(a cura della redazione di arianuova.org)
I libri di storia ci raccontano, pressoché all’unanimità, che la civiltà attuale è sorta nel vicino Medio Oriente (nella zona denominata dagli antichi “Fertile Mezzaluna”, comprendente le regioni del Nilo, del Tigri e dell’Eufrate), che venne ereditata e arricchita dai greci e dai romani e che, in ultimo, le popolazioni europee la resero moderna e si preoccuparono di diffonderla nel mondo intero. In questo quadro, la storia del resto del mondo, inclusa l’India e la Cina, è vista come poco determinante — tutt’al più, ne forma la cornice.
Eppure, le culture egiziana e mesopotamica, al pari di quella greco-romana, non si consideravano le più antiche in assoluto, ma guardavano con reverenza civiltà dell’Oriente alle quali si erano ispirate e avevano tratto la maggior parte dei loro elementi più importanti — riferendosi in modo particolare alla civiltà dell’Indo-Saraswatî, che gli archeologi contemporanei, basandosi sui più recenti studi, fanno risalire senza ombra di dubbio al Paleolitico.
Tuttavia, nonostante le scoperte più recenti (e non solo in ambito archeologico) avvalorino e confermino la reverenza dei popoli mediorientali dell’antichità nei confronti del più lontano Oriente, gli intellettuali europei faticano a riconoscere il ruolo capitale svolto dall’India nella formazione della civiltà del Mediterraneo. Il motivo di tale reticenza è che ciò permette loro di inquadrare l’attuale civiltà entro la struttura greco-romana, ben fissa sul basamento giudaico-cristiano e poggiante sul terreno delle vicine popolazioni mediorientali, per sottolineare come la moderna civiltà mondiale abbia un pressoché esclusivo stampo europeo (ricordiamo che per civiltà si intende lo sviluppo della vita urbana, la nascita e la diffusione della scrittura, l’utilizzo dei metalli, la scoperta di leggi scientifiche e la loro applicazione in ambito tecnologico).
Eppure gli storici ci dicono che fino al diciassettesimo secolo d.C., l’Europa si è trovata in una lunga èra che essi stessi hanno definito di oscurantismo, giacché non esistevano le scienze esatte (come la matematica), né la medicina. Intorno al settimo secolo a.C. si visse un momento in cui quelle spesse tenebre vennero fugate da una breve ma intensa luce, quando in Grecia affluirono alcune conoscenze provenienti dall’Oriente che diedero nascita alla raffinata cultura dell’Ellade. Questo periodo viene considerato il primo destarsi dell’Europa dalla propria letargia, e conobbe il suo apogeo con l’età di Pericle (461-429 a.C.); poi, però, tutto ricadde nell’ombra, fino all’avvento del glorioso Rinascimento.
È bene ricordare come prima di tale rinascita, le popolazioni stanziate in Europa utilizzassero i numeri romani, e perfino i sedicenti matematici effettuavano i loro calcoli utilizzando un rudimentale abaco. I numeri decimali non erano conosciuti e la scienza si trovava fortemente impedita nella sua crescita. Le università europee, in epoca medioevale, erano dei centri in cui gli studiosi erano perlopiù amanuensi intenti a copiare in elegante calligrafia testi religiosi, mentre la medicina era interamente nelle mani dei preti. Anche il valore dell’igiene non era granché riconosciuto, ragion per cui in Europa si diffondevano piuttosto frequentemente vaste epidemie. La religione governava su tutto. I preti avevano l’ultima parola in ogni tipo di materia e su ogni tipo di controversia. Le organizzazioni ecclesiali cristiane erano continuamente occupate a dare la caccia alle ‘streghe’ e agli ‘eretici’, arrivando a bruciarli sul rogo in grandissima quantità. Le stesse epidemie si diceva fossero causate da questi miscredenti, che rappresentavano il diavolo e diffondevano il maligno nel tessuto sociale, allo scopo di distruggere la cristianità. In molti ospedali, i preti fungevano da dottori e le suore da infermiere, senza avere ricevuto una seria educazione in materia medica (la stessa parola ‘dottore’ per indicare il medico, deriva dal termine utilizzato all’interno della gerarchia ecclesiastica per designare il più alto grado tra i preti).
