a cura della redazione del sito arianuova.org
Le scoperte riguardanti la più remota antichità dell’uomo stanno aprendo fra gli studiosi interessanti interrogativi e dibattiti a proposito della ciclicità dello sviluppo sociale.
Scoperte come la “macchina di Anticitera” (il più antico calcolatore meccanico conosciuto, databile intorno al 150-100 a.C.,) o le “batterie di Baghdad” (un manufatto creato durante la dinastia sassanide dei parti: una giara contenente un cilindro di rame, ottenuto arrotolando un sottile foglio dello stesso materiale, il quale a sua volta conteneva una singola barra in ferro, la quale era isolata dal cilindro tramite un tappo di asfalto — rame e ferro costituiscono una coppia elettrochimica, la quale in presenza di un elettrolita, genera una differenza di potenziale oggi nota con il nome di Volt) oppure, ancora, i raffinatissimi strumenti chirurgici (destinati a complesse e delicatissime operazioni ai denti e al cervello) rinvenuti in Pakistan durante gli scavi nei siti della civiltà dell’Indo-Sarasvati, paiono quanto meno anomali all’interno degli attuali paradigmi della storia, il cui sviluppo è considerato perlopiù in senso lineare: da un iniziale stato di barbarie al lento e faticoso sviluppo della civiltà. Questa concezione lineare della storia potrebbe subire un notevole discredito, a favore di uno sviluppo di tipo ciclico.
E, in effetti, le più antiche e importanti civiltà umane illustrano una concezione della storia in senso ciclico, indicata attraverso un vasto arco di tempo che da una Età dell’Oro discende sempre più in basso, fino a giungere a una Età del Ferro, per poi compiere un qualche tipo di saltus evolutivo che permette di ritornare a una nuova età aurea.
Alcuni studiosi, oggi, ritengono addirittura che il succedersi di queste epoche, stando all’interpretazione dei testi sopravvissuti di antiche culture, seguirebbe una precisa scansione temporale, corrispondente alla precessione degli equinozi. Ma questo sarebbe, in fin dei conti, solo un dettaglio.
In India, per fare un esempio, si parla del mitico “giorno di Brahma” per indicare l’intera successione delle quattro ère, mentre un certo numero di tali giorni costituirebbero un intero “anno di Brahma” (similmente, Platone parla del Grande Anno).
In alcuni testi sapienziali dell’antica India i quattro periodi nei quali si svolge l’esistenza del mondo, detti yuga, recano i seguenti nomi: satya (o krita), treta, dvàpara, kali. La durata dei quattro yuga (in un arco di tempo immenso che, secondo taluni studiosi, supererebbe i 4 milioni di nostri anni umani) rappresenta un mahayuga (‘grande yuga’). Alcuni testi raggruppano poi all’incirca un migliaio di mahayuga all’interno di un grande ciclo cosmico detto kalpa, alla fine del quale giungerebbe il cosiddetto pralaya, un riassorbimento cosmico seguito poi da una nuova fase di creazione (shristi).
È forse errato prendere le indicazioni e i calcoli indicati dagli antichi testi (che peraltro differiscono fra loro) in modo letterale e ritenere – come fanno talvolta gli studiosi – che essi siano frutto di precise indicazioni matematiche; ci si dimentica troppo spesso che gli antichi testi indiani sono opere di poesia (seppur considerata ‘rivelata’), oppure trattati mistico-sapienziali in cui la numerologia assume un valore simbolico ancor prima che concreto. Tuttavia l’idea centrale — di una infinita successione di cicli — è assai suggestiva e va esaminata con il massimo interesse.
