La cultura araba è relativamente recente; basti pensare al fatto che la lingua araba fu elevata a dignità letteraria dalla poesia beduina fiorita tra il V e il VI secolo d.C.; peraltro, l’affinità fra la lingua coranica e l’idioma usato dai cantori del deserto è assai stretta. E fu proprio con la morte di Maometto (avvenuta nel 632 d.C.) che la lingua araba ebbe una nuova e più feconda esistenza, grazie anche a quelle conquiste che in meno di un secolo assicurarono al nascente impero arabo vasti territori che si estendevano dai Pirenei all’Asia centrale. E intorno alla lingua del Profeta, nata nei liberi spazi del deserto dove si arricchì di valori teologici conferitile dall’Islàm, venne elevata fin dagli inizi dell’VIII secolo una salda barriera protettiva contro ogni possibile minaccia d’inquinamento che quel carattere sacro non poteva tollerare. Questo fu anche, tuttavia, l’inizio di una stasi i cui responsabili sono da rintracciare massimamente nella fitta schiera di filologi e lessicografi, impegnati in una accanita crociata contro i barbarismo, mai supponendo che quelle eccessive premure per mantenere l’arabo nella sua purezza sarebbero state altrettante cause del suo irrigidimento.
Se fu con la dinastia degli Umàyyadi (660-750) che il purismo sembrò esasperarsi, l’esaltazione della “arabiyya” proseguì anche con i successoti abbàsidi (750-1258), i quali ne accentuarono il carattere di dogma in quanto espressione linguistica del messaggio del Profeta e dell’apologetica religiosa. E quando, subito dopo quell’avvicendamento dinastico, divenne sempre più attuale il problema dei mawali (i convertiti di origine non araba), la posizione della lingua araba non venne intaccata, neppure in Persia, dove le rivendicazioni ad assicurare alla lingua persiana il proprio valore di espressione culturale fu grande.
Nel X secolo l’arabo classico si trovò assillato dal problema dello stile e dell’esasperante dilagare di metafore e metonimie che conferirono alla prosa una preziosità eccessivamente sdolcinata. All’epoca dei selgiùchidi, che per duecento anni dalla metà dell’XI secolo diressero le sorti del califfato di Baghdad, la lingua araba sembrò rivivere il suo glorioso passato. E arabismo e islamismo continuarono ancora a convergere quando turchi e curdi si inserirono nel mondo arabo islamico. Infine, nel movimento di riscossa politica e di risveglio culturale in cui si trovò impegnato il vicino Oriente alla metà del secolo XIX (quando ancora egiziani e sirolibanesi languivano sotto l’egemonia di sultani ottomani), una nuova corrente di rinnovatori diedero vita al neo-arabo, tuttora nel suo pieno sviluppo, che ha saputo conciliare mirabilmente la purezza dell’arabo classico con le più svariate imprescindibili esigenze del pensiero moderno.
La poesia d’epoca preislamica, da considerare con quasi assoluta certezza la più arcaica espressione letteraria degli arabi, si presenta come il prodotto già laboriosamente meditato e perfezionato di un materiale grezzo non pervenutoci. Il componimento classico della poesia araba fu la qasida, entro il quale l’argomento scelto dal poeta trova svolgimento dopo un prologo d’obbligo detto nasìb. Fra i motivi della poesia preislamica troviamo anzitutto il fakhr, in cui il poeta si prefiggeva l’esaltazione della propria tribù; vi è poi il genere higià, ovvero la satira che, sorta in epoca pagana ma sviluppatasi nell’età omàyyade soprattutto, venne fecondato dalla diffusa credenza nell’efficacia malefica dell’insulto lanciato da un poeta, la cui capacità di esprimersi in versi pareva rendere ancora più infamante il vilipendio; di una certa rilevanza fu anche l’elegia, rithà, per celebrare le virtù del defunto; ma su ogni genere prevalse forse il wasf, il genere descrittivo. Una importante differenza stilistica suddivide i poeti arabi fra nomadi e sedentari, ahl al-badw e ahl al-hadar.