Ma, come accennavamo, alcuni secoli prima dell’avvento del cristianesimo, nella fascia sudorientale dell’Europa ci fu una massiccia irruzione di conoscenze, che rese in breve tempo la Grecia un importante centro culturale. L’attuale Turchia all’epoca non era occupata dai turchi, e si chiamava Asia Minore. Le sue zone costiere erano abitate da popolazioni attiche, mentre nelle parti centrali erano presenti varie tribù di origine indo-iraniana dalle quali i greci appresero gran parte delle nozioni scientifiche, matematiche, misteriche e filosofiche che trovarono terreno fecondo in acuti intelletti quali Archimede, Eraclito, Parmenide, Pitagora, Platone.
Oggi sappiamo che è dall’India che tali conoscenze provenivano. L’università di Takshila (takshashila), nell’attuale Pakistan, era un grande centro di cultura sorto nel 700 a.C. (circa sessanta erano le materie che vi si potevano studiare), in cui si recavano studiosi (fino a diecimila!) provenienti dall’Iran e dall’occidente. Nel primo millennio a.C., l’Iran era fortemente indianizzato, al punto che lo si può considerare una naturale diramazione della cultura e della civiltà indiana. Alla sua estremità si estendeva l’Asia Minore, ovvero l’attuale Turchia, che funse da legame tra greci e persiani. Nel sesto secolo a.C., grazie a Ciro il Grande, l’Iran — diventato nel frattempo la Persia —, comprendeva nei propri confini l’Assiria, la Babilonia, l’intera Asia Minore, gran parte della Grecia e, poco dopo (con Cambise e con Dario), anche l’Egitto; così, mentre era impegnato a espandersi verso occidente, le sue regioni orientali erano al sicuro, in pace, e conservavano ottimi rapporti con i vicini abitatori dell’India, ricevendo da questi la grande cultura vedico-upanishadica. E proprio nell’estremità orientale dell’Iran, ai confini con l’India, nel quinto secolo a.C. nacque e visse Zoroastro, che della lotta vedica tra Deva e Asura, trasse la propria dottrina incentrata sullo scontro tra Ahura Mazdâh e Angra Mainyu. Il monoteismo aveva raggiunto la sua piena maturazione con la letteratura upanishadica, da cui hanno tratto ispirazione, oltre allo zoroastrismo, l’ebraismo e la religione di Amenofi IV (meglio conosciuto come Akhenaton, vissuto tra il 1377 e il 1358 a.C., sposo di quella regina Nefertiti il cui padre era il sovrano indiano Dasaratha) sebbene la sapienza upanishadica non riuscì ad attecchire nell’Egitto faraonico, e scomparve con la morte del suo unico patrono. Il principio del monoteismo venne quindi importato dall’India, giungendo in Medio Oriente e diffondendosi presso i popoli semitici, prima nell’ebraismo, in seguito nel cristianesimo e nell’islamismo. Il mitraismo fu un’ulteriore diramazione della cultura vedica, e si diffuse ampiamente in Iran, in Europa (ad eccezione della Grecia, l’intero territorio dell’Impero Romano ne fu coinvolto) e in Egitto. Mitra corrisponde al dio vedico solare, e i suoi adepti ne celebravano la nascita il 25 dicembre, data che venne in seguito utilizzata dai cristiani per indicare il giorno della nascita di Gesù.
Inoltre, viaggiatori dall’India esplorarono sin dai tempi più remoti l’intera area mediorientale. Fonti occidentali ci dicono che nel terzo secolo a.C. una grande comunità indiana viveva in Alessandria d’Egitto. E sappiamo anche che i commercianti indiani dominarono le strade del commercio navale (sanscrito nav gatih) fino al momento dell’ascesa dell’Islam. Grazie a questi continui contatti, la filosofia, la scienza e la spiritualità indiana giunsero presso i popoli mediterranei dell’antichità.
