro: si stanno cercando potenziali acquirenti su Nettuno e nelle galassie a noi più vicine. La globalizzazione da planetaria si farà universale, coronando i sogni (incubi?) di Asimov, a maggior gloria del Dio monostatico — e dei suoi eletti (o ‘unti’) che ridurranno la terra in un deserto di cemento (armato, s’intende), in cui ogni essere umano potrà finalmente contemplare cieli di plastilina e liberarsi così dalle pesanti vessazioni di questa penosa valle di lacrime.
A meno che gli dèi, da eterni iconoclasti e disturbatori della quiete pubblica, non abbiano altri propositi e mandino all’aria, come sempre, i mirabili propositi dell’uomo — o la sua ancor più mirabile incapacità di reagire e ribellarsi.
Settembre 2003