di Tommaso Iorco
(autore tutelato dalla S.I.A.E.)
In Italia, finora, di Satprem è stata pubblicata prevalentemente la saggistica — dal magistrale Sri Aurobindo o l’avventura della coscienza, alla avvincente Trilogia dedicata a Mère, fino alle ultime vibranti testimonianze contenute ne La rivolta della terra e in Evoluzione 2.
Ma i quattro racconti da lui realizzati, insieme ai due romanzi (Il cercatore d’oro e Attraverso il corpo della terra), da un punto di vista strettamente letterario sono ancora più belli e seducenti, in quanto la sua prosa, così naturalmente poetica, è libera di prendere il volo e riesce a condurre il lettore in atmosfere vertiginose che rivelano il loro spirito più genuinamente magico, incantato, avvolte in una qualche armonia segreta, ma al tempo stesso scoppiettanti di una sottile ironia tipicamente francese.
Sujata, l’adorata compagna di Satprem, gli chiedeva talvolta di scrivere delle fiabe. E, in effetti, i racconti che lui ha scritto hanno una forte tinta fiabesca; c’è una semplicità quasi infantile nel descrivere anche gli accadimenti più complessi (e questo è certamente merito di quel suo inveterato rifiuto di fronzoli artificiali e sterili retoriche) e, al tempo stesso, la freschezza che sgorga dalla sua sorgente ispiratrice si nutre di una sapienza sofisticatissima nell’uso del linguaggio, capace di trascrivere i moti più profondi dello spirito con sorprendente spontaneità, evitando con cura di fare ricorso a tradizioni più o meno stereotipate, e tuttavia senza mai intaccare sia pur minimamente la profondità del simbolo e la ricchezza delle immagini, così cariche di potenza luminosa e sovversiva.
Peraltro, in francese, la distinzione fra racconti e fiabe è, anche da un punto di vista strettamente terminologico, esilissimo: tra conte (racconto) e conte-de-fées (fiaba — letteralmente, ‘racconto-di-fate’) il passo è davvero breve. Ed è un altro francese, tale Loeffer-Delachaux che, nel suo Le symbolisme des contes de fées, mostra come gli autori dei ‘contes-de-fées’ si curino di dotare le loro opere «di chiavi d’argento, di chiavi d’oro, di chiavi di diamante»: le chiavi d’argento aprono le camere della purificazione, le chiavi d’oro le camere della conoscenza, le chiavi di diamante le chiavi del potere.
Entrare negli intrecci fiabeschi che Satprem crea, equivale a perdersi (o a ritrovarsi, a seconda dei punti di vista!) in una foresta vergine brulicante di creature fantastiche (eppure così familiari) e di situazioni surreali (ma talmente verosimili!) che, alla fine, mostrano l’insensatezza di tutti i sentieri costruiti dall’uomo e suggeriscono lo spalancarsi, nel momento in cui si abbandonano i percorsi doviziosamente indicati nelle noiose mappe del noto, di un grande Possibile.
Su tutto, prevale, sempre, il senso simbolico, anche nei dettagli apparentemente più casuali; la narrazione è pullulante di indicazioni non solo profonde ma attualissime e fortemente impegnate.
Già Italo Calvino si accorse che «le fiabe sono vere» e quanto sia difficile «costruire un sogno senza rifugiarsi nell’evasione»; l’unica determinante è, come sempre, il grado di penetrazione di coloro che le leggono.
Offriamo dunque un breve riassunto di ogni singolo racconto-fiaba di Satprem (tre sono stati pubblicati dalla casa editrice Laffont, mentre uno è stato pubblicato postumo a cura dell’Institut de Recherches Évolutives), per quanti non conoscono il francese, sperando che ciascuno di essi presto possa vedere la luce una adeguata edizione italiana. E, magari, chissà, anche qualche bel cartone animato!
Il primo racconto, pubblicato nel 1979, porta il titolo Gringo e costituisce a nostro avviso il libro-capolavoro di Satprem.
In italiano è stato pubblicato dall’editore Neftasia nel 2011 (per informazioni vai al nostro articolo specifico su GRINGO e al nostro CATALOGO on-line).