Nel sesto secolo a.C., Pitagora (considerato il primo philósophos) studiò in modo sistematico la matematica e la filosofia presso gli hindu. Pitagora nacque a Samo, un’isola non molto lontana dalle coste dell’Asia Minore, intorno al 500. All’epoca, i greci non avevano sviluppato la matematica e le scienze. L’educazione si limitava alla musica e alla ginnastica. E dopo avere studiato musica e ginnastica nella sua isola natale, Pitagora sentì il bisogno di viaggiare allo scopo di acquisire ulteriori conoscenze. Si recò in Egitto — grazie al fatto che Policrate, il tiranno di Samo, era in ottimi rapporti con il faraone Amasi — e vi studiò la geometria, che gli egizi avevano a loro volta appreso dagli indoari, a quei tempi noti come grandi conoscitori di geometria e astrologia. Durante la sua permanenza in Egitto, avvenne un’invasione da parte dei persiani, i quali lo fecero prigioniero e lo condussero in Persia, dove egli risiedette per qualche tempo, in Assiria e a Babilonia che, all’epoca, non era sotto la dominazione semitica, essendo parte dell’impero persiano (dopo che i medi e i parti occuparono l’intera regione, prima abitata da popolazioni indo-iraniane quali i sumeri e gli akkadi). Infine, Pitagora si diresse in India (nella regione del Pañjab, pare, ma forse anche nelle regioni himalayane), dove approfondì i concetti matematici appresi in Egitto e conobbe alcuni aspetti della cultura sapienziale indiana che lo indussero a cambiare radicalmente il suo modo di vivere e di pensare. Dopo venti anni di peregrinazioni, Pitagora decise di fare ritorno in Grecia, e — a causa di alcune divergenze con Policrate — si stabilì a Crotone (verso il 530) dando vita a una comunità di iniziati, e divulgando concetti tipicamente indiani quali l’immortalità dell’anima, la metempsicosi, l’unità di tutte le specie viventi (comprese quelle vegetali), l’armonia esistente tra l’insieme e le sue parti, il vegetarianesimo, ecc. La sua comunità era divisa tra due tipi di ricercatori: gli “akousmatikoi” (daakousmata, ‘cosa udita’ — con ogni probabilità un adattamento greco della parola sanscrita shruti, dall’identico significato), i quali cercavano di condurre una vita ascetica; e i “mathematikoi”, i quali cercavano di studiare la natura della realtà (da qui nascerà per l’appunto la parola ‘matematica’). Le sue idee circolarono in breve in tutto il mondo greco, giungendo a influenzare, tra gli altri, Empedocle e Platone. E crebbe di pari passo la fama degli studiosi hindu, ispiratori di molti concetti greci quali la teoria atomica di Democrito, i tre ‘umori’ di Ippocrate (corrispondenti in tutto e per tutto ai tre dosha ayurvedici), i quattro elementi (derivati dai cinque indiani, pancabhûta), e così via. Quanto alla matematica, gli hindu esposero le loro formule in un libro, lo Shulva Sûtra, datato intorno al 1500 a.C., a sua volta un’appendice al Kalpa Sûtra, un testo concernente la costruzione di altari e anfiteatri rituali. In tal modo si sviluppò la geometria, per realizzare i cosiddetti yajña kunda, luoghi dedicati alla celebrazione di determinati sacrifici vedici. La trigonometria nacque allo scopo di trovare i siti più adatti, mentre i moti delle stelle erano studiati per la navigazione. Nell’ambito della fisica, ipotesi dell’esistenza dell’atomo sono riscontrabili nella letteratura upanishadica. L’esistenza dei batteri fu concepita nel sesto secolo a.C., e sviluppata nei dettagli nei testi jaina. La medicina e la chirurgia erano conosciute fin dal sesto secolo a.C.
La spiritualità indiana ha sempre incoraggiato la ricerca scientifica, diversamente dalle religioni semitiche che ne hanno spesso ostacolato lo sviluppo. Inoltre, la professione di fede presso i popoli semiti portava a ritenere giusta e vera soltanto la propria confessione, mentre le altre erano ritenute false. Pertanto, non si trattava soltanto di credere in un solo Dio, ma anche in una sola religione. Da qui derivò il concetto di eresia. Sterminare i seguaci delle altre religioni, considerati miscredenti o infedeli, diventò il sacro dovere di ogni persona religiosa. Così nacquero le crociate cristiane e la jihâd islamica.
