di Jacopo Fo
(ringraziamo la redazione del sito alcatraz.it
per averci permesso di pubblicare il presente articolo,
tratto dal “DarioFo&FrancaRame News”).
Ormai sono vicino ai cinquant’anni. Età quasi venerabile per chi ha seppellito tanti compagni, stroncati da malattie, proiettili, pazzia, siringhe, carceri.
Sono vecchio per quante ne ho viste da quando a 11 anni iniziai a vendere l'Unità tutte le mattine sulla spiaggia di Cesenatico e mi guadagnai così il diritto di iscrivermi alla Federazione Giovanile Comunista prima dei 12 anni.
Sono 36 anni che vivo aspettando il Mondo Nuovo, quello umano. All’inizio pensavo sarebbero bastati pochi mesi. Quelli più grandi di me sembrava avessero capito tutto e nei cortei urlavano: “Fascisti, borghesi, ancora pochi mesi!” e io ci credevo.
Continuai a crederci fino al 1974. Ormai solo uno stupido poteva continuare a pensare che la società futura, in ritardo di almeno 5 anni rispetto ai pronostici dei cortei, sarebbe veramente arrivata di lì a poco. Così iniziai a pensare che, forse, ci avremmo messo un decennio a costruire un mondo decente.
Iniziai, come molti altri, a darmi un programma sui tempi lunghi: lavorare sulla cultura. Solo cambiando la cultura della gente si poteva rendere possibile la nascita di una società diversa. Non si può costruire una società nuova usando gli schemi mentali che hanno creato quella vecchia: in quegli anni si iniziò a parlare di rivoluzione delle coscienze, femminismo, yoga, controcultura, arte, sessualità, omosessualità, ideologia del macho latino, parto dolce, educazione alla creatività, emozioni, psiche collettiva e potere, autoimpresa come forma di liberazione dal lavoro salariato. Abbandonai il mio posto da commissario politico della nascente armata rossa e iniziai a fare fumetti professionalmente, a scrivere e, più tardi, collaborai alla fondazione di Alcatraz. Ci serviva una libera università, un territorio, un’area protetta dove temprare nuove idee e formare persone e modi di pensare diversi. E il primo obiettivo era riuscire a ricreare noi stessi perché ci rendevamo conto che così come eravamo, imbevuti di ideologia patriarcale, non potevamo combinare niente di buono.
Ero sicuro che in una decina di anni avremmo potuto dar vita a un vortice di idee che si sarebbe unito con i vortici emessi da centinaia di altre comunità alternative nel mondo, e che avrebbe creato un fenomeno di sinergia a livello mondiale. Era il 1981. In realtà sono passati 20 anni prima che si riuscisse a vedere, di nuovo, il Movimento tornare a essere percepibile a livello planetario.
E valeva la pena di aspettare tanto perché non s’erano mai visti, in tutta la storia del mondo, 100 milioni di persone manifestare per la pace nei 5 continenti.
Ma quel che si è realizzato, seppur stupendo, non è nulla rispetto a quanto avevamo sognato quando, con dieci gradi sotto zero e senza riscaldamento, ci eravamo messi a intonacare i muri, riparare i tetti e costruire, con pala e cazzuola, quello che per noi sarebbe diventato un avamposto della Rivoluzione Planetaria delle Coscienze.
E ora sono qua, e mi interrogo su cosa succederà adesso: il movimento è già in fase calante? Oppure è una pausa prima di un altro terremoto ideale?
Che possibilità abbiamo di vedere veramente un cambiamento del mondo durante la nostra vita? Sono quasi 40 anni che soffro per la mia impotenza di fronte alla violenza, all’ignoranza e alla fame.
Se si calcola una media di 30 milioni di morti all’anno per guerre e miseria, nell’arco della mia vita politica sono state ammazzate quasi un 1 miliardo di persone. E io cosa sono riuscito a fare? Davanti a questo massacro immane (immane, immane, immane) che cosa ho fatto io?
Hanno avuto un senso tutti i cortei, le botte con la polizia, i processi? Tutte le tonnellate di carta che abbiamo distribuito, le migliaia di ore di corsi, spettacoli. Tutto questo discutere, studiare, progettare. Anni passati a piantare alberi, costruire case e strade, alleanze, organizzazioni...
E così, mi ritrovo a 48 anni a leggere i testi dei filosofi, quei pochi che hanno affrontato l’arduo tema della disperazione: come puoi credere che esista un Dio o anche solo un principio positivo nel mondo dopo Auschwitz? Come puoi credere a qualche cosa dopo il Vietnam, la Cambogia, il Ruanda, l’Iraq, la Jugoslavia, il Congo, l’Afghanistan?
Dopo tutto questo schifo, questo assurdo, cieco, stupido, tripudio di violenza, di giornalisti venduti, di facce di culo televisive disposte a raccontare qualunque (qualunque) cosa.
