DIECI TRA LE PIÙ ANTICHE VESTIGIA DELLA CIVILTÀ

- a cura del CENTRO STUDI arya -

Alla fine dell’ultima era glaciale, circa 12.000 anni fa, tra le pianure e le colline circostanti il bacino del Mediterraneo, si instaurò un ambiente temperato e umido, estremamente favorevole all’insediamento umano, con una abbondanza di risorse naturali (cereali selvatici, alberi da frutta e altre piante spontanee) tale da permettere per millenni ai nostri antenati di prosperare e alimentarsi senza le fatiche richieste dai lavori agricoli.
A un certo punto, però, questa sorta di paradiso terrestre finì e iniziò la faticosa era agricola. Gli studiosi stanno ancora cercando di individuarne le cause; come che sia, si è trattato di una brusca svolta.
Negli ultimi due secoli, una serie di scoperte archeologiche ha messo in evidenza un ingente patrimonio di siti risalenti alla protostoria, rintracciati in tutta l’area euroasiatica e ben oltre, nelle più disparate aree del globo, gettando luci suggestive sull’uomo preistorico e sulle origini della civiltà e mostrando complessi scultorei e/o architettonici che continuano a sfidare la nostra capacità di comprensione... Al di là di tutte le possibili congetture, sarebbe interessante sapere che cosa avvenne veramente all’ombra di quelle strutture portentose.
Offriamo qui una rassegna — ordinata cronologicamente (a partire dalle più remote) — delle dieci scoperte archeologiche che riteniamo tra le più significative in assoluto.

1) Dea Madre - ca 32.000 anni fa

Statuette raffiguranti la Dea Madre risalenti al Neolitico sono state rinvenute in po’ su tutto il pianeta. Le più vetuste risalgono al tempo dei ‘cacciatori di mammut’ delle paludi dei monti Pavlov, nell’attuale Moravia (Repubblica Ceca), tra i 32.000 e i 29.000 anni fa, quando il continente era ancora freddissimo e si liberava dai ghiacci solo per brevi periodi; qui, vennero modellati oggetti d’argilla, piccole statuette femminili nude dalla forme procaci, simbolo di fertilità, senza piedi e con la testa appena abbozzata: le cosiddette “Veneri”, utilizzate verosimilmente in operazioni magico-rituali.
Ma il culto della Dea Madre durò per tutta la preistoria, fino a penetrare nella storia conosciuta. Attorno a 8.500 anni fa, con il passaggio dal periodo boreale a quello atlantico, si verificò un mutamento climatico caratterizzato da temperature medie superiori a quelle attuali. L’Europa si trovò in tal modo nelle condizioni ideali per accogliere comunità agricole, ove la conoscenza dei fenomeni della natura (osservazione delle stelle, eclissi, comete, meteoriti, fulmini, tuoni, arcobaleni) ebbe una enorme rilevanza. Ecco dunque la fioritura dei monumenti megalitici, che dovettero plausibilmente rispondere a una molteplicità di funzioni, che vanno dalla sepoltura collettiva, all’osservatorio astronomico, al raduno comunitario e la celebrazione di rituali magici o sacrifici propiziatori. Vennero creati appositi allineamenti o cerchi di pietre o, addirittura, lunghi corridoi interrati terminanti in una camera, dove la luce del Sole penetra solo in un determinato momento dell’anno, al sorgere del sole del solstizio invernale. I raggi che percorrono il corridoio giungono a toccare l’alveo terminale, in un simbolico atto di fecondazione della Madre Terra, che farà rinascere l’astro per il nuovo ciclo di rigenerazione.
In questi grandi riti propiziatori, le statue e le statuette dedicate alla Grande Madre dovettero svolgere un ruolo centrale. Ecco i ritrovamenti più antichi e significativi.
Risale a ca 8.000 anni fa una statuina in terracotta ritrovata a Sha’ar Hagolan, nella Valle del Giordano, in un villaggio neolitico yamukiano. Il volto della Dea ha tratti vagamente antropomorfi.
Risale invece a ca 7.500 anni fa la cosiddetta “celebre Signora”: una figurina di Dea Madre dai tratti del volto chiaramente femminili e dal corpo prosperoso, seduta in trono e fiancheggiata da due leonesse; il luogo del ritrovamento è il sito archeologico di Çatalhöyük (6000-5500 a.C. ca.), in Anatolia (Turchia), nella regione di Konya; il ritrovamento risale al 1963.
Viene poi la Grande Dea di Strelice, risalente a ca 7.000 anni fa.
Nell’ordine cronologico, si segnala quindi la Dea di Vicofertile, in provincia di Parma, attribuita alla cultura dei Vasi a Bocca Quadrata, di 6.500 anni ca. La prominenza del naso della Dea potrebbe alludere a un becco, richiamando l’ipotesi della raffigurazione di una Dea-uccello, ovvero di un aspetto della Dea legato a morte e rinascita. Piuttosto curata risulta essere la capigliatura, guardando la statuetta da dietro.
Vi è poi la celebre “Venere” proveniente dal tempio megalitico di Hagar Qim (sul versante meridionale dell’isola di Malta, ricco di antichissimi insediamenti templari), datato alla fase di Tarscen e risalente a ca 5.200 anni fa. In questa zona archeologica sono state ritrovate in verità diverse statuette raffiguranti la Dea Madre, il più delle volte pingue, mentre nel caso della cosiddetta “Venere”, piuttosto procace.
Citiamo infine la figurina in marmo risalente a 5.000 anni fa e ritrovata nelle Isole Cicladi, raffigurante una Dea Madre a braccia conserte, con seni e vulva ben visibili e un volto stilizzato che pare rivolto verso l’alto.
Ma, come si diceva, queste sono fra le più antiche: ve ne sono innumerevoli altre, a testimonianza della grande e diffusissima importanza del culto dell’eterno femminino sin dall’età più antica.