Quando Alessandro Magno stabilì il proprio impero in un’area comprendente Grecia, Egitto, Asia Minore, Iran, Battria e India nord-occidentale, il trasferimento della conoscenza dall’India alla Grecia venne molto facilitata. Molti soldati dell’esercito di Alessandro sposarono donne indo-iraniane, sicché al ritorno in Grecia i loro figli parlavano il sanscrito (o un qualche prâkrita), influenzando in tal modo la cultura ellenica. Lo stesso Alessandro fu molto attratto dalla cultura indiana. L’università di Takshila impressionò fortemente i greci, e Tolomeo — governatore greco dell’Egitto, che in seguito si rese sovrano indipendente dell’Egitto — fece costruire una grande università in Alessandria d’Egitto, dove un vasto numero di testi indiani furono tradotti in greco e conservati nell’annessa biblioteca. Studiosi provenienti dalla Grecia, dall’Asia Minore, dall’Iran, dall’India e dallo stesso Egitto la frequentavano per studiare o per insegnare. Tra questi, Claudio Tolomeo (85-165 d.C., da non confondere con l’omonimo sovrano), nato in Egitto, redasse un’enciclopedia astronomica sulla base di testi indo-greci, nella quale discusse anche di trigonometria. Tradotto in arabo nell’827, e successivamente in latino sul finire del XII secolo, questo testo fu noto con il nome di Almagest, e venne usato dagli arabi e dagli europei come testo di base di astronomia fino al XVII secolo. Il nome originale del libro non è conosciuto e Almagest (che non riveste alcun significato compiuto né in arabo né in latino) potrebbe verosimilmente essere una forma corrotta di un nome greco o sanscrito. Essendo uno dei temi cari agli hindu, potrebbe trattarsi di un testo sanscrito che Tolomeo tradusse in greco. In tal caso, il titolo originale potrebbe essere Mahishtha (termine sanscrito significante “attorno alla terra”) diventato Almagest dopo varî passaggi, anche perché un solo puntino è necessario in arabo per trasformare mahishtha in magest (da cui al-Magest).
Fra il terzo e il secondo secolo a.C., il potere di Roma crebbe notevolmente, arrivando a espandere il proprio impero fino a includere l’Africa del Nord, l’Asia Minore e l’Europa meridionale. Non avendo un grande rispetto per la conoscenza, i romani distrussero la civiltà greca. I pochi studiosi che si salvarono, cercarono di continuare le loro ricerche, sebbene su scala più ridotta, fino all’età bizantina, quando l’imperatore Giustiniano, nel 529, fece chiudere l’Accademia di Platone ad Atene e distrusse completamente i resti della civiltà greca, ritenendola culla del paganesimo, minante la cristianità. Gli studiosi furono uccisi, o si trovarono obbligati a convertirsi al cristianesimo. Coloro che riuscirono a salvarsi, si rifugiarono in Persia, dove stabilirono una sorta di Accademia in esilio.
Nella prima metà del quarto secolo, Costantino — diventato cristiano — divenne imperatore. Il cristianesimo diventò religione di stato. I non cristiani vennero perseguitati e uccisi da alcuni integralisti cristiani (gli ‘zeloti’). La matematica, le scienze e la filosofia furono messe al bando. L’Europa entrò in un periodo oscuro per la conoscenza. Tuttavia, l’università di Alessandria era ancora attiva in Egitto. Finché, nel 389, l’imperatore cristiano Teodosio ordinò a Teofilo, vescovo di Alessandria, di distruggere tutti i monumenti pagani. Fu così che i cristiani bruciarono la biblioteca di Alessandria, e gli studiosi che ci stavano dentro, nell’anno del Signore 391. Nonostante ciò, alcuni studiosi scamparono alla persecuzione e continuarono il loro lavoro.
Uno dei matematici che si salvarono dall’olocausto fu Hypatia, un grande studioso, o meglio una grande studiosa, visto che è stata la donna più versata in matematica che si conosca. Si dice fosse molto saggia, intelligente, virtuosa e bella. Redasse alcuni commenti sui testi di Euclide e Apollonio, e scrisse libri che affrontavano problemi matematici nuovi, o che ne risolvevano di vecchi. E fu anche autrice di libri di astronomia nei quali inserì alcune tavole indicanti la posizione di taluni corpi celesti, oltre a progettare diversi strumenti scientifici. Anche le dottrine pitagoriche in quel periodo conobbero un rinnovato vigore. Nel 412 un fanatico cristiano diventò il patriarca di Alessandria d’Egitto e diede inizio a una campagna tendente a sterminare gli ebrei e i pitagorici. A Hypatia venne chiesto diverse volte di accettare il cristianesimo. Ma rifiutò sempre — e tale rifiuto le costò la vita. Secondo il resoconto di un autore del quinto secolo, alcuni cristiani le strapparono le vesti di dosso e cominciarono a colpirla con oggetti acuminati, finché morì. Questa fu solo una delle mille atrocità che ebbero l’effetto di arrestare la ricerca scientifica in Occidente, nonché gli influssi orientali, per un migliaio di anni. Di lì a poco, incomincerà l’Inquisizione: sei lunghi secoli di barbare torture, di processi faziosi, di terribili roghi, nel nome di Gesù Cristo.
