AUBREY DE GREY
Aubrey de Grey (classe 1963) è riconosciuto come il principale teorico delle tecnologie anti-invecchiamento o, per utilizzare il termine da lui creato, le “Strategie per l’Ingegnerizzazione di una Senescenza Negligibile”. Ha ricevuto un titolo onorifico dall'università di Cambridge per la pubblicazione della sua teoria The Mitochondrial Free Radical Theory of Aging (Teoria sull'invecchiamento dei radicali liberi mitocondriali). Attualmente, Aubrey de Grey è impegnato nel progetto SENS (Strategies for Engineered Negligible Senescence), che si propone di arrivare a mettere a punto terapie in grado di curare l'invecchiamento. La convinzione di base è che l'invecchiamento è una malattia e, quindi, deve essere curabile; il processo di senescenza pare sia dovuto all'accumularsi, a livello molecolare e cellulare, di effetti collaterali prodotti dal metabolismo e che il metabolismo stesso non è in grado di eliminare. L'accumulo di tale 'spazzatura' fa progressivamente diminuire l'efficienza dell'organismo, finché esso diventa incapace di difendersi dalle malattie o di mantenere in funzione gli organi vitali. La morte è semplicemente l'effetto ultimo di tale accumulo. Tutto questo probabilmente perché la natura, preoccupandosi della sopravvivenza della specie, ha visto nell'evoluzione una strategia da preferire alla conservazione del singolo individuo, per cui, se da una parte ha progettato un sistema molto efficiente per la riproduzione, dall'altra non ha progettato un metabolismo capace di ripararsi integralmente e, così, conservarsi indefinitamente una volta raggiunto il completo sviluppo.
De Grey parte da un concetto sostanzialmente semplice e condivisibile: «Se una casa non crolla, non è perché è stata costruita per essere eterna ma perché, quando è il momento, i danni causati dal tempo vengono aggiustati. Ora, poiché è sostanzialmente impossibile impedire i danni cellulari e molecolari causati dall’invecchiamento, una strategia concreta e praticabile anti-aging è quella di accettare che questi danni finiscano per prodursi e concentrarsi invece sulla possibilità di ripararli prima che essi diventino causa di decesso. Ricordiamoci che le categorie delle cause di invecchiamento a oggi identificate sono sette; da oltre vent’anni, nonostante i grandi progressi della nostra capacità di analisi, non ne troviamo di nuove e questo ci fa presumere che probabilmente non ve ne siano altre. Poiché per ciascuna di queste cause c’è già almeno un tipo di rimedio più che promettente, la SENS è una strategia non solo concreta ma anche, come dicevo, praticabile.»
I sette fattori che determinano l’invecchiamento e le relative tecniche ‘riparatorie’ individuate da de Grey sono le seguenti:
1. La perdita e/o l’atrofia di cellule (nel tessuto cardiaco e cerebrale e nei muscoli); evenienza rimediabile iniettando fattori di stimolo della divisione cellulare o mediante terapia a base di cellule staminali.
2. Le mutazioni del nucleo cellulare (ciò che per esempio avviene nel cancro); le cellule maligne non possono proliferare se non sono in grado di ricostituire i loro telomeri (porzioni di DNA situate