2) Göbekli Tepe - ca 12.000 anni fa [scavi iniziati nel 1963, interrotti e ripresi nel 1995]

Alle soglie del Neolitico, in Anatolia sud-orientale, nei pressi della valle di Urfa, non lontano dal monte Tekten, una società sconosciuta eresse imponenti complessi monumentali su una collinetta artificiale (alta circa 15 metri e con un diametro di ca 300 metri) denominata Göbleki Tepe (“collina a forma di pancia”).
Il sito si trova nel bel mezzo della regione della Mezzaluna Fertile, un’immensa area dove cresceva spontaneamente il grano selvatico e dove le precipitazioni erano le più abbondanti di tutto il Medio Oriente, il che permetteva agli uomini di non preoccuparsi né di seminare né di irrigare artificialmente. Non a caso, l’intera area è disseminata di siti archeologici; fra questi, ricordiamo i due più vicini a Göbekli Tepe: Nevali Çori (a ca 50 km a nord-est) e il sito ancora pressoché inesplorato di Karahan Tepe (a 63 km a est).
A Göbleki Tepe sono state finora rinvenute quattro strutture circolari, formate da muri in frammenti di pietra e delimitate da enormi stele monolitiche in calcare pesanti oltre 10 tonnellate ciascuna. Sono state riportate in luce 44 pietre a forma di T, che raggiungono i 3 m di altezza. Per la maggior parte sono incise e vi sono raffigurati diversi animali (serpenti, anatre, gru, tori, volpi, leoni, cinghiali, vacche, scorpioni, formiche); sono inoltre presenti elementi decorativi, come insiemi di punti e motivi geometrici. Indagini geomagnetiche hanno indicato la presenza di altre 250 pietre ancora sepolte nel terreno. Oltre alle pietre sono presenti sculture isolate, in argilla, molto rovinate dal tempo, che rappresentano probabilmente un cinghiale o una volpe. Le raffigurazioni di animali hanno permesso di ipotizzare un culto di tipo sciamanico, non distante da quelli presenti nelle culture sumera e mesopotamiche.
La presenza di questa struttura monumentale dimostra tra l’altro che anche precedentemente allo sviluppo dell’agricoltura, gli uomini possedevano mezzi sufficienti per erigere strutture monumentali.
Intorno all’8000 a.C. il sito venne deliberatamente abbandonato e, cosa assai curiosa, volontariamente seppellito con terra portata dall’uomo!
Recentemente (intorno al 2012), è stato scoperto che il sito presenta interessantissimi riferimenti alla relazione tra la terra e il cosmo, a partire dalla sua architettura circolare fino ad arrivare ai dettagli ornamentali scolpiti sui pilastri.  La forma circolare delle costruzioni riflette una forma organica. E le strutture, che ricordano delle arene, potrebbero verosimilmente essere state intese per scopi rituali (il cui centro potrebbe simbolicamente rappresentare il centro del mondo) o per osservare le stelle. Un aspetto importante include i pilastri decorati; uno di questi, per esempio, presenta una scena in bassorilievo che raffigura un uccello con le ali spiegate, tre uccelli più piccoli, uno scorpione, un serpente, un cerchio centrale e un certo numero di linee ondeggianti o a “M” che alcuni studiosi (prima fra tutti Marja Gimbutas) riconduce a miti relativi al culto della Grande Dea. Comunque sia, in questo caso specifico, la chiave dell’enigma potrebbe essere proprio il cerchio posto al centro della scena. Infatti, qualora il cerchio centrale rappresentasse il Sole, gli altri animali potrebbero rappresentare la raffigurazione delle costellazioni della via Lattea. Piazzando le figure del pilastro in corrispondenza delle costellazioni principali, la verosimiglianza è notevole; lo stesso orientamento in cui le figure animali sono state poste sul pilastro, enfatizza il percorso del Sole lungo l’eclittica con una evidenza davvero difficile da contestare; il che suffragherebbe, oltretutto, l’ipotesi secondo cui fin dalla più remota antichità fosse noto il fenomeno della precessione degli equinozi.

3) La valle dell’Indo-Sarasvati - ca 8.000 anni fa [scavi iniziati nel 1872]

La civiltà dell’Indo-Sarasvati si colloca tra le più antiche civiltà del mondo, insieme a quelle della Mesopotamia e dell’antico Egitto, caratterizzate dallo sviluppo dell’agricoltura, dall’urbanizzazione e dall’uso della scrittura. Rispetto a Egitto e Mesopotamia, conobbe una maggiore estensione geografica (attuale Pakistan e India occidentale). I testi sumeri e accadici la designano con il nome di Meluhha. Gli scavi archeologici di questa zona sono iniziati sotto i peggiori auspici: davvero vergognosi furono gli innumerevoli tentativi di depistaggio attuati dai colonialisti inglesi che, non trovando alcun segno di cultura greca, sparsero la voce che quegli insediamenti urbani non dovevano avere più di 200 anni!
Nel 1921, quando Sir John Marshall divenne direttore generale dell’Archeological Survey of India, l’archeologo indiano Daya Ram Sabhi intuì la reale antichità di Harappa e diede inizio, insieme a Mahdo Sarup Vats, agli scavi archeologici. Nel volgere di pochi anni, gli inglesi si trovarono di fronte a una conclusione davvero imbarazzante: quei popoli da loro considerati «arretrati», erano stati ben più civilizzati degli europei! Talvolta Marshall impediva la pubblicazione di alcuni rapporti degli scavi sotto vari pretesti, tuttavia ebbe per lo meno il merito di convocare sul sito esperti del mondo mesopotamico, con i quali comunque ebbe un rapporto talvolta conflittuale. Fra questi, per esempio, figura l’assiriologo americano Ernest Mackay, che si appassionò sinceramente della protostoria indiana e che, quindi, non era disposto a nascondere o alterare i risultati delle scoperte; a lui si devono brillanti intuizioni sulle tecniche utilizzate dagli artigiani dell’Indo-Sarasvati per fabbricare alcuni gioielli.
Ma al peggio non c’è fine: dopo Marshall, nel 1946 la direzione dell’Archeological Survey of India venne affidata a Sir Mortimer Wheeler, che aveva appena combattuto a El Alamein come comandante del reparto corazzato e mantenne in questo nuovo incarico un piglio marziale e dominatore, dimostrandosi ancor meno rispettoso della verità, entrando presto in contrasto con l’archeologo australiano Vere Gordon Childe, il quale era un acceso (e coltissimo) sostenitore delle origini autoctone della civiltà dell’Indo-Sarasvati (fondò una importante scuola di scavo a Taxila, per formare scientificamente futuri archeologi indiani e pakistani). Wheeler, per contro, convinto assertore della superiorità coloniale europea, tentò in tutti i modi di trovare tracce greche negli insediamenti dell’Indo-Sarasvati e, non riuscendoci, iniziò a sostenere la tesi (rivelatasi assolutamente falsa, esattamente il contrario di quanto gli stessi scavi attestano) secondo cui si trattava di una civiltà basata su una teocrazia dispotica e oppressiva, simile a quella mesopotamica e egizia. Nel 2013, il prof. Mark Kenoyer (università di Madison, Wisconsin, U.S.A.), dopo meticolosi studi sul campo, sostiene che «Dholavira [vedi sotto] pare essere stata una monarchia, mentre tutte le altre città dell'Indo-Sarasvati furono repubblicane» (il corsivo è nostro). Alla fine, dunque, la verità ha prevalso, e la liberazione dell’India dal giogo britannico ha permesso di continuare le ricerche con scienziati indiani o, comunque, non colonialisti, proprio come lo statunitense appena citato.
Così, intere generazioni di archeologi hanno messo in luce numerosi siti della civiltà dell’Indo-Sarasvati, mostrando case, fognature e pozzi di raccolta, palazzi formati da planimetrie tanto intricate da sembrare labirinti, griglie di strade e viottoli, edifici complessi di funzione enigmatica, piattaforme sopraelevate, recinzioni in muratura in mattoni crudi e cotti, enormi quantità di ceramiche di uso quotidiano, utensili domestici, gioielli, statuette in terracotta, sigilli in steatite con i caratteri di una misteriosa scrittura sillabica e altro ancora.
Il prof. Vasant Shinde (università di Deccan, India) ha fornito alcune datazioni di massima circa l'inizio e il tramonto della civiltà dell'Indo-Sarasvati:
- tra i 9.000 e i 7.000 anni fa: inizio dell'agricoltura;
- tra i 7.000 e i 4.600 anni fa: gli scavi mostrano manufatti similari nelle varie città sparse nell'intera vasta area;
- tra i 4.600 e i 3.900 anni fa: il periodo della massima maturità di tale civiltà, ove le varie città, comprese le più distanti dell'area, sono accorpate in un unico impero che pare essersi sviluppato su fondamenta pacifiche;
- tra i 3.900 e i 3.300 anni fa: inizio del declino e accentuazione delle diversità regionali.