Non molto diversamente fece l’islamismo. Nel 642 il califfo Omar occupò l’Egitto, e ordinò immediatamente la distruzione di tutti i libri che non riconoscevano esplicitamente il Corano. L’università di Alessandria fu ridotta nuovamente in ceneri (e la quantità di manoscritti era tale che l’incendio proseguì ininterrotto per sei mesi!). Inutile aggiungere che tutti gli studiosi furono sterminati, fatto salvo per quelli che accettassero di abbracciare la fede coranica. In tutto la Libia e nell’intero Egitto i libri furono cercati e bruciati. E, per conseguenza, gran parte della storia e della letteratura dell’Egitto furono persi irrimediabilmente; si salvò soltanto quella piccola parte di testi chiusi dentro le piramidi. Del pari, la letteratura greca conservata in Egitto venne perduta per sempre. Alcuni studiosi greci abitanti ad Alessandria d’Egitto accettarono di abbracciare l’Islam e nascosero alcuni manoscritti nelle loro case; in seguito, li tradussero in arabo. Tra queste traduzioni possiamo annoverare trattati di medicina, testi filosofici, libri di matematica, i quali vennero tradotti alcuni secoli più tardi in latino.
In India, lo scenario era totalmente diverso. Le scienze, la matematica, la logica, la filosofia, l’arte, ogni ramo dello scibile umano continuava a crescere ininterrottamente. Là, l’interesse centrale era la libera ricerca ottenuta mediante l’esperienza diretta, sicché la sperimentazione e il dialogo furono sempre accettati e incoraggiati al fine di ottenere una sempre migliore conoscenza. Un altro elemento che giocò a favore di questo atteggiamento di apertura privo di dogmi, era il fatto che non ci fu mai posto per un concetto teocratico in India: mai una casta sacerdotale dominò l’apparato sociale, e questo lasciò il campo aperto a ogni sorta di indagine e di conoscenza.
Gli ebrei e gli arabi ancora oggi rifiutano di disgiungere il potere politico da quello religioso, mentre i cristiani ci sono arrivati solo in epoca moderna, dopo aspre lotte tra Impero e Papato (sebbene il concordato di Worms risalga al 1122, molta acqua sotto i ponti dovrà ancora passare prima di ottenere una reale separazione dei poteri: le ‘sante’ crociate, la ‘sacra’ Inquisizione, la scoperta dell’America con la relativa distruzione delle culture indigene, la Riforma, la Controriforma, la guerra dei Trent’anni, le colonizzazioni in Africa in India e in Cina, e via di seguito).
Tra i ricercatori che in India hanno contribuito allo sviluppo della scienza, un posto d’eccezione spetta ad Aryabhata, le cui opere vennero tradotte prima in arabo e poi in latino. I suoi libri erano oggetto di studio ai tempi di Keplero, di Copernico e di Isaac Newton. Purtroppo, la maggior parte dei suoi scritti sono andati perduti, purtuttavia, dalle citazioni fatte da studiosi arabi e indiani, scopriamo che fu il maggiore responsabile del concetto moderno di scienza. David E. Duncan, nell’opera Il Calendario, ci parla di Aryabhata in questi termini: «nel 476, in un luogo geografico assai lontano dall’oscuro castello di Carlomagno… nacque un genio hindu… Un miscuglio tra l’astronomo Tolomeo, il matematico Pitagora e il ribelle Bacon, Aryabhata fu uno dei più importanti ricercatori indiani… Aryabhata visse negli anni d’oro dell’epoca conclusiva della gloriosa dinastia Gupta, quando l’India era un centro mondiale di arte, di scienza, di letteratura e di architettura. Studiare era considerato un sacro dovere a quei tempi, e gli hindu colti dovevano conoscere non soltanto l’arte di leggere, scrivere e fare di conti, ma anche l’arte della poesia, della pittura e della musica. Era l’èra del Kâma Sûtra, il testo che affronta l’amore come un’arte raffinata.… Gli scavi attestano la presenza di una vasta classe media che godeva di una prosperità simile a quella esistente nell’epoca aurea dell’Impero Romano». Duncan prosegue poi illustrando come Aryabhata parlasse del sistema solare un migliaio di anni prima di Copernico. Riassumiamo alcune fra le maggiori scoperte attribuite ad Aryabhata: il valore del ‘pi’ greco, calcolato nella misura di 3,1416; la durata dell’anno tropicale, di 365,3586805 giorni; la terra in quanto sfera roteante attorno al proprio asse e attorno al sole nell’arco di un anno; sorprendentemente, egli riteneva che le orbite della luna e dei pianeti sono ellittiche e non circolari; calcolò il diametro della terra in un valore molto vicino alle più moderne misurazioni; la luna e i pianeti non sono luminosi di luce propria, ma per opera della rifrazione dei raggi solari; scoprì che le eclissi lunari sono causate dall’ombra della terra sulla luna, mentre le eclissi solari sono dovute alla luna che si frappone tra la terra e il sole; fece calcoli di equazioni con frazioni e numeri immaginarî (radice quadrata di -1, ecc.).