Satprem rievoca qui la propria esperienza nella foresta vergine della Guyana, effettuata all’età di venticinque anni, ma soprattutto l’avventura venticinquennale vissuta accanto a Mère, mostrando tutto un tragitto che dalla foresta pre-umana conduce a una misteriosa foresta post-umana.
È una sorta di libro della giungla al rovescio. Anziché raccontare le avventure di un piccolo d’uomo che ritorna alla vita animale, narra le vicende di un giovane che vive all’interno di una tribù selvaggia della foresta amazzonica e che cerca il modo per uscire dalla Tribù umana e il passaggio a un ‘dopouomo’.
È, insomma, la leggenda dell’evoluzione, nella quale un posto assolutamente determinata viene svolto da “l’Antica dell’evoluzione” (una forma della Grande Dea), che corrisponde qui alla regina della tribù (attorniata da una generale incomprensione e, talvolta addirittura, da un odio più o meno celato dietro un rispetto carico di incomprensione e di ignoranza).
Il giovane Gringo, in compagnia della sua compagna Rani, viene invitato dalla Regina a effettuare una esplorazione nel passato della terra (in Egitto, in Atlantide, nei paesi artici), in cui ogni volta si trova costretto a forzare le barriere dei difensori della Legge stabilita (che questi abbiano i panni di antichi iniziati, di membri della tribù amazzonica o di scienziati moderni il discorso non cambia), poiché ogni vetta raggiunta in un determinato ciclo umano diventa l’ostacolo per l’avvento del ciclo successivo.
Ma, ancor di più, Gringo viene invitato dalla Regina a effettuare una esplorazione nell’avvenire della terra, in un futuro umano, o meglio postumano, ancora in gestazione.
Così, per gradi successivi, Gringo e Rani oltrepassano una serie di simboliche ‘porte’: la “porta di brace”, la “porta di giada”, la “porta blu”, la “porta di neve”, fino ad arrivare a oltrepassare la “porta nera” della nostra epoca attuale, trovandosi di fronte a tutta l’assurdità di questo moderno circo (descritto qui con impareggiabile umorismo) — e al “minuto zero” in cui gli uomini, finalmente, dicono di NO alla loro legge soffocante e acconsentono a spalancare «i nuovi occhi della terra».
Si tratta, come dicevamo, del più bel racconto in assoluto di Satprem, quello più ricco di carica visionaria. Mentre lo si legge, si riesce a visualizzare l’intera vicenda con una forza talmente avvincente da renderlo vivo e vibrante agli occhi dell’immaginazione. Questo racconto meriterebbe davvero la trasposizione in cartone animato.
Quasi vent’anni dopo, ovvero nel 1997, Satprem pubblica un nuovo racconto: Bigorneau.
Per la precisione, il titolo del libro è La clef des contes, poiché contiene una lunga introduzione nella quale l’Autore offre alcune riflessioni, come sempre di grande attualità, invitando a considerare come, dalla formazione della terra, la materia abbia subito numerosissime trasformazioni prima che l’uomo potesse divenire quello che attualmente è; ed essendo l’evoluzione un processo in continuo sviluppo, noi stessi facciamo parte di questo prodigioso Disegno che, in un certo senso, è una fiaba perpetua. Tutto sta nel sapere afferrare la vera chiave di questa fiaba.
Questo racconto, al pari del precedente, è sostanzialmente autobiografico; ambientato in quella Bretagna che di Satprem ha visto i natali, possiede un forte retrogusto celtico, sebbene l’azione si svolga ai giorni nostri.
In una sorta di prologo, si narra di un uomo molto vecchio, che vive sulle pendici di una montagna immersa fra nevi immacolate, alla sorgente di grandi fiumi e attorniato da grandi ghiacciai scintillanti al sole. In questo luogo incantevole si manifesta a lui “la Dama delle Sorgenti” (di nuovo, una forma della Grande Dea), per dirgli che la vita umana non è destinata a essere quella tragedia che finora è sempre stata. In realtà, una meravigliosa fiaba terrestre si sta preparando dietro il velo, ma affinché la Gioia possa manifestarsi, la Dea ha bisogno di un essere umano, rappresentativo dell’intera specie, capace di perforare, mediante il proprio grido, questa vecchia e soffocante coltre di dolore. E conclude il suo discorso con queste parole: «Il mio Dolore vuole ottenere la risposta dagli uomini… in qualunque modo».