Dei circa 2.000 siti finora individuati, limitiamoci a indicare alcuni fra i più importanti. In linea di massima, gli elementi ricorrenti nelle varie città riscontrabili sono la presenza di strutture urbanistiche ben progettate, con vie principali e strade secondarie (tutte orientate secondo le direzioni cardinali); latrine in ogni singola casa, con pozzi di raccolta e canali di scarico delle acque reflue, come pure la presenza di pozzi pubblici per i non residenti; nessun segno di schiavitù ma, al contrario, la presenza di regole corporative basate sulla cooperazione; sistemi di raccolta delle acque piovane, con canali per l'irrigazione e bacini di raccolta e contenimento; assidui contatti import-export con civiltà lontane, quali la mesopotamica; utilizzo di tecnologie metallurgiche e della lavorazione della ceramica assolutamente pionieristiche; presenza massiva di elementi che mostrano un significativo sviluppo di pratiche yoga (meditazione e altre tecniche). La totale mancanza di templi, invece, lascia presagire che le eventuali pratiche rituali si svolgessero all'aperto, per mantenere il più vivo e diretto contatto con la Natura. Ma passiamo dunque a offrire una breve rassegna dei maggiori centri finora esaminati.

Harappa (ca 3.300-1.600 a.C.): situata nell’attuale Panjab (nel Pakistan nord-orientale), i primi stanziamenti di questa metropoli risalgono a 9mila anni fa. In larga misura, purtroppo, venne distrutta dagli ingegneri inglesi che autorizzarono l’utilizzo dei mattoni per reggere le traversine della linea ferroviaria Multan-Lahore (a testimonianza, se non altro, di quanto perfettamente si fossero conservati quei mattoni!). Fino al 1.600 era bagnata dal fiume Ravi ed ebbe intensi traffici commerciali con la Mesopotamia, la Penisola Arabica e la Battriana. Si calcola che avesse circa 80mila residenti. Fra i reperti, spiccano le ceramiche finemente lavorate, le statuette fittili, i sigilli in steatite.

Mohenjo-Daro (ca 3.300-1.300 a.C.): con un totale di circa 350 case e pubblici edifici, è uno dei siti protostorici più scavati al mondo (nella provincia di Sindh, nell’attuale Pakistan), ma il suo mistero rimane ancora irrisolto. Vera e propria metropoli di proporzioni gigantesche, le principali arterie erano dotate di impianti fognari sotterranei in terracotta, pietra e bitume. E le rovine della città si estendono per almeno 400 ettari (forse non abitati interamente nello stesso periodo). Ciò significa che la popolazione della città doveva contare qualcosa come 80mila abitanti, una cifra paragonabile — e addirittura superiore — a quelle dei maggiori centri mesopotamici del III millennio a.C.! Inoltre, la cosa forse più prodigiosa è che, a differenza di analoghi insediamenti egiziani o mesopotamici, dove i cittadini abitavano in capanne di fango mentre i potenti dimoravano in enormi palazzi, qui tutti i cittadini erano benestanti, vivevano nel lusso e si ornavano con accessori raffinati di vario pregio. L’impossibilità di trovare distinzioni fra quartieri ricchi e poveri non ha impedito tuttavia la distinzione fra le case dei mercanti (ricche di sigilli, impronte e vari tipi di gettoni iscritti), degli artigiani e dei comuni residenti.

Dholavira (2.650-1.450 a.C.): nell’attuale Gujarat, nel deserto di Kutch (è un’isola nella stagione dei monsoni). Gli scavi hanno messo in luce una pianta architettonica della città particolarmente elaborata, con una fortificazione che delimitava la parte più centrale (48 ettari), ma che si estendeva oltre le mura fortificate, svelando una notevole quantità di sigilli, ossa animali, oro, argento, manufatti in terracotta. Gli archeologi ritengono che questo insediamento urbano fosse un centro di commercio con l’Asia occidentale e, in particolare, la Mesopotamia. Diversamente dalla maggior parte delle città di questa area, le cui case erano in mattoni, è stata costruita prevalentemente in pietra. Il sistema fognario si trova in ottimo stato di conservazione e rivela un sistema di canali e bacini artificiali di maestrevole fattura.

Lothal (2.400-1.300 a.C.): sulla costa del golfo di Cambay, nell’attuale Gujarat. In base al ritrovamento di una grande vasca rettangolare cui era possibile accedere tramite un canale collegato a un estuario del fiume Sabarmati, si presume che la città fosse un porto e la vasca un grande arsenale per le barche. È il sito che contiene il maggior numero di sigillature e sigilli, a dimostrazione della sua forte vocazione commerciale.

Rakhigarhi (3.000-1.300 a.C.): nel moderno Haryana, a circa 150 km da New Delhi. La pianta della città ha rilevato una dimensione di 224 ettari, con strade pavimentate, un sistema di drenaggio delle acque di scarico, una fitta rete di canali di collegamento. Numerosi i reperti emersi: statuette, manufatti in terracotta, oggetti metallici (in bronzo e altri metalli preziosi), gioielli, pietre semi-preziose. È una delle più grandi città della civiltà dell’Indo-Sarasvati.

Daimabad (2.300-1.000 a.C.): nell’attuale stato di Maharashtra, presso Bombay; gli scavi mostrano un insediamento a cinque diversi livelli culturali.

Chanhudaro (4.000-1700 a.C.): nella moderna provincia di Sindh, in Pakistan; si estende su una superficie di circa 5 ettari.

