di Giacomo Colomba
A cavallo degli anni settanta si sviluppò in seno a una giovane scienza come l’antropologia un nuovo modo di vedere e affrontare l’umanità, l’universo e la realtà. Un acceso interesse verso una nuova maniera di concepire i vari aspetti dell’esistenza (che vanno dall’analisi della composizione dell’universo allo studio della psicologia sociale umana) trovò terreno fertile nelle menti di scienziati e scrittori non ottusamente timorati dall’ortodossia scientifica.
In quegli anni numerosi studi di antropologia misero sotto una luce di necessaria obiettività un fenomeno noto come etnocentrismo, variante più superficiale (e spesso più letale) dell'antropocentrismo. Come spinti da un unico movente, vari ricercatori analizzarono impietosamente tale fenomeno senza stabilire gerarchie tra le civiltà, avendo come scopo quello di evidenziare le cause submentali e gli effetti spesso devastanti dell'etnocentrismo.
«La stragrande maggioranza degli americani è stata educata con una logica omogeneistica, e di conseguenza per un americano è ‘logico’ supporre che deve esserci una formula universale valida e funzionale per tutti e che quello che è funzionale per un americano deve esserlo per chiunque altro. È questa la base logica dell’etnocentrismo… La logica occidentale considera l’eterogeneità una possibile causa di conflitti. Ma considerate il seguente ragionamento: gli animali convertono l’ossigeno in biossido di carbonio e le piante convertono il biossido di carbonio in ossigeno. Compiono esattamente l’operazione opposta ma non sono in conflitto. Al contrario, si integrano e hanno bisogno gli uni degli altri. L’eterogeneità inoltre permette la diversificazione delle esigenze di risorse energetiche. Se tutti gli animali si nutrissero con gli stessi alimenti, si avrebbe una diminuzione o una rarefazione degli alimenti e di conseguenza un conflitto. I Mandeva sostengono che l’omogeneità e non l’eterogeneità è più spesso causa di conflitti. Se la gente, dicono, è costretta a comportarsi in un modo uniforme, l’unico modo per riuscire a differenziarsi è di creare una gerarchia verticale, cercando di subordinare gli altri…
Gli occidentali, poi, si preoccupano spesso di chi ha ragione e chi ha torto quando ci sono delle differenze. Riflettete un attimo su questo ragionamento: i due occhi di una persona forniscono due immagini leggermente diverse dello stesso oggetto. Vi potete chiedere quale immagine sia giusta e quale sbagliata. La differenza tra le due immagini non costituisce un problema. Al contrario, è utile. Ogni immagine ha due dimensioni, ma l'elemento di differenziazione tra le due immagini permette al cervello di calcolare la terza dimensione che è invisibile.
Questa tendenza psicologica… di tentare di dipendere da una sola verità, da una sola teoria o da una sola soluzione valida sembra doversi considerare alla base… dell'etnocentrismo» (Magoroh Maruyama, Civiltà oltre la terra).
Molti di questi ricercatori mettono in evidenza la barbarie etnocentrica: «Gli americani non sono esenti da colpe nel genocidio programmato di alcune tribù brasiliane: l’autostrada in corso di costruzione nella foresta amazzonica è finanziata in parte con dollari statunitensi ed è servita per giustificare lo sterminio di migliaia di nativi. […] Si può prendere in esame ad esempio il caso della Peaboby Coal Company, un’impresa mineraria attualmente a lavoro sulla Black Mesa dell’Arizona, una mesa sacra al culto e alla religione degli Hopi e dei Navajos. Nella zona si stanno ‘recuperando’ soltanto oggetti importanti per la nostra cultura, i nostri studi, che ai nostri occhi hanno valore di reperti, mentre si distrugge irrimediabilmente un elemento della massima importanza per i popoli che si vorrebbero «recuperare’» (Barbrara D. Moskoviz,Civiltà oltre la terra). «I primi coloni bianchi classificarono gli aborigeni australiani come un altro animale, abnorme o nel migliore dei casi subumano. Quando ritennero che stessero popolando eccessivamente alcune regioni usarono la stessa tecnica che gli americani usano oggi con i coyote: cibo corretto all'arsenico» (Mary Oberthur, Civiltà oltre la terra). Tuttavia la barbarie etnocentrica si è manifestata anche in aspetti molto più subdoli ma non meno devastanti (e ci sembra purtroppo un esercizio in voga anche oggigiorno), come il tacciare automaticamente d’idolatria e superstizione un comportamento spirituale differente da quello religioso; reputare immorali e impudiche le strutture familiari non conformi al modello occidentale, e mille altri esempi. Uno su tutti: gli occidentali criticano agli orientali il fatto di non rispettare le donne e coprirle da capo a piedi, gli orientali per contro criticano agli occidentali di spogliarle e di non rispettarle a loro volta. È evidente che in entrambi i casi si esaspera un unico aspetto (purezza e libertà) senza mai fare il vero bene della donna, privata in un caso di libertà ed emancipazione, nell’altro di dignità e naturalezza.
Questi lampi di limpida obiettività che attraversavano le accademie d’Europa e d’America furono sepolti (ahimè) sotto i colpi di irrazionali vampate di nazionalismo e patriottismo, flussi e riflussi di conservatorismo e una granitica tendenza a gerarchizzare i modelli di civiltà. L'ortodossia scientifica, tronfia badessa del fissismo, e autoelettasi massimo giudice della realtà, ostracizzò impunemente ogni ricercatore che assecondasse questa visione obbiettiva dell’etnocentrismo politico, scientifico e religioso, ridicolizzando il loro lavoro e seppellendolo sotto la coltre dell’indifferenza.
Ma questa nuova visione che fece vacillare l’idea dell'uomo al centro dell’universo stimolò parallelamente molti ricercatori insoddisfatti della visione newton-cartesiana dell’universo e della visione freudiana dell’uomo che, spingendo agli estremi l’analisi dell’antropocentrismo, dettero vita a nuove branche di filosofia, fisica, psicologia, biologia e neurologia quali l’esoantropologia, esobiologia, anomalistica, onirologia, criptestesia, fisica olografica ecc.
L’esoantropologia e l’esobiologia riguardano lo studio delle forme di coscienza, di società e di vita non umane. Non solo la sfera animale (etologia) e vegetale, ma anche le ipotetiche coscienze che esulano dalla comune percezione di tempo e di spazio, considerando il reame umanamente percettibile della realtà come un settore inscritto nella vastità della “sfera iperstorica” (realtà a più dimensioni con un tempo pluridimensionale con discontinuità di ritmo e reversibilità di direzione). Gli esoantropologi e gli esobiologi si propongono di studiare le ipotetiche coscienze che coabitano la realtà e le modalità di un ipotetico contatto con entità non umane nella struttura formale o sostanziale, ovvero che vivono e agiscono spinti da motivazioni non mentali, giungendo così verso nuove e più ampie concezioni di coscienza e intelligenza, attributi non limitabili alla nostra idea di esse e non forzatamente assenti ove mancassero gli elementi coi quali si manifestano nell’uomo. Purtroppo molti aspiranti esoantropologi e esobiologi sono stati derisi e ignorati nei loro stessi ambienti di ricerca, divenendo così ex-antropologi e ex-biologi come faceva notare umoristicamente Roger Wescott, uno dei padri di queste scienze.
L’anomalistica si estende su vari campi della ricerca, analizzando i fatti anomali delle varie discipline. In particolare si interessa ai singolari anacronismi inspiegati come la presenza di tecnologia o di simboli che identificano un alto livello culturale in popolazioni paleolitiche. Ne è un esempio lo studio della misteriosa cultura Jomon, apparsa col suo vasellame datato 16.000 anni fa dal niente. Non solo producevano ceramiche decorate con corde (giapponese jomon: “segno di corda”) mentre nel resto del mondo erano a malapena capaci di produrre armi rudimentali ma, «si ipotizza che gli antichi abitanti delle Americhe… fossero discendenti dei Jomon, i quali avrebbero viaggiato a piedi dal Giappone al continente asiatico per raggiungere infine l'emisfero occidentale su ponti di terra, all'epoca in cui il nostro pianeta cominciava a riscaldarsi, cioè circa 15.000 anni fa, alla fine dell'ultima Era Glaciale» (Graham Hancock, Civiltà sommerse).
Altri esempi possono essere il ritrovamento di una città di nove chilometri di estensione sul fondale del golfo di Cambay in India, datata circa 4000 anni più antica di Harappa e Mohenjodaro, oppure le ricerche sul Bhu Mandala descritto nel Bhagvata Purana: «Richard Thompson, che ha conseguito il dottorato in matematica presso la Cornell University… sostiene che il Bhu Mandala è un modello cosmologico molto complesso e preciso, che nello stesso tempo funge da mappa del sistema solare e proiezione planare della superficie terrestre […] È evidente che il Bhu Mandala, così come è descritto nel Baghavatam, si può interpretare come una mappa geocentrica del sistema solare che comprende i pianeti fino a Saturno» (Graham Hancock,Civiltà sommerse). Negli anni, molti dilettanti appassionati, e individui che rasentano la ciarlataneria hanno fatto uso cospicuo del termine “anomalistica”, sradicandolo dall’ambiente scientifico che gli spetterebbe e lanciando alla deriva nel mare del giornalismo di dubbio gusto e del turismo esoterico.
L’onirologia nacque rivendicando il ruolo principe dei sogni nella psicologia umana, liberandoli così dalla schiavitù in cui furono confinati nella psicanalisi dove erano ritenuti solo materiale ascendente da un substrato primitivo e mai, come nell’onirologia, discendente da un ordine di realtà sovracosciente e non manifesto. Montague Ullman, fondatore del Dream Laboratory presso il Maimonides Medical Ceter a Brooklyn e professore di psichiatria presso l’Albert Einstein College of Medicine compì negli anni settanta vari studi sui sogni (è a tutti gli effetti uno dei pionieri della ricerca sulla telepatia, sulla telecinesi e sulla psicometria) e «ritiene che i sogni siano il modo della natura di opporsi alla nostra apparentemente infinita compulsione a frammentare il mondo» (Michael Talbot, Tutto è uno), confermando la tendenza della superficie egoica umana a separare la realtà in frammenti e gerarchizzarli secondo dei parametri non funzionali, e l’esigenza interiore di mantenere un ponte sostanziale col tutto, quasi un escamotage per vivere nell’infinito nonostante le attività superficiali della mente. Roger Wescott, antropologo specializzato in indologia e linguistica ritiene che «le arti e le scienze dell’uomo si possono considerare elaborazioni del comportamento onirico che stimolando l’immaginazione gli permettono di controllare un ventaglio di esperienze sempre più esteso» (Roger Wescott, Civiltà oltre la terra). Con le sue analisi della storia della letteratura e delle arti visive, ci spinge a intuire che l’arte serve ad addestrare se stessi ad un futuro ancora ignoto e immanifesto, e che l’espressione artistica deriva da una vera e propria ricezione di ordini non manifesti della realtà, un attingere a illimitati serbatoi di visioni troppo volatili per i nostri strumenti fisici di percezione e per la nostra idea di struttura spaziotemporale.
La nuova visione che cominciò a delinearsi di un continuum non completamente percepibile nei limiti umani, e dello stesso uomo come parte e non centro di quel continuum segna l’inizio, sebbene travagliato visto il panorama umano degli ultimi trent’anni, di una nuova èra per la mente. Anche nella scienza dunque si è cominciato a sentire il peso della visione antropocentrica e la necessità di un altro sguardo, che comprenda davvero. Come di fronte ad un trilithion attraverso il quale l’homo sapiens ha avuto la possibilità di gettare un nuovo sguardo libero dall’immagine di sé verso quanto lo circonda e lo compone. C’è da augurarsi che questo nuovo sguardo riesca a creare un uomo davvero sapiens, come alle porte del neolitico lo sviluppo della ragione forgiò un uomo davvero neander (in greco, uomo nuovo), e che si inverta la tendenza attuale che vuole un uomo mentale spinto al suo estremo olimpico, come un abnorme Gnomone di Aletto, che opprime il mondo col suo perpetuo calcolare numeri primi, ma incapace di cogliere anche in uno solo di essi il mistero dell’infinito.