A questo punto inizia il racconto vero e proprio. Bigorneau è un giovane bretone, vivace, simpatico, curioso, che vive nei pressi di Belle-Île e adora l’avventura in mare aperto — ma che diventa irrimediabilmente di pessimo umore quando mette piede a terra. Un giorno, però, Bigorneau sbarca in un paese chiamato “MaiPiù”: dappertutto, fili spinati e uomini in divisa con il mitragliatore puntato. Uscito da quell’inferno, 536 giorni dopo, inizia a cercare disperatamente il paese del “NonAncora”. E, passo dopo passo, il suo corpo viene conquistato dall’Ignoto, per essere infine afferrato da un “formidabile POSSIBILE”.
Nel frattempo, il paese “MaiPiù”, quasi inavvertitamente, invade tutto il pianeta, trasformandolo in un ‘lager di lusso’, munito di televisori e di impianti satellitari e di tutti quei comforts che possano soffocare l’uomo senza che questi neanche se ne avveda.
Infine, “qualche sorriso più tardi”, si produce un’Invasione divina e la grande Impostura viene finalmente smascherata, messa a nudo, dissolta. È il Miracolo della Terra… Quell’impossibile Miracolo che la Dama delle Sorgenti ha promesso che avrebbe ottenuto “in qualunque modo”. La stessa soffocazione dell’uomo costituiva, in questa prospettiva, il primo passo verso una radicale presa di coscienza della fondamentale incapacità umana a creare un mondo di autentica gioia e alla conseguente necessità di chiamare ardentemente una Possibilità ALTRA, ben al di là di qualunque consolazione filosofica o religiosa.
Un paio d’anni dopo, nel 1999, Satprem scrive L’Oiseau Doël e, sebbene egli stesso abbia privilegiato altri progetti editoriali e il libro venne pubblicato postumo (nel 2008, a un anno dalla sua dipartita), il livello d’ispirazione non è per nulla inferiore agli altri tre racconti. L’impressione è che Satprem non abbia voluto pubblicare questo racconto a causa del fatto che la compagna del protagonista, a un certo punto, scompare e lui si trova costretto a continuare il percorso da solo, per poi infine ritrovarla. Essendo una fiaba fortemente autobiografica, Satprem molto verosimilmente non volle dare corpo (mediante la pubblicazione) a una simile eventualità — che poi nella realtà non si produsse. È come se, scrivendo questo racconto, avesse voluto esorcizzare una simile eventualità (la scrittura è una azione capace di esercitare effetti occulti perlopiù ignorati dai lettori), mentre poi, diciamo per scaramanzia (per semplificare), non ha voluto mandarlo in stampa.
A ogni modo, in questo racconto si narra di Yogmâyâ, la grande Maga-dei-mondi, la quale dà vita, per mezzo del proprio potere, a una moltitudine di forme vegetali e animali in modo da popolare il mondo e divertirsi nel disvelare a poco a poco il suo «bizzarro Mistero curioso». Giunge così a creare anche gli uomini e, fra di essi, nasce Nil, un “miscredente” che, sentendosi un “buono a nulla”, realizza di essere, proprio per questo, “pronto a tutto” (a differenza degli altri uomini che ha intorno e che gli appaiono così seriosamente occupati nei loro affari e tanto desiderosi di dimostrare il loro valore, materiale o spirituale che fosse). Osservando questo singolare campione umano, Yogmâyâ dice fra sé e sé: «Ecco finalmente qualcuno che ha bisogno di me!». Così, lo introduce nella foresta dell’avvenire e lo mette sulle tracce della “grande Dea della Bellezza” che, per una sorta di maleficio, si era trasformata in pietra e occorreva perciò liberarla dall’incantesimo.
L’impresa si rivela presto terribilmente rischiosa, perché chi tenta di liberare questa “Regina-di-Bellezza”, rischia di essere a sua volta trasformato in pietra. E tuttavia, Nil vuole tentare ugualmente l’impresa e perciò si getta anima e corpo in questa giungla intricata e temibile, fino a intravedere la geografia di un mondo nuovo, un mondo solare, infiltrarsi nelle crepuscolari coordinate del vecchio, al modo di una «cateratta cataclismatica», volta a impregnare la roccia dell’incosciente materiale con un’Aria «sconosciuta, ma così densa e talmente leggera e folgorante» da perforarne la millenaria resistenza mortale e insufflarvi la Vita che non muore.