Sutkagen Dor (2.000-1.000 a.C.): nell’attuale provincia del Baluchistan in Pakistan, vicino alla frontiera con l’Iran, è il sito più occidentale conosciuto. Esteso su una superficie di quasi cinque ettari, presenta una fortificazione in pietra.

4) Stonehenge - ca 5.000 anni fa [sito scoperto nel 1666]

Nelle Isole Britanniche si conoscono decine di migliaia di siti archeologici megalitici; si tratta di costruzioni monumentali preistoriche in terra, in legno o a grossi blocchi di pietra, lavorati o meno (solo una parte minima di tali monumenti è stata studiata sufficientemente). Stonehenge è senza alcun dubbio il più vasto, il più complesso e il più famoso, situato nella contea del Wiltshire, nell’Inghilterra meridionale, circa 13 chilometri a nord-ovest di Salisbury sulla piana omonima. Unici sono anche i suoi enormi triliti.
Nel corso dei secoli, la sua costruzione venne modificata e adattata, nel mutare delle culture, in un contesto forse sacralizzato per millenni. Anche i Druidi utilizzarono queste enormi pietre come templi sacri.
Secondo gli esperti, il nome sarebbe una parola composta formata da stone (“pietra”, antico inglese stan) e hang (“sospesa”, antico ingelse hencg), in riferimento agli architravi.
L’asse di Stonehenge è diretto verso la posizione del sole nel solstizio d’estate.
La pietra dell’altare è un blocco di cinque metri di arenaria verde dal peso di 6 tonnellate. Le pietre principali (dal peso di 25/50 tonnellate ciascuna) sono composte da una forma estremamente dura di arenaria silicea, che si trova naturalmente circa 30 km più a nord, sulle Marlborough Downs. La struttura interna, conosciuta come “Bluestone Horseshoe” è costituita di pietre molto più piccole, che pesano in media 4 tonnellate. Queste pietre sono state estratte dalle Montagne Preseli, nel Galles sud-occidentale, a una distanza di oltre 200 km dal sito. Sono principalmente di dolorite ma comprendono esempi di riolite, arenaria e ceneri calcaree vulcaniche. La cosiddetta “pietra del tallone” era un tempo conosciuta come Tallone del Frate (ma l’inglese “Friar’s Heel” è in realtà una anglicizzazione del gallese “Freya sul”, da Freya, dea celtica della fertilità, e Sul, giorno del sole).
La datazione radiocarbonica del sito indica che la costruzione del monumento in pietra fu intrapresa intorno al 3100 a.C. e si concluse intorno al 1600 a.C. Tuttavia, gli scavi archeologici hanno messo in evidenza un più antico insediamento che, senza soluzione di continuità con il successivo, risale a 7.500 anni fa.
Nella contea di Salisbury sorge pure il circolo di Avebury, il più imponente complesso del suo genere in tutto il continente europeo, risalente a 4.500 anni fa, dove sono ancora visibili alcuni tratti di una strada pavimentata con grandi lastre in pietra; e la Silbury Hill, il più grande tumulo preistorico dell’Europa occidentale, risalente al III millennio a.C.: supera i 40 metri di altezza e misura, alla base, oltre 500 metri di circonferenza.
In Europa esistono moltissimi altri cerchi neolitici analoghi a Stonehenge o datati approssimativamente nella stessa epoca. Tra di essi vi è il cosiddetto Cerchio di Brodgar nella Scozia settentrionale. Un sito circolare simile, ma risalente a circa il 7000 a.C., si trova a Goseck nella Sassonia-Anhalt in Germania.

5) Statue-menhir - ca 5.000 anni fa

Il fenomeno delle statue stele era diffuso in tutto il territorio europeo dell’antichità (fra l’età del Rame e l’età del Bronzo), dal Mar Caspio allo stretto di Gibilterra; si tratta di monumenti in pietra, generalmente di roccia arenaria, prevalentemente di tipo antropomorfo (di ambo i sessi o asessuati, per lo meno apparentemente; ne esistono anche di acefali). Gran parte dei ritrovamenti di questi megaliti è avvenuta nelle zone dell’Europa centrale tra il Mediterraneo (isole mediterranee quali Corsica e Sardegna) e le Alpi — arco alpino occidentale (Valle d’Aosta, Valle del Rodano, Svizzera) e orientale (Val d’Adige) — come pure in Lunigiana, in Puglia, in Siria, in Ucraina. Si è evidenziato che la maggiore concentrazione di questi monumenti è sovente riscontrabile sui punti nodali dei traffici preistorici: foci fluviali, valichi alpini e simili. Non di rado sono disposti in fila, con la faccia rivolta verso est (sole che sorge).
Le statue-stele possono essere suddivise in tre gruppi principali, secondo l’evoluzione tecnica e stilistica delle sculture —

Gruppo A: è il più antico e raggruppa tutte le statue-stele con tratti antropomorfici molto stilizzati, le più primitive ed essenziali sia nello stile che nella rappresentazione. La testa è un prolungamento del corpo, dalla tipica forma a U, la linea clavicolare retta e le braccia sono bassorilievi molto stilizzati; le dita sono presenti di rado. Le statue maschili hanno un pugnale disegnato solo di profilo, con la lama triangolare, una impugnatura corta e pomo semicircolare. Le statue femminili sono rappresentate con seni stilizzati come piccoli dischi. A questo gruppo appartengono per esempio le statue stele ritrovate in Sardegna (particolarmente diffuse nei dintorni di Laconi), suddivise in due tipi figurativi: un tipo maschile (che probabilmente rappresentava eroi o guerrieri mitici, nel quale viene sempre raffigurato dall’alto verso il basso — un volto schematizzato a forma di T, il simbolo del tridente o capovolto e, infine, al di sotto di questo, un pugnale a doppia lama) e un tipo femminile, caratterizzato da seni stilizzati.

Gruppo B: corrisponde a un periodo intermedio e presenta maggiore accuratezza nell’esecuzione dei segni antropomorfi. La caratteristica principale di diversità è la forma della testa, separata dal corpo da un collo cilindrico e con forma tipica a “cappello di carabiniere”. Il collo può essere ancora a U, ma vi appaiono anche altri particolari come gli occhi. Le armi delle statue maschili sono i tradizionali pugnali triangolari, a volte più dettagliati, e un’ascia a forma di L con un lungo manico. Le statue femminili hanno seni semisferici e a volte gioielli stilizzati.

Gruppo C: è il gruppo più recente, più evoluto artisticamente, comprendente solo statue-stele maschili. La figura è sbozzata con uno stile più realistico e con una ricchezza di particolari sconosciuta alle opere precedenti. La testa è arrotondata, staccata dal corpo, con naso, occhi, bocca e orecchie ben delineati. Lo stesso per le mani e le braccia, con alcuni particolari delle armi e dei vestiti scolpiti a tutto tondo.