E mi chiedo se forse il nostro destino sia quello di non vincere mai, di dover sopportare tutto questo orrore senza poterlo mai veramente lenire.
Non lo so. Non sono Dio e neanche un suo lontano parente. Non posso dire.
Ma, spero che tutto questo lavoro di migliaia di sinceri esseri umani dotati di pietà, che da millennî si battono contro il male sia riuscito, almeno, a salvare un solo essere umano.
Uno solo sarebbe sufficiente per farmi dire: ne è valsa la pena.
Ma, detto ciò, decido in questo momento di scindere il mio percorso da quello di quanti si sentono in grado di salvare il mondo di qui a poco. L’immenso esercito dei massimalisti, i miei fratelli e le mie sorelle che mossi dai sentimenti più puri, vogliono tracciare una linea tra loro e il male. Non essere più complici in nessun modo di questo scempio alla sacralità della vita.
No, il mio obiettivo non è uscirne assolto. Non è quello di separarmi dai malvagi (come?). Ma sapere che il mio sforzo è servito a contribuire a salvare almeno una vita. Una vita sola. Io continuerò a lottare per tutto il tempo che mi resta solo per questo. Perché è l’unica cosa che potrà essere ascritta alla mia vita. Poi credo che dandosi un punto di vista modesto (piccolo) sulla propria possibilità di lenire il dolore del mondo sia possibile, forse, arrivare a costruire un Mondo Migliore, lo spero. Ma credo che l’unica via sia camminare cercando di salvare l’umanità una vita per volta. Una vita, tutti assieme, possiamo salvarla. E se ci riusciremo, il giorno dopo diremo: “Coraggio fratelli, una vita l’abbiamo salvata. Ne è valsa la pena. Una vita l’abbiamo salvata. Se continuamo possiamo forse salvarne una seconda”.
Capisci la differenza di prospettiva? Chi vuol salvare tutti subito compie il terribile peccato di sopravvalutarsi. E sopravvalutarsi quando c’è in gioco la vita umana è un errore mortale. Se vuoi salvare una vita sola tutto diventa essenziale. Se vuoi salvare 6 miliardi di vite perderne una è un aspetto secondario. Una, dieci, dieci milioni? Che importa?
Il mio obiettivo è salvare una vita. Una vita 6 miliardi di volte. Lo so che sembro un po' pazzo con questo discorso. Ma è molto semplice e molto importante.
Io do per scontato che fra dieci anni ancora esisterà l’Impero Americano. Non mi pongo l’obiettivo di abbatterlo. Mi piacerebbe che l’Impero sparisse ma ho notato che è piuttosto solido. Mi concentro perciò nello studiare tutte le contraddizioni del sistema. Non inizio a marciare verso un obiettivo impossibile. Metto tutto il mio peso nello sforzo di aprire un piccolo spazio da qualche parte, riuscire a sviluppare l’azione e poi cercare un altro obiettivo concreto che mi permetta di arginare ulteriormente la violenza del sistema. Guarda la storia di tutte le azioni concrete che hanno portato alla salvezza, almeno momentanea, di un essere umano.
Durante il nazismo molti tedeschi, italiani, austriaci, slavi, si sono opposti allo sterminio di ebrei, russi, serbi, zingari e omosessuali. Hanno dichiarato il loro orrore, chiesto la fine del nazismo.
Sono quindi stati arrestati e uccisi. Oppure sono dovuti fuggire oltre i confini operativi della macchina repressiva nazista. Quanto quest’azione eroica ha arginato realmente il nazismo?
Altri hanno deciso di stare zitti, di stare al gioco e di mettere tutte le proprie energie al servizio del tentativo di salvare un solo perseguitato. Alcuni ci sono riusciti.
Ma alcuni potrebbero accusarli di connivenza con il nazismo.
Mio nonno, che non so perché non è annoverato tra i Giusti di Israele, era un socialista. Ma aveva anche la tessera del Partito Fascista. Lui nascondeva ebrei e prigionieri inglesi fuggiaschi dentro i cassoni della sabbia che sui treni serviva per frenare. Era un po' un casino viaggiare fino in Svizzera senza freni ma salvare un ebreo era meglio. Ed era anche un problema accettare tutti i rituali del potere fascista per non perdere il posto di Capo Stazione che gli garantiva la possibilità di gestire l’organizzazione clandestina delle fughe e contemporaneamente mantenere vivi moglie e tre figli e il cognato nascosto in qualche sottotetto perché era ricercato dalla Gestapo.
Quello che, con molta difficoltà, sto cercando di dire è che se tu pensi di vincere il male entro pochi anni scegli una strategia diversa da quella che sceglieresti se il tuo obiettivo fosse “soltanto” quello di salvare OGGI una vita umana.