È ormai riconosciuto che nell’antica Mesopotamia, in Egitto, in India, in Pakistan, in Iran (basti pensare alla civiltà di Jiroft, scoperta solo nel 2001 e sviluppatasi nel III millennio a.C., le cui conoscenze della scrittura hanno rimesso in discussione il primato della Mesopotamia come sede della prima civiltà urbana; oltretutto, sono in corso di approfondimento i legami di questa nuova civiltà con quella sumera e con quella dell’Indo-Sarasvati), le conoscenze che gli antichi possedevano in ambito astronomico, geometrico, architettonico, idraulico e ingegneristico, artigiano e artistico, chirurgico e medico, insieme a molti altri elementi legati a una cultura altamente civilizzata, fossero incredibilmente sofisticate. E, oltretutto, non possono essere scaturite dal nulla, così, all’improvviso. Sembrano, più probabilmente, frutto di una lunga crescita e sviluppo. La cosa certa, invece, è che a un certo punto è intervenuto una sorta di oscuramento, che ha fatto cadere nell’oblio queste conoscenze, obbligando l’uomo a ripercorrere la linea di sviluppo culturale e a riscoprire (su nuovi presupposti e su nuove basi) quanto già scoperto in precedenza. Ma come è potuto accadere questo decadimento e oscuramento totale?
Gli studiosi sono parecchio occupati, oggi, nel cercare delle risposte concrete a una simile questione. Anche perché la risposta potrebbe gettare luci interessanti sullo sviluppo umano tout court e aiutarci a comprendere meglio noi stessi e il mondo in cui viviamo.
È probabile che, alla fine, si giungerà a una conclusione pratica che sarà in grado di conciliare le due visioni del tempo (ciclico e lineare), mostrando come l’evoluzione della coscienza imprigionata nella materia proceda in senso lineare verso una manifestazione sempre più completa di sé (e delle infinite potenzialità che cela al suo interno), mediante linee di sviluppo cicliche che servono a completare e ampliare sempre più il raggio d’azione e la globalità dello sviluppo. In estrema sintesi, ogni successiva età dell’Oro è superiore a quella precedente e, di conseguenza, ogni ricaduta nell’oscurità serve a costruire una base materiale sempre più ampia e profonda alle grandi conquiste dello spirito.
I greci (insieme ad altre antiche popolazioni del Mediterraneo) identificarono i quattro periodi con i nomi assai efficaci di età del Ferro, età del Bronzo, età dell’Argento e età dell’Oro.
L’età dell’Oro (corrispondente al Satya Yuga indiano), veniva considerata dagli antichi greci “l’èra degli dèi”, in cui si dice che gli Dei stessi vivessero sulla terra, incarnati e viventi, per aiutare gli uomini sul sentiero della conoscenza, mentre la successiva età dell’Argento (corrispondente al Treta Yuga), veniva considerata “l’èra dei semidèi”, un’epoca contraddistinta da una grande presenza di maghi, sciamani, occultisti dotati di poteri oggi considerati straordinari. Mentre, in epoche più recenti (vedi Gian Battista Vico), l’età del Bronzo è stata ribattezzata “l’èra degli eroi” e quella del Ferro “l’èra degli uomini”.
Lo stesso mito della torre di Babele, se considerato alla luce del percorso ciclico della storia e dello sviluppo umano, assume un senso pienamente razionale e comprensibile. E così molti altri antichi miti. Che poi sono gli eterni miti di sempre, che assumono forme, coloriture e interpretazioni diverse nelle varie epoche.
A partire da Freud e Jung, infatti, ci stiamo accorgendo che nessuna epoca è del tutto priva di miti. La stessa psicologia e la psicanalisi — che nel secolo XX hanno costituito, per dichiarata volontà dei loro stessi fondatori, uno strumento di critica culturale prima che una cura individuale — si stanno sempre più fatalmente allineando all’individualismo, tradendo quelle premesse e limitandosi a essere strumenti clinici per singoli privati. Il fatto è che certe epoche sono, più di altre, povere di consapevolezza. E così, vivono i propri miti inconsciamente, in forma patologica.
Eschilo, nel suo Agamennone, ricordava già (più di duemila anni or sono) che gli uomini sono fondamentalmente ingiusti quando preferiscono l’apparire all’essere. Oggi, a livello planetario, viviamo in un momento storico di grande oscurità, in cui conta solo l’apparire. Forse, ci troviamo davvero alla fine di un ciclo e, nel fondo della nostra notte, si produrrà un grande e nuovo Risorgimento, una nuova Età dell’Oro. A dispetto del Buio sempre più fitto, è possibile — per chi ha occhi per vedere — incominciare ad assaporare i primi barlumi di una prodigiosa Aurora in via di formazione.