6) Piramide di Cheope - ca 4.500 anni fa

Può forse stupire che le immense e perfette opere architettoniche costituite dalle piramidi non sono il frutto maturo della civiltà egizia giunta al suo apice, ma delle sue prime testimonianze. Cheope, Chefren e Micerino, i faraoni sepolti sotto le piramidi che portano il loro nome, sono infatti tutti sovrani della IV dinastia (2.575-2.465 a.C.), cuore dell’Antico Regno. L’uso di erigere imponenti monumenti funebri, alla cui costruzione contribuiva per anni l’intero popolo, ebbe inizio con la precedente dinastia, quando l’architetto del faraone Djoser (2.630-2.611 a.C.) progettò e mise in opera la prima piramide a gradoni, nel recinto sacro di Saqqara.
La Piramide di Cheope è l’unica delle sette meraviglie del mondo antico che sia giunta a noi, nonché la più grande piramide egizia e la più famosa piramide del mondo. È la più grande delle tre piramidi della necropoli di Giza (vicino al Cairo). Costruita, si presume, intorno al 2.570 a.C., venne realizzata dall’architetto reale Hemiunu.
Poche centinaia di metri a sud-ovest dalla piramide di Cheope sorge la piramide attribuita al suo successore Chefren, che costruì anche la Sfinge. Ancora a poche centinaia di metri a sud-ovest è la piramide di Micerino, successore di Chefren, alta circa la metà delle due maggiori. La piramide di Chefren appare più alta solo perché è stata costruita su un terreno più elevato.
Nelle immediate vicinanze della piramide vi sono pure sette fosse per barche sacre di cui una è stata ricostruita.
Ciascuna piramide è provvista di cortile, luogo di culto a nord, tempio funerario, rampa processionale e altre strutture quali il tempio a valle. Vi sono inoltre annesse alla piramide principale di Cheope anche tre piramidi secondarie di minor dimensione dedicate a sue tre regine e una piramide satellite scoperta nel 1999.
Quando fu costruita, la piramide di Cheope era alta circa 146,6 metri (280 cubiti egiziani) ed era pertanto la costruzione più alta realizzata fino ad allora. La sua altezza attuale è tuttavia di soli 138 metri e risulta essere pertanto di poco più alta della piramide di Chefren, alta 136 metri. Causa di questa perdita di altezza è probabilmente la rimozione del rivestimento di pietra calcarea che in passato rivestiva l’intera piramide, dovuto sia a fenomeni di erosione naturale, sia alla rimozione delle pietre calcaree da parte degli abitanti del Cairo, che in passato sfruttarono le piramidi come cave di pietre.
La base della piramide copre oltre 5 ettari di superficie, formando un quadrato di circa 230,34 metri per lato. L’accuratezza dell’opera è tale che i quattro lati della base presentano un errore medio di soli 1,52 cm in lunghezza e di 12" di angolo rispetto a un quadrato perfetto. I lati del quadrato sono allineati quasi perfettamente lungo le direzioni Nord-Sud ed Est-Ovest. I lati della piramide salgono a un angolo di 51º 50' 35".
Per la costruzione del solo rivestimento esterno della Grande Piramide sono state scelte pietre di calcare, basalto e granito, pesanti ognuna dalle 2 alle 4 tonnellate, mentre la parte interna, denominata Zed è costituita di monoliti in granito pesanti dalle 20 alle 80 tonnellate, per un peso totale che si aggira intorno ai 7 milioni di tonnellate. Il volume totale è di circa 2.600.000 metri cubi. È quindi la più voluminosa piramide d’Egitto ma non del mondo, dato che la piramide di Cholula, in Messico è più grande.
Nell’epoca immediatamente successiva alla costruzione, la piramide era rivestita esternamente di bianche pietre di calcare, lucide e molto lisce, incise con antichi caratteri, precipitate al suolo a causa di un violento terremoto nel 1.301 d.C., ma la maggior parte dei blocchi di rivestimento è stata rimossa, sempre verso il 1.300, per la costruzione della cittadella e della moschea del Cairo.
La demolizione della piramide iniziò già in epoca antica, come testimoniano i conci ritrovati nel complesso piramidale di Amenemhat I, recanti incisi i cartigli di Cheope. La piramide con il suo pyramidion d’oro situato sulla sommità, sotto i raggi del sole doveva risplendere come una gemma gigantesca risultando visibile anche a notevole distanza. Come ci narra Erodoto, furono utilizzati circa centomila uomini che lavorarono per circa quarant’anni alla sua costruzione.
La piramide di Cheope si distingue dalle altre per la sua posizione geografica, ma anche per il grande numero di passaggi e alloggiamenti, per la rifinitura dei lavori interni e la precisione della costruzione.
Il rapporto tra l’altezza e il lato della base quadrata della piramide di Cheope coincide, con buona approssimazione, alla Sectio Aurea che governa anche la stele del Re Get. Questa proporzione dell’armonia, o numero aureo Fi, fu usata da Fidia per progettare il Partenone dell’Acropoli di Atene. E il valore ottenuto dal rapporto tra il perimetro di base (circa 921,4 m) della piramide e il doppio dell’altezza della stessa (circa 146,6 m x 2 = 293,2 m), approssima, con buona precisione, il valore del pi greco.
La lunghezza del perimetro della piramide espresso in pollici è all’incirca pari a 36.524, ovvero cento volte il valore 365,24, corrispondente alla durata, espressa in giorni, dell’anno solare. La Grande Piramide costituisce inoltre una sorta di modello in scala 1:43.200 dell’emisfero nord della Terra. Se si moltiplica infatti l’altezza originale del monumento (146,729 metri) per 43.200, si ottiene come risultato 6.338,476 chilometri, ossia la lunghezza del raggio terrestre dal polo al centro del piano equatoriale con un margine di errore di appena 15 chilometri (lunghezza reale 6.353,941 chilometri). Allo stesso modo, moltiplicando il perimetro di base della piramide (921,459 metri) per 43.200, si ottiene 39.807,035 chilometri, un risultato inferiore di 260 chilometri circa rispetto la reale circonferenza della Terra all’equatore (40.067 chilometri), ossia un margine di errore dello 0,75%.
L’ingresso originale della Grande Piramide si trovava a 17 metri dal suolo, a 7,29 metri dalla linea mediana della struttura. Dall’entrata originale si dirama un passaggio alto 96 cm e largo 1,04 metri, che scende con un angolo di 26° 31'23" attraverso le pietre della piramide fino al letto di roccia su cui sorge l’edificio. Dopo 105,23 metri il passaggio diventa orizzontale e continua per 8,84 metri fino alla Camera inferiore, che appare non terminata. C’è una continuazione del passaggio orizzontale nel muro sud della Camera. È presente anche un pozzo scavato nel pavimento della camera. Alcuni egittologi hanno suggerito che questa dovesse essere, in effetti, l’originale camera sepolcrale, ma che Cheope abbia cambiato idea e chiesto che la camera fosse collocata più in alto nella Piramide.