Nella foresta, Nil-Doël incontra anche la sua Doelle, colei che avrebbe condiviso con lui questa avventura e la cui voce cristallina ricordava un poco quella de «la Grande Madre della nostra ignota Magia», ovvero Yogmâyâ (al punto che Nil arrivò perfino a chiedersi: «si tratta forse di sua figlia?»).
Dopo una serie di peripezie, Nil trova la Vita vera, «senza tombe, senza muri, senza nulla che si fossilizzi da qualche parte, senza niente che separi.» Fu a quel punto che si produsse «un silenzio come una goccia d’eternità sulla terra.» E che Nil si accorse di trovarsi al tempo — corrispondente alla nostra èra — in cui la Morte sta per morire: «la vecchia roccia del fondo stava per far scaturire il proprio Miracolo su una piccola spiaggia nuova.»
Resta soltanto «un’ultima metamorfosi da produrre.»
Ma alla fine la Roccia cede e «la grande Dea di Bellezza uscì dalla pietra per creare la sua nuova realtà.»
Passano altri due anni e il calderone magico di Satprem produce (nel 2001) un nuovo — affascinante e strano — racconto: Mémoires d’un Patagonien. La sua struttura, a differenza dei tre racconti precedenti (e dei due romanzi), non è lineare (o, per meglio dire, ciclica), ma meravigliosamente mescolata a interludi carichi di potenti riflessioni. Difficile pertanto riuscire a farne un sia pur breve riassunto. In ogni caso, la vicenda è ambientata nella Patagonia di 7700 anni fa (o forse fra 7700 anni?), ovvero in quella zona selvaggia che, ancora oggi, risulta fra le meno popolate della terra.
Il racconto narra di un ragazzino, Vicki, come al solito estremamente vispo e ribelle (inutile dire che anche questo racconto è fortemente autobiografico), che vive con la madre su una delle isole del Kermadec (quell’arcipelago ora appartenente alla Nuova Zelanda, formato da isole e isolette perlopiù disabitate). E anche qui c’è la figura della Grande Dea, la quale si mostra al giovane Vicki, meravigliosa, imperlata di schiuma, fra i venti e la risacca della ‘gola del Leone’, indicandogli una via ancora tutta da esplorare, la sola che valga davvero la pena di percorrere. E c’è pure una ragazzina, naufragata lì come per caso, originaria dell’India, che diventa immediatamente l’inseparabile compagna di questo giovane avventuriero irriducibile. Ma lo svolgimento del racconto si snoda quasi tutto ‘all’interno’, e la serie di accadimenti esteriori è ridotta davvero ai minimi termini. Fino al prodursi dell’ultima nota finale, che coinvolge la vita tutta, interna ed esterna, indicando una prodigiosa trasformazione della natura terrestre:
«La Morte è morta
Gli uomini hanno finito la loro vecchia storia mortale
Un Canto Nuovo è nato sulla terra
Un’altra Pulsazione che non si chiude sul vecchio dolore
Una Vita nuova cammina sotto i nostri passi.
Bisogna imparare la vita nuova.
Hanno tanto cercato e corso
per trovare la guarigione di tutto
ma finché la morte esiste, nulla sarà guarito!
Bisogna guarire dalla vecchia abitudine mortale delle bestie
Bisogna trovare il modo nuovo di vivere».
Un nuovo modo di vivere NELLA REALTÀ MATERIALE.
A questo punto, la ragazzina indiana, la sua amata di sempre, «guardò il suo Dioniso come per la prima volta al mondo. Lui vacillava sulle proprie gambe, non sapeva più tanto bene come camminare, come se potesse volare altrettanto bene, era un altro mondo e un’altra Legge che non conosceva più la vecchia gravitazione verso le vecchie tombe. Il peso del mondo era caduto d’un solo colpo.
Era il tempo della Vita Nuova.
Il tempo di un’unica piccola nota giusta che farà dischiudere la Bellezza della terra e dei nostri cuori».