Guida della coscienza per i suoi motivi sacri, ma anche norma di vita individuale e collettiva per quegli elementi che a un moderno possono apparire profani, il Corano per i musulmani è anche una delle più brillanti, solenni e efficaci affermazioni letterarie e linguistiche. In esso, talvolta, le sobrie linee di narrazione contrastano in modo singolare con l’intenso clima emotivo che sanno suscitare. La frammentarietà dei motivi tematici e il reiterarsi quasi ossessivo di alcuni racconti relativi soprattutto ai patriarchi biblici, a alcuni personaggi del Nuovo Testamento, alle figure appartenenti alla più antica tradizione araba, certo appesantiscono il testo con intenti pedagogici e dottrinari. Nel complesso, tuttavia, ci troviamo di fronte a un indubbio capolavoro letterario. Per il mondo musulmano, il Corano tratta ogni cosa, dalle prescrizioni della tradizione fino ai più minuti dettagli della vita comunitaria o domestica. Sul piano culturale, l’antichità indiana, greca e persiana è servita da modello, apertamente riconosciuto.
Presso gli arabi, potere religioso e potere politico costituiscono un corpo unico perfino prima della rivoluzione apportata e codificata dal Profeta. L’anno 1 per i musulmani incomincia con l’egira, l’immigrazione del Profeta a Medina nell’anno 622. Dopo la morte di Maometto, il khalifa (calffo) lo rimpiazzò, e rappresenta il sultano che esercita il potere; il corpo dei suoi consiglieri (muftis) costituisce una gerarchia quasi clericale; il primo ministro (visir) era dedito all’amministrazione del regno. Abbiamo già accennato alle due dinastie più importanti: quella degli omayyadi (660-750) e quello degli abbasidi (750-1258).
Durante l’impero omayyade, un testo poetico occupa una posizione centrale, il Ghazal, o “poesia d’amore”, di Umar ibn Abi Rabìa (morto verso il 720), considerato ancora oggi nel mondo arabo l’espressione più pregnante della poesia amorosa, e universalmente apprezzato per la delicatezza delle immagini ricorrenti nei suoi versi, privi di preziosismi e carichi di motivi anche erotici (senza alcuna volgarità).
L’impero abbaside vanta una strutturazione della società arabo-islamica assai più aperta, dando origine a nuovi indirizzi letterari, deponendo la poesia dall’aristocratico piedistallo su cui era stata posta, in favore di una genuina espressione di sentimenti fuori da ogni convenzione e manierismo. Fra poeti bacchici e erotici, fra celebratori di fasti mondani e di terrene ambizioni, non mancano però i poeti mistici, ovvero i sufi, che erano riusciti a richiamare l’attenzione di califfi e dignitari di corte — anzi non mancò chi parve sostenerli, come il vizir Ali ibn Isa, molto influente all’epoca del califfato di al-Mùqtadir (908-924). Anche se, entrando spesso in contrasto con il rigido apparato teologico islamico, i sufi ebbero per lo più una esistenza molto difficile e furono spesso perseguitati e messi a morte. Citiamo, fra i poeti sufi più noti, anzitutto al-Ghazali (considerato il più grande musulmano dopo Maometto), autore di oltre 400 libri, sebbene non fu nell’arte poetica che egli rivelò il meglio di sé, ma negli studi filosofici. Il più grande poeta sufi è, con ogni probabilità, Jalaladdin Rumi (morto nel 1.278), autore del celebre Mathnawi-i-Maanavi (‘Distici del significato interiore’), un poema assai vasto che occupò gli ultimi vent’anni di vita del mistico. Di una certa fama anche Omar Khayyam grazie alle quartine che compongono il suo Rubayyat e Hakim Sanai con le sue Canzoni del derviscio che costituiscono una mirabile presentazione lirica dell’esperimento sufi.
Ma la vera perla della letteratura abbaside è costituita da Le Mille e una notte, delizioso racconto mutuato su modelli indo-persiani. Alcuni racconti in esso narrati sono degli autentici gioielli per estro, inventiva e efficacia realistica.