A 28,2 m dall’entrata è presente un buco quadrato nel soffitto del passaggio discendente, originariamente nascosto da una lastra di pietra, che costituisce l’inizio del Passaggio ascendente. Quest’ultimo passaggio è lungo 39,9 metri. Altezza e larghezza sono le medesime del passaggio discendente. Anche l’inclinazione è pressoché la medesima. L’estremità inferiore di questo passaggio è chiusa da tre enormi blocchi di granito, lunghi ognuno circa 1,5 m. All’inizio della Grande Galleria si vede un foro nel muro (oggi bloccato da rete metallica). È l’inizio di un cunicolo verticale che segue un percorso irregolare attraverso la muratura della piramide per unirsi al passaggio discendente. Inoltre, sempre all’inizio della Grande Galleria, è presente un passaggio orizzontale che conduce alla cosiddetta Camera della Regina. Il passaggio è alto 1,1 metri per quasi tutta la sua lunghezza, ma vicino alla camera c’è un gradino nel pavimento, dopo il quale il passaggio diventa alto 1,73 metri. La Camera della Regina è esattamente a metà strada tra le facce nord e sud della piramide e misura 5,75 metri per 5,23, con un’altezza al vertice della camera di 6,23 metri. In corrispondenza dell’estremità orientale della camera è presente una nicchia di 4,67 metri di altezza. Nelle pareti nord e sud della camera si aprono dei cunicoli che, contrariamente a quelli della Camera del Re, si sviluppano orizzontalmente per 2 metri, per poi puntare verso l’altro. La parte orizzontale non è originaria. I due metri di collegamento furono infatti tagliati nella pietra nel 1.872 da un ingegnere inglese, Waynman Dixon, che credeva, per analogia con la camera del Re, che questi cunicoli dovessero esistere, anche se originariamente i cunicoli non avevano apertura nella camera della regina. Dal momento che i cunicoli non sono connessi con le facce esterne della piramide né erano originariamente connessi con la camera, il loro scopo rimane sconosciuto. 
I condotti nella Camera della Regina furono esplorati usando un robot cingolato: uno dei due condotti (quello sud) è bloccato da una lastra di calcare con due ‘maniglie’ di rame consunte; il robot fece un buco nella lastra, per scoprire una lastra più grande dietro di essa. Il condotto nord si rivelò più difficile da esplorare, a causa delle asperità causate dal non perfetto allineamento dei blocchi. In ogni caso anche in esso fu trovata una porta di calcare.
La Grande Galleria costituisce la prosecuzione del Passaggio Ascendente, ma è alta 8,6 metri e lunga 46,68. Alla base è larga 2,06 metri, ma dopo 2,29 metri i blocchi di pietra rientrano verso l’interno per 7,6 cm su ogni lato. Ci sono 7 di questi gradini, cosicché alla sommità la galleria è larga solo 1,04 metri. La copertura è fatta di blocchi posati a un angolo leggermente più inclinato rispetto al pavimento, così da incastrare ogni blocco in un incavo ricavato nella sommità della galleria come un dente di un crick. Lo scopo è fare in modo che ogni blocco sia retto dal muro della galleria piuttosto che poggiare sul blocco sotto di esso, cosa che sarebbe risultata in una pressione cumulativa eccessiva al termine della galleria.
All’estremità superiore della galleria, sul lato destro, è presente un foro nel soffitto che si apre in un breve tunnel attraverso il quale si può avere accesso alla Camera di scarico inferiore.
Il pavimento della Grande Galleria consiste in una gradonata su ogni lato, larga 51 cm, che lasciano tra loro spazio per una rampa larga 1,04 metri. Lo scopo della gradonata non è chiaro, ma dal momento che la rampa centrale ha la stessa larghezza del passaggio ascendente, si è ipotizzato che le pietre di chiusura fossero stivate nella Grande Galleria e che le lastre della gradonata reggessero pali di legno intesi a trattenerle dallo scivolare nel passaggio finché i lavori non fossero stati completati. Questo, a sua volta, ha fatto nascere l’ipotesi che, originariamente, fossero previsti molti più dei tre blocchi ritrovati, in modo da riempire completamente il passaggio ascendente.
Al termine della Grande Galleria c’è un gradino che si aggetta su un passaggio orizzontale lungo circa 1,02 metri, nel quale si possono riscontrare quattro alloggiamenti.
La Camera del Re è 10,47 metri da est a ovest e 5,234 da nord a sud. Ha un soffitto piatto collocato a 5,974 metri dal pavimento. A un’altezza di 91 cm dal pavimento si trovano due stretti condotti nei muri nord e sud (in uno è stata installata una ventola per cercare di far circolare aria nella piramide). Il proposito di questi condotti non è chiaro: sembrerebbero allineati con le stelle o con aree del cielo a nord e a sud ma, d’altro canto, uno di essi segue un percorso irregolare attraverso la struttura e, di conseguenza, attraverso di esso non ci può essere allineamento diretto alle stelle. Non sembra che contribuiscano in maniera spontanea alla ventilazione, quindi la spiegazione più verosimile è che siano associati con il rituale di ascensione dell’anima del sovrano. La Camera del Re è interamente rivestita di granito. I blocchi sono tagliati e collocati con eccellente precisione, tanto che è impossibile inserire tra loro un foglio di carta. Il soffitto è formato da nove lastre di pietra del peso complessivo di 400 tonnellate. Al di sopra di esso si trovano cinque comparti chiamati Camere di scarico. Le prime quattro, come la camera del Re, hanno soffitti piatti, ma la camera terminale ha un tetto a capanna. Si ritiene che questi interstizi servano ad alleggerire la struttura, evitando che il soffitto della camera del Re collassi sotto il peso delle pietre superiori. Dal momento che non erano state concepite per essere visibili, non sono state rifinite e le pietre in esse riportano ancora i marchi di cava. Una delle pietre nella camera di Campbell presenta un marchio, apparentemente il nome della squadra di lavoro, che contiene l’unico riferimento nella piramide al faraone Cheope.
Il solo oggetto presente nella camera del Re è un sarcofago monolitico rettangolare in granito, con un angolo rotto. Il sarcofago è poco più largo del passaggio ascendente e, quindi, deve essere stato collocato nella camera prima che fosse messo in opera il soffitto. Contrariamente alle pareti, magistralmente lavorate, il sarcofago è rozzamente sbozzato, con tracce di sega visibili in molti punti. Ciò è in contrasto con i sarcofagi ben rifiniti e decorati trovati in altre piramidi dello stesso periodo.

7) Il disco di Nebra - ca 3.800 anni fa [reperto scoperto nel 2002]

È stato ritrovato a Nebra (località tedesca nella Sassonia-Anhalt, nella Germania orientale) un disco di bronzo di circa 32 cm di diametro (spessore da 1,7 mm sui bordi a 4,5 mm al centro) e del peso di ca due chili, cosparso di inserti in lamina d’oro. Il disco apparve insieme a altri reperti: due spade di bronzo con intarsi d’oro, due asce, uno scalpello e i resti di un bracciale a spirale di bronzo. Il disco è stato sotterrato intorno al 1.600 a.C., mentre la data di fabbricazione viene stimata fra il 1.700 e il 2.100 a.C.
Dopo varie ricerche, il disco si è rivelato essere la più antica raffigurazione conosciuta della volta celeste, un vero e proprio strumento astronomico, che anticipa di 200 anni la scoperta del più antico reperto egiziano.
Le applicazioni in lamina d’oro presentano una tecnica particolare di lavorazione a intarsio e sono state aggiunte e più volte modificate. Queste applicazioni consistevano inizialmente in 32 piccole placche rotonde e due più grandi, una rotonda e una a forma di falce; sette delle placche più piccole sono raggruppate in alto tra le due maggiori. Più tardi, sul bordo destro e sinistro furono applicati i cosiddetti archi dell'orizzonte, costituiti da oro estratto in altri luoghi, meno puro dal punto di vista chimico; per poterli applicare, una delle placche più piccole fu spostata dalla parte sinistra verso il centro e altre due sulla parte destra furono ricoperte; così, oggi sono visibili solo 30 placche minori. In un ultimo tempo è stato aggiunto un altro arco sul bordo inferiore, ancora una volta con oro di diversa provenienza. Questa specie di barca solare è formata da due linee quasi parallele con sottili tratteggi intagliati sugli angoli esterni. Quando il disco fu interrato mancava già l’arco sinistro, e sul bordo erano impressi con estrema precisione 40 fori di circa 3 mm.
Secondo l’interpretazione più accreditata presso gli studiosi, le placche più piccole rappresentano le stelle, e il gruppo di sette rappresenta le Pleiadi visibili nella costellazione del Toro. Si ritiene che le altre 25 stelle siano riprodotte senza un ordine preciso. Il disco maggiore in un primo momento fu considerato il Sole ma anche la Luna, mentre la falce era la luna crescente. L’insieme dei corpi celesti nel cielo a ovest, poco prima del tramonto, formato a periodi alterni dalle Pleiadi con la Luna crescente e con la Luna piena, nell’età del bronzo coincideva, rispettivamente, con il 10 marzo e il 17 ottobre. Le linee curve dell’orizzonte, apposte in un secondo tempo, segnano un angolo di 82 gradi, proprio come quando il sole sorge e tramonta all’orizzonte alla stessa latitudine del luogo di ritrovamento, nel periodo compreso tra i solstizi d’inverno e d’estate. Se dalla collina del Mittelberg si posiziona il disco orizzontalmente in modo che la linea immaginaria tra la parte superiore dell’arco sinistro e la parte inferiore dell’arco destro indichi la cima del monte Brocken (distante circa 80 km), potrebbe fungere da calendario per l’anno solare. Visto dal Mittelberg, nel solstizio d’estate, il sole tramonta proprio dietro il monte Brocken. L’ipotesi che l’arco destro indichi il tramonto del sole a ovest, è avvalorata dalla sua vicinanza con la falce inclinata della luna che, nella costellazione menzionata, è illuminata dal sole al tramonto.
L’ultima aggiunta riguarda un secondo arco dorato formato da due solchi quasi paralleli nel senso della lunghezza e interpretato come la Barca del Sole, presente anche nell’arte figurativa dell’Antico Egitto e di quella minoica. Lungo i bordi, l’arco è circondato da brevi linee intarsiate nel bronzo simili ai remi disegnati su analoghe figure di barche tipiche dell’età del bronzo rinvenute in Grecia e in Scandinavia. Quest’ultimo arco probabilmente non funge da calendario, ma rappresenterebbe il tragitto notturno del Sole da ovest verso est.
Circa 20 chilometri dal luogo del ritrovamento si trova Externsteine, l’osservatorio solare di Goseck, risalente al V millennio a.C.; il che dimostra che le conoscenze astronomiche risalgono a un periodo ancora più remoto del disco di Nebra. L’osservatorio è costituito da un vasto spiazzo circolare, di circa 75 metri di diametro, protetto da un fossato e da due file parallele di palizzate in legno, in origine alte due metri e munite di tre aperture. Diversamente dalle altre costruzioni circolari preistoriche simili di questa parte dell’Europa (se ne conoscono circa 300), la destinazione astronomica del monumento è fuori discussione: le tre aperture nella recinzione del circolo erano porte rivolte al sole, visualizzavano cioè con la massima precisione i solstizi solari, quello estivo (21 giugno) e quello invernale (21 dicembre). Già 3.000 anni prima di Stonehenge, dunque, il monumento scavato a Goseck serviva ai membri di una società a scandire l’anno. Dimostrando come già in epoca neolitica gli uomini di questa parte d’Europa disponessero di nozioni e concezioni simili a quelle espresse, tremila anni più tardi, con il disco di Nebra.

8) Troia - ca 3.500 anni fa [scoperta nel 1871]

L’antica città dell'Asia Minore, all’entrata dello stretto dei Dardanelli (nell’attuale Ellesponto, in Turchia), fu teatro della guerra narrata nell’Iliade di Omero, che descrive una breve parte dell’assedio, mentre alcune scene della sua distruzione sono raccontate nell’Odissea. Della guerra di Troia si canta in molti poemi epici non solo greci, ma anche romani e medioevali (altri poemi ellenici arcaici notevoli sulla guerra di Troia sono i Canti Cipri, le Etiopide, la Piccola Iliade, la Distruzione di Troia e i Ritorni; e, come è noto, il poema latino Eneide inizia descrivendo la distruzione di Troia).
Secondo il mito, la città fu fondata dai discendenti di Dardano (figlio di Zeus) che, secondo la tradizione greca, proveniva dall’isola di Samotracia. Laomedonte, uno dei re di Troia, chiese a Poseidone e a Apollo di fornire la città di grandi mura, in modo da renderla inespugnabile. Gli dei fecero quanto pattuito, ma al termine dei lavori Laomedonte si rifiutò di pagare: Poseidone, per vendetta, inondò la campagna distruggendo i raccolti e scatenò un mostro marino che divorò gli abitanti; l'ira del dio, secondo l’oracolo di Zeus Ammone, si sarebbe placata se Laomedonte avesse sacrificato al mostro la propria figlia Esione. Laomedonte decise infine di sacrificare la figlia e mentre la ragazza veniva legata a uno scoglio, giunse al palazzo reale Eracle, che chiese al re cosa stesse succedendo. Questi gli spiegò la situazione, e Eracle si offrì di uccidere il mostro, ottenendo in cambio i velocissimi cavalli divini che Laomedonte aveva ricevuto in regalo da Zeus. Eracle, giunto sulla spiaggia, uccise la creatura e riportò Esione dal padre, reclamando la ricompensa; anche questa volta, però, Laomedonte si rifiutò di saldare. Eracle se ne andò irato, promettendo che sarebbe tornato a vendicarsi. Anni dopo, l’eroe tornò al comando di un esercito, conquistò Troia e uccise Laomedonte. Eracle risparmiò Esione e la diede in sposa a Telamone, un amico del gigante Eracle. Esione chiese in cambio che Priamo, suo fratello, fosse liberato.
Secondo l’epica omerica, sotto il regno di Priamo, la città fu assediata dalla spedizione achea, al comando di Agamennone, che voleva vendicare il rapimento di Elena da parte di Paride. Dopo dieci anni di assedio, la città cadde grazie allo stratagemma del cavallo di legno ideato da Ulisse.
La città fu nuovamente distrutta nel corso della prima guerra mitridatica da un certo Flavio Fimbria, comandante di due legioni romane, il quale secondo Appiano di Alessandria dopo aver saputo che la città aveva richiesto la protezione di Lucio Cornelio Silla.

