Sull’altipiano iranico giunsero, intorno al 2.000 a.C., alcune popolazioni indoeuropee fra le quali emersero dapprima i medi, che abbatterono l’impero assiro distruggendo Ninive, poi i persiani che sotto la guida di Ciro il Grande (555-530 a.C.) sottomisero gran parte dell’Oriente antico. Con il successore di Ciro, Cambise, l’impero persiano arrivò a comprendere anche l’Egitto.
Il più grande dei re persiani fu forse Dario (521-486 a.C.), successore di Cambise, che consolidò l’unità del regno dandogli una solida organizzazione statale. Egli ingrandì l’impero a nord, e portò a termine la conquista dell’Egitto, dove fece costruire un canale che univa il mar Rosso al Mediterraneo, come il moderno canale di Suez. Dario venne però in urto con la nascente potenza greca, dalla quale fu sconfitto, come pure accadde a Serse (486-465 a.C.), suo successore. Ciò determinò una grave crisi all’interno dell’impero persiano, che nel 330 a.C., dopo un secolo di gravi lotte interne, fu conquistato da Alessandro Magno.
La raffinata civiltà persiana tuttavia non andò perduta, poiché, entrando in contatto con quella greca, la influenzò notevolmente, portando il suo contributo d’arte e di pensiero. Inoltre, della cultura persiana sono attuali eredi tre popoli:
- quello persiano in senso stretto, che rappresenta il nucleo etnico predominante dell’odierna Persia, o meglio Iran (letteralmente, ‘il paese degli arii’);
- il gruppo persofono che convive con altri gruppi etnici nell’odierno Afghanistan;
- i tagichi dell’Asia centrale (popolazione del Tagikistan e forti minoranze dell’Uzbekistan).
Il persiano fu la lingua d’arte dell’India musulmana prima che l’urdu venisse a soppiantarlo anche nell’uso letterario, ed esercitò una grandissima influenza sul turco dell’Asia centrale e dell’Anatolia. Per quest’ultima via esso giunse a far sentire il suo influsso fin nei dominî europei dell’impero ottomano, come l’Albania; attraverso l’India, tale influsso raggiunse a oriente Malesia e Indonesia. Vediamo dunque che la sua diffusione fu immensa.
Secondo alcuni studiosi, inoltre, l’antica Persia, ovvero la Persia zoroastriana, lungi dal dissolversi nell’Islam, sarebbe sopravvissuta integra sotto mentite spoglie, per islamizzarsi in modo formale e superficiale, e per reagire conquistando a sua volta, da un punto di vista culturale, quel mondo arabo che l’aveva vinta con le armi. Ad avvalorare questa tesi, elementi originariamente iranici sono stati riconosciuti e individuati nel pensiero e nella poesia musulmana e neo-persiana. Soprattutto, è stata attribuita una paternità persiana a diverse forme di eterodossia musulmana, che rappresenterebbero appunto il riaffiorare di tendenze iraniche antiche, invano combattute dall’austero spirito arabo, vittorioso soltanto in apparenza, e piano piano tornate alla luce fino a strappare all’ortodossia l’intero paese.
I documenti più antichi della storia culturale della Persia appartengono al periodo della dinastia achemenide, ovvero dal VI secolo a.C. fino alla conquista di Alessandro Magno, avvenuta nel 331 a.C. e sono redatti in una lingua del sud della Persia chiamata “antico persiano”, che usava caratteri cuneiformi. A questo periodo pare appartenga il nucleo essenziale dei testi classici del mazdeismo di Zoroastro (che sarebbe vissuto fra il IX e il VI secolo a.C.), il cui valore artistico è molto grande. Si tratta di testi conosciuti con il nome di Avesta, fra i quali il più interessante artisticamente è costituito da inni sacrificali detti Yasht, attribuiti alo stesso Zoroastro, insieme a altri canti chiamati Gatha che formano la parte più antica dell’Avesta. I diversi nuclei riflettono fasi diverse di una evoluzione non ancora del tutto chiarita, pur essendo ben visibile il rapporto di stretta parentela con alcune concezioni rigvediche. Nel Rgveda incontriamo deva (dèi) quali Mitra, Aryaman, Vayu, Vata e Yama, e negli Yasht abbiamo daeva come Mithra, Airyaman, Vayu, Vata eYima. Alcuni dèi rigvedici appaiono poi come dèmoni nell’Avesta: Indra, Sarva (Saurva), Nasatya (Nanghaithya). La classe di divinità vediche note come asura vengono eliminate dallo zoroatrismo a eccezione di Ahura Mazdah (chiamato più tardi Ohrmazd) il quale venne elevato allo stato di unico vero Dio dal quale deriveranno tutte le altre divinità. In opposizione a questo Dio sta Angra Mainyu (Ahriman), il Distruttore; e la vita sulla terra viene rappresentata come una battaglia fra Ahura Mazdah e le Potenze del suo seguito (gli Amahraspand o ‘Benefìci Immortali’, e gli Yazatan, una sorta di angeli) da una parte e Angra Mainyu e le sue orde di dèmoni dall’altra. Alla fine del Tempo i corpi degli uomini risorgeranno e parteciperanno a quello che è chiamato il ‘Corpo Finale’, il macrocosmo rinnovato dal quale sarà stato espulso tutto il male. La trasformazione è opera di Soshyans (il Salvatore), che compare alla fine del tempo per dare inizio al regno della beatitudine eterna dopo la purificazione finale di tutte le anime (anche le anime dannate dell’inferno, purificate, emergono per prendere parte alla vita eterna a all’eterna beatitudine). Il simbolismo mistico che fece scaturire il Rgveda pare prendere qui una accezione particolare che potrebbe essere una sorta di ponte di collegamento fra la più antica tradizione indoeuropea a noi conosciuta, ovvero quella degli Arii indiani, con la tradizione ebrea da cui poi è sorta quella cristiana.
Dalla conquista di Alessandro alla fondazione della dinastia sasanide (epoca seleucide e partica, fino al 224 d.C.) la Persia si ellenizza profondamente. La lingua ufficiale dei sasanidi, il pahlavi, che viene scritta in caratteri aramaici, è ormai molto simile al persiano moderno. In questa lingua ci sono pervenute, fra l’altro, le traduzioni dell’Avesta, il Denkart (testo fondamentale per la nostra conoscenza dello zoroastrismo sasanide), il Bundahishn (o “poema della Creazione”).
La poesia persiana nasce negli ambienti cittadini, aristocratici, più profondamente e precocemente arabizzati e islamizzati, della Transoxiana, in particolare nei grandi centri amministrativi e commerciali come Bukhara e Samarcanda. Lì, alcuni letterati, educati all’araba, sentirono l’impulso di provare a scrivere anche nella lingua del loro popolo, e l’esperimento riuscì egregiamente. Come tale, per conseguenza, la poesia persiana nasce già ben matura. Fra i primi poeti persiani, citiamo Rudaki e Daqiqi. Quest’ultimo è noto soprattutto come precursore dell’epica del maggiore poeta persiano, di gran lunga il più famoso oltre i confini dell’Iran: Firdusi. La sua più celebre epopea, lo Shanameh, appartiene alla grande categoria delle epiche ‘stanche’ (prive cioè di quell’entusiasmo genuinamente popolare che rese immortale l’Iliade), cui appartengono l’Eneide e la Gerusalemme Liberata.
La poesia persiana classica, tuttavia, è erede della poesia di Daqiqi, non di quella di Firdusi. E la mistica sufi, sostanzialmente al di fuori dell’ortodossia musulmana, ebbe una importanza capitale nello sviluppo poetico e spirituale della Persia, allargando la sua influenza verso il lontano Occidente (fino in Spagna). I più grandi sufi furono soprattutto quelli considerati più eterodossi: l’indiano Abu ’Ali as-Sindi, il persiano Abu Yazid Bistami, il famosissimo Al-Hallaj, morto sul patibolo a Baghdad nel 922, il panteista spagnolo Ibn ’Arabi, morto nel 1.240, il persiano Gialal al-din Rumi, l’arabo Ibn al-Farid. E la letteratura collegata al sufismo, soprattutto poetica, è enorme. Fra i suoi esponenti più autorevoli citiamo, oltre allo stesso Gialal al-din Rumi, anche il notissimo Omar Khayyam (vissuto fra l’XI e il XII secolo), considerato — soprattutto in Occidente — “il principe della quartina”: grande poeta mistico per alcuni, grande ateo scettico per altri.