Se il movimento abbandonasse il massimalismo di chi si sente vincente “entro pochi anni” potrebbe guardare ai bastioni del potere con occhi diversi. Se non puoi abbattere un muro a cannonate puoi forse iniziare a eroderlo. Ogni volta che passi graffi il muro con un chiodo. È un lavoro che richiede millennî. Per questo bisogna iniziare subito.
La storia ci insegna che dentro il nazismo c’erano migliaia di nazisti, a volte persino convinti, che operavano a rischio della vita per porre un limite all’orrore.
Non evitarono che l’orrore esistesse. Ma riuscirono a rendere meno agghiacciante il bilancio delle vittime. Di poco, certo, ma conta anche una sola vita, anche un solo minuto di una sola vita.
Mio padre fu salvato da un colonnello dell’esercito fascista, affascinato dalla sua capacità di dipingere ritratti e da un podestà fascista, che quando mia nonna gli disse: “Nascondi mio figlio!” non seppe dire di no.
Quello che farò domani è andare da McDonald. Non comprerò un solo panino. Ma voglio trovare il modo di far sapere agli Schindler che lavorano là dentro, che so che ci sono e so che stanno arginando il dolore anche meglio di quanto riesca a fare io da fuori. Se questa gente non operasse dall’interno arginando la follia del profitto ad ogni costo forse le multinazionali dei panini avrebbero già fatta loro la “Modesta Proposta” di Jonathan Swift e iniziato a vendere sandwich di carne umana di extracomunitario.
Insomma non mi basta più fare cose giuste. Voglio contribuire a realizzare delle iniziative che funzionino.
Ma farlo è difficile. Si rischia di sbagliare. Di superare la linea gialla tra il bene e il male.
Sicuramente chi vuole tutto o niente, chi si preoccupa di mobilitare il popolo per battaglie giuste senza chiedersi se si otterrà un vero risultato, non corre il rischio di superare il confine della morale. E non si sentirà mai obbligato a fare autocritica. “Manifestare a Genova era giusto, non è colpa mia se ci hanno massacrato”, “Il referendum era giusto. Non è colpa mia se abbiamo perduto”.
La mia linea gialla della morale passa per un altro posto. Il luogo dove si giudicano le azioni per il loro effetto. Quando un compagno viene ucciso e centinaia finiscono all’ospedale non hai ottenuto un buon risultato. Quando muovi 11 milioni di italiani e fai spendere decine di miliardi allo stato per un referendum e lo perdi non hai ottenuto un buon risultato.
Le vie di Dio (o di chi per lui si occupa della questione “Genere Umano”) sono misteriose e incasinate. A volte è difficile capire cosa è giusto fare, a volte bisogna scegliere solo il migliore tra due errori. Che poi c’è da dire che è raro, nella vita terrena di chi non è unto da qualche autorità extraumana, vivere senza sbagliare. L’essere umano procede per errori.
La nostra mente cerca alla cieca la strada giusta. Continui a tastare il muro e non consideri ogni tastata (ogni errore) una perdita ma l’unica via per trovare la porta. Se vuoi trovare la porta e sei cieco DEVI tastare il muro, non importa che ogni singola tastata sia di per sé un errore, importa che alla fine del “processo cognitivo” tu abbia trovato la porta.
Possiamo affrontare positivamente errori e scelte difficili, dobbiamo temere solo di non concludere niente.
Se procedi sulla via delle piccole vittorie otterrai che le persone acquistino fiducia e voglia di impegnarsi. E quando hai ottenuto un piccolo risultato concreto, nonostante lo strapotere dell’Impero, ti entusiasmi e ti viene voglia di festeggiare. E le feste attirano più gente dei funerali.
Guardate bene che cosa stanno facendo i leader della sinistra e molti degli stessi leader del Movimento: stanno annegando la voglia di lottare e impegnarsi per un mondo migliore in un lago di lacrime di delusione e di amarezza.
Continuano a proporre iniziative esteriori che non cambiano niente concretamente. Non hanno idee, non hanno progetti da realizzare. Conoscono solo la ripetizione nevrotica del rito delle adunate...
Ci ammazzano di noia e inconcludenza.
In effetti un Movimento morto va bene a tutti i leader. Il Movimento si dirige meglio quando è catatonico. I movimenti vivi sono imprevedibili e tutti si sentono leader di se stessi.
Non a caso nessun grande leader si è mai impegnato nel settore della consociazione degli acquisti, delle convenzioni e del commercio equo e solidale. Lì si rischia di ottenere dei risultati piccoli ma immediati.
E poi magari la gente si monta la testa.
PS: Gabriella mi ha fatto notare che questo discorso potrebbe essere confuso con la vetusta filosofia del fine che giustifica i mezzi. Ma è proprio il contrario. I potenti ci spiegano che se devo uccidere un bambino per salvarne diecimila ciò è giusto e umanitario. Ma se ragioni per salvare un solo essere umano per volta questo discorso non ha senso. Non ti può venire in mente di uccidere un bambino per salvarne un altro.
Giugno 2003