Nel 1871 Heinrich Schliemann (1822-1890), seguendo le indicazioni e le descrizioni dei testi omerici, organizzò una spedizione archeologica in Anatolia, sulla sponda asiatica dello stretto dei Dardanelli. I suoi scavi si concentrarono sulla collina di Hissarlik, dove era avvenuto un precedente scavo archeologico effettuato dalla scuola francese guidata da Calvert, poi interrotto per mancanza di fondi. Qui si trovò di fronte a più strati che corrispondevano a differenti periodi della storia di Troia. Arrivato al secondo strato (a partire dal basso) riportò alla luce un immenso tesoro e pensò di aver scoperto il leggendario tesoro di Priamo narrato nell’Iliade. I suoi ritrovamenti, però, risalivano a un periodo precedente a quello della Troia omerica, collocata intorno al XIII secolo a.C. In realtà la città narrata nei poemi omerici, si scoprì in seguito, era collocata al sesto strato. Comunque, il tesoro di Priamo resta uno dei più importanti ritrovamenti della storia dell’archeologia.
Le successive campagne di scavo furono condotte da Wilhelm Dörpfeld e Carl Blegen. Tali ricerche portarono alla scoperta di nove livelli sovrapposti, con varie suddivisioni, datati mediante l’ausilio dell’analisi degli oggetti rinvenuti e l’esame delle tecniche costruttive utilizzate, dei quali è stato possibile delineare le piante delle ricostruzioni.

Troia I (3000 - 2600 a.C.): villaggio neolitico, con ritrovamenti di utensili in pietra e di abitazioni dalla struttura elementare.

Troia II (2600- 2250 a.C.): piccola città con mura caratterizzate da porte enormi, presenza del megaron (palazzo reale) e case in mattoni crudi che recano segni di distruzione da incendio, che Schliemann suppose potessero riferirsi ai resti della reggia di Priamo rasa al suolo dagli Achei.

Troia III - IV - V (2000 - 1800 a.C.): tre villaggi distrutti ognuno dopo poco tempo dalla fondazione.

Troia VI (1800 - 1300 a.C.): grande città a pianta ellittica disposta su terrazze ascendenti, fortificata da alte e spesse mura, costituite da enormi blocchi di pietra squadrati e levigati, con torri e porte. La distruzione della città dovrebbe essere avvenuta intorno alla metà del XIII secolo a.C. forse a causa di un terremoto.

Troia VII a (1300 - 1170 a.C.): la città precedente fu immediatamente ricostruita, ma ebbe vita breve. I segni di distruzione da incendio hanno indotto Blegen a identificare questo strato come quello corrispondente alla Troia omerica.

Troia VII b (XII - XI secolo a.C. fino a circa il 950 a.C.).

Troia VIII (VIII secolo a.C.): colonia greca priva di fortificazioni.

Troia IX (dall'età romana al IV secolo): costruzioni romane edificate sulla sommità spianata della collina e rifacimento.

L’insediamento decadde con la caduta dell’Impero Romano d’Occidente.

9) I kurgan delle steppe - ca 3.000 anni fa [inizio scavi nel 1986]

Nella necropoli di Filippovka, ai piedi degli Urali, nella Russia meridionale, sono stati ritrovati tra i 25 tumuli funerari (“kurgan”) alcuni oggetti di sconvolgente bellezza che fanno luce sulla storia delle più antiche popolazioni nomadi delle steppe euroasiatiche durante il I millennio a.C.
L’identità del popolo rappresentato da questi oggetti resta incerta; ma la regione, a oriente del Mar Nero, terra natale degli Sciti, è stata associata fin dai tempi più antichi ai Sarmati, nomadi di lingua iranica.
Nei kurgan sono stati ritrovati degli splendidi cervi di legno, ricoperti d’oro e d’argento. I cervi, alti ca 60 cm, hanno corpi riccamente ornati e corna ramificate in volute decorative che si sviluppano alte sopra le loro teste, sovente superando le dimensioni dell’animale. I depositi contenevano, inoltre, centinaia di placche d’oro, decorate con forme animali in modo assai elaborato e utilizzate per ricoprire recipienti di legno. Un vaso di grandi dimensioni reca una decorazione d’oro che riproduce la testa, le zampe e la coda di un orso, con intarsi in vetro per l’occhio, l’orecchio e la narice. E poi diversi altri vasi d’oro e d’argento, coppe in argento, placche d’oro e di bronzo e altri oggetti in osso e legno.

10) Piramide di Cholula - ca 2.300 anni fa [scoperta nel 1999]

La Piramide di Cholula (vicino a Puebla, in Messico), in lingua nahuatl Tlahchiualtepetl (“montagna fatta dall’uomo”) è la più grande piramide del mondo. Misura 500 metri per lato ed è alta 64 metri. È considerata la struttura più grande mai costruita dall’uomo, con i suoi 4,5 milioni di metri cubi. È composta, in realtà, di quattro momenti costruttivi sovrapposti, di cui uno solo è stato nuovamente portato alla luce.
La piramide oggi appare come una collinetta naturale ricoperta di erba, suddivisa in quattro gradoni. Originariamente aveva, come molte piramidi dell’area messicana, 365 gradini, a simboleggiare i giorni dell’anno. Sulla sua sommità, dove una volta si trovava il tempio, ora si trova una chiesa cattolica dedicata a Nuestra Señora de los Remedios, che risale al 1.594.