Qualche giorno dopo la decisione di Satprem di abbandonare il corpo, nella sua piena convinzione e consapevolezza che “il lavoro da fare è stato fatto”, lo scrivente ha visto in sogno la sua immagine. Aveva un aspetto tranquillo, sereno, con una luce ironica che brillava nello sguardo. Ha detto qualcosa che nel sogno ascoltavo con estremo interesse. Ma al risveglio non ricordavo quel che aveva detto: non molto, sicuramente; e tuttavia c’era la netta e chiara impressione dell’importanza delle cose dette.
Qualche giorno fa, su segnalazione di un amico, ho letto il memoriale, il cahier de doléances di Monsieur Luc Venet, di cui sapevo solo che si trattava di uno dei pochi collaboratori di Satprem che a un certo punto aveva smesso di collaborare; aveva anche pubblicato un libro col suo nome accanto a quello di Satprem, “La Vie sans Mort” , uscito in Francia nel 1985 per Robert Laffont e in Italia l’anno successivo.
Nella sua introduzione, allora, Monsieur Venet si presentava come «amico di lunga data di Satprem» che ne aveva seguito «la battaglia dopo la scomparsa di Mère» abbandonando una professione scientifica (di matematico) per mettersi al servizio di un’altra “scienza”. E concludeva: «Perciò è ad un altro tipo di sviluppo che vorremmo invitare il lettore. Uno sviluppo che porta ad una soluzione umana — e perciò globale — della crisi che ci soffoca; uno sviluppo che non sarà certo meno “rigoroso” né meno obiettivamente “scientifico”: poiché, come si dice, la prima qualità dello spirito scientifico è l’onestà».
Ventidue anni dopo, lo stesso “amico di lunga data” pubblica una sorta di violento quanto risibile pamphlet contro Satprem, poco tempo dopo che l’amico di lunga data aveva deciso di passare “dall’altra parte del muro”. Senza neppure chiedersi, sembra, che cosa restasse in questo atto di quell’onestà che ancora dovrebbe essere la prima qualità di uno spirito scientifico.
L’amico che mi aveva segnalato il cahier de doléances di Monsieur Venet mi ha comunicato, qualche giorno dopo, le sue private e riservate impressioni. Di cui riporto solo qualche osservazione che mi ha colpito e che ho immediatamente condiviso: «essere vicino a Satprem non era sicuramente una cosa semplice. C’è dentro di lui una grande forza, come quella di una turbina... Che può anche distruggere tutto ciò che non è trasparente, tutto ciò che si attarda nella ragnatela pseudo-spirituale dell’ego».
E, a proposito della immersione nelle “melme memorialistiche” l’amico ha sentito, in un messaggio successivo, il bisogno di precisare: «Naturalmente, la frase non alludeva ad alcuna qualificazione positiva. Intendevo solo dire che per prendere atto dell’incubo turlupinatore di Luc siamo costretti purtroppo a scendere temporaneamente nella melma delle sue rimembranze senza vita e senz’anima!».
Mi permetto di riportare le osservazioni scritte in una lettera privata e riservata per il semplice fatto che le condivido. E condividendole le faccio “mie”.
Riaprendo il tomo VI, l’ultimo pubblicato “in vita” dei Carnets, riscopro una lettera che Satprem detta a Sujata. È datata 17 settembre 1986 e, guarda caso, è indirizzata proprio a Luc.
Satprem dice di voler aggiungere qualcosa al breve messaggio scritto il giorno prima. «Rileggendo la lettera che hai indirizzato a Sujata — detta Satprem — vedo che tu non capisci davvero la situazione profonda, quando sostieni che si tratterebbe del “problema di Michel” o del “problema centrale che riguarda il modo stesso con cui adempio alla mia missione”. No, Luc, non è ‘il problema di Michel’. Il problema “centrale” è quello che succede qui, è questo sforzo disperato per far sì che una materia umana possa fare il ponte con l’altra cosa, il mondo che vogliamo incarnare. È questo il problema centrale. E ovviamente le forze cercano ferocemente di disorganizzare, mandare in pezzi o distruggere il lavoro. Senza rendertene conto, del tutto involontariamente o inconsciamente, tu ti fai strumento di queste forze di disordine che altro non aspettano che una microscopica apertura per precipitarvisi e saccheggiare tutto. È quello che è successo all’Ashram, ad Auroville ed è quel che accade dappertutto, tristemente. Quelli che vogliono fare il lavoro o che tentano di farlo sono impietosamente messi alla prova. Io non sono Mère e non posso prendermi sulle spalle tutte le difficoltà e i problemi e le vessazioni esteriori. È necessario, sì, è necessario che un essere umano possa fare il ponte. Non c’è ‘io-ego’ qui dentro, non c’è individuo: c’è un tentativo terrestre molto disperato. Quando tu reagisci come hai fatto nei confronti di Michel, tu non ti rendi conto dello sconvolgimento che crei qui. Si direbbe che tu non capisca gli esseri umani e la loro sensibilità. E, naturalmente, ogni sconvolgimento che tocca Michel o Nicole o Jean Claude mi ricade pesantemente e fisicamente sulle spalle. È proprio questa la porta aperta che cercano queste forze di distruzione. Sri Aurobindo diceva: “Fino all’ultimo atomo” e io comincio a capire bene nella mia stessa carne che cosa voglia dire questo ultimo atomo. E non solo tu sconvolgi le coscienze di Michel o di Nicole, ma la tua idea ‘pratica’ e logica erode e mina la base stessa che serve da protezione al lavoro che qui si fa molto silenziosamente. Non devi cadere nella trappola di queste forze. È necessario che tu capisca l’ampiezza del ‘problema’. È necessario che il lavoro dell’Agenda qui sia protetto da ogni attacco sotto questo o quell’altro pretesto. Lo capisci?».
Ci fermiamo qui, nella rilettura, a metà circa della lettera di Satprem. Anche se nella seconda parte Satprem fa ancora una volta appello alla sua [di Luc] coscienza più alta: «veramente, questa povera terra è decisamente sul bordo del precipizio».
A giudicare dalle tristi e meste note del suo presunto “addio all’illusione”, sembra proprio che Monsieur Venet non lo abbia capito allora e non lo abbia capito ancora. E, purtroppo, dal travisamento all’imbroglio, dal qui pro quo alla falsificazione, se si sta dietro al risentimento e all’astio brontolante del piccolo elfo grigio (come chiamava l’ego, ridendo, Sri Aurobindo), il passo è breve. E tornare sui propri passi diventa ancora più difficile.
Mimmo Bua
14 luglio 2007