Ugualmente rilevanti furono le scoperte effettuate dagli indiani in materia medica. Sushruta descrive la dinamica di alcune operazioni chirurgiche concernenti la prostata, la cataratta e il cervello. Charaka, Dhanvantari e Jivaka erano i nomi di alcuni medici ritenuti molto abili. Anche la chirurgia plastica fu inventata e sviluppata in India. Madhavacarya, un medico vissuto nel XII secolo, nel suo libro Madhavaninam scrisse che la vishama jivara (febbre tifoidale) è causata da minuscoli organismi invisibili che vivono nell’acqua sporca e che infettano il corpo quando l’acqua viene ingerita.
Un altro notevolissimo ricercatore fu Bhaskaracarya, che scoprì la forza gravitazionale. Duncan, nell’opera citata, scrisse: «Dopo Brahmagupta, l’India continuò a produrre matematici di rilievo, tra i quali Bhaskara (1114-1185), considerato dagli studiosi del ventesimo secolo l’ingegno più brillante in materia». E fu proprio in quel periodo che l’India del Nord cadde sotto il dominio musulmano. Tutte le maggiori università, Takshila, Nalanda, Odantapuri e Vikramashila furono distrutte e tutti i ricercatori vennero uccisi. L’istruzione venne praticamente bandita e, in breve, l’ignoranza e la povertà assediarono l’India da ogni lato. Perfino i libri di storia vennero bruciati, cosicché gli indiani del XVIII secolo non avevano alcuna informazione circa la loro storia precedente l’invasione musulmana. Fortunatamente, molti testi filosofici, sapienziali, storici vennero portati in Tibet, nello Sri Lanka, in Cina, a Burma prima dell’invasione islamica.
Ma non sempre gli arabi ebbero un atteggiamento di crudo integralismo e di ostilità nei confronti della scienza. Duncan, nel libro citato, dice che «nel 773, circa 250 anni dopo la morte di Aryabhata, una delegazione di diplomatici partiti dalla valle del fiume Indo giunsero nella nuova capitale araba di Baghdad, abbigliati di sete sfarzose, turbanti e splendenti gioielli… Questa inusuale delegazione aveva con sé anche un astronomo, Kanaka. Esperto di eclissi, aveva portato una piccola biblioteca di astronomia indiana da donare al Califfo, che comprendeva il Sûrya Siddhanta e le opere di Brahmagupta (contenenti materiale su Aryabhata). Null’altro è conosciuto di questo Kannaka; uno storico arabo, tale al-Qifti, fece per la prima volta riferimento a lui circa cinque secoli dopo. Secondo questo storico, il califfo si meravigliò della conoscenza racchiusa nei testi indiani. Ordinò immediatamente che venissero tradotti in arabo e la loro sintesi venne racchiusa in un libro conosciuto come il Grande Sindhind». Episodi come questo furono capitali «ai fini di portare i testi dell’India tra i primi ricercatori islamici, da dove avrebbero poi raggiunto l’Europa cristiana tramite la Siria, la Sicilia e la Spagna (a quel tempo controllata dagli arabi). Una versione del Grande Sindhind venne tradotta in latino nel 1126. Questo testo fa parte di quella dozzina di documenti che avrebbero contribuito a fornire una base conoscitiva necessaria per proiettare l’Europa nell’età moderna».
Il periodo che va dal regno del califfo al-Mansur e del suo successore, il califfo Harun al-Rashid (786-809), e il figlio di questi, al-Mamun (809-833), corrisponde al momento in cui i testi indiani vennero tradotti in arabo. Essi venivano studiati insieme alle traduzioni arabe dei manoscritti greci (degli alessandrini e dei nestoriani) che erano scampati dalle fiamme. Studiosi, ingegneri, scienziati e artisti dell’epoca si recavano a Baghdad, dove venivano tenuti in grande considerazione e remunerati adeguatamente. Molti giungevano apportando a loro volta dei manoscritti. Fu una grande èra di traduzioni. E tale operazione fu ulteriormente facilitata quando la prima fabbrica di carta venne aperta a Baghdad, nel 794, utilizzando un procedimento di produzione che gli arabi appresero da alcuni prigionieri cinesi catturati durante la conquista di Samarcanda, nel 712. Quando la traduzione dei manoscritti indiani incominciò, al-Mamun ordinò la costruzione di un complesso bibliotecario e di un museo, completato nell’833, conosciuto come la “Casa della Saggezza” (Bait al-hikma). Era la terza biblioteca del mondo per grandezza, dopo quelle di Takshila e di Nalanda. L’astronomia, l’astrologia, l’ayurveda, la chimica, concetti matematici come lo zero, il sistema decimale, la trigonometria, giunsero dall’India fino a Baghdad. Affascinato dall’astronomia indiana, al-Mamun ordinò anche la costruzione di un osservatorio eretto nell’829 a Baghdad, e subito dopo ne fece approntare un secondo nei pressi di Damasco. Le concezioni indiane causarono una sorta di rivoluzione tra gli abitanti di Baghdad. Quando lessero la traduzione delle opere di Aryabhata, nelle quali si diceva che la terra è una sfera avente un diametro di 8316 miglia, roteante attorno al proprio asse, tentarono di misurarla essi stessi. Uno dei più rinomati matematici arabi fu al-Khwarizmi (780-850), nominato ‘primo astronomo’ e direttore della biblioteca di Baghdad. Egli intraprese tre missioni scientifiche in India allo scopo di incontrare ricercatori e trovare manoscritti. Frutto di tali ricerche fu il libro Kitab al-jabr wa al-muqabalah (“Calcolo mediante addizione e sottrazione”). Tale libro, tradotto in latino (e proprio da al-jabr deriverà il termine ‘algebra’) diverrà un testo classico in uso presso le prime università europee. Nell’825, inoltre, al-Khwarizmi (dal cui nome deriverà la parola latinizzata ‘logaritmo’) diffonderà concetti matematici indiani in un testo che verrà poi tradotto in latino (nel 1120) con il titolo Algoritmi de numero Indorum.
Un altro studioso arabo di rilievo fu al-Battani (circa 850-929), conosciuto in Europa con il nome di Albategneus, che studiò astronomia e usò la trigonometria indiana per mostrare che la distanza tra la terra e il sole varia nel corso dell’anno. Mezzo secolo dopo, un astronomo turco, Abu al-Rayhan Mohammed ibn Ahmed al-Biruni (973-1048), approfondì la matematica indiana e si recò in India al seguito dell’esercito di Mehmud Ghaznawi. Apprese il sanscrito e studiò i testi hindu, e da queste ricerche nacque un suo libro, Kitab-ul-Hind (Kitab fi tahqiq ma li ‘l-Hind), nel quale offre un compendio della matematica e della filosofia indiana (scrisse anche commenti sugli Yoga Sûtra di Patanjali, sulla Bhagavad Gîtâ e sul Samkhyakarikâ di Ishvarakrishna).
Tali traduzioni giunsero in Europa (tramite la Spagna e la Sicilia) e vennero tradotte in latino, in greco, in francese, grazie al lavoro di appassionati studiosi del calibro di Anquetil Du Perron, Adelardo di Bath, Gerardo da Cremona. Galileo Galilei, nel sedicesimo secolo, studiò in modo approfondito la traduzione del Grande Sindhind, accettandone la teoria della rotazione della terra, che gli costò la scomunica e la persecuzione da parte della Chiesa. Ma il periodo oscuro in Europa stava per concludersi e una nuova èra stava giungendo, in cui la sete di conoscenza si sostituì gradualmente al dogma religioso, dando nascita alla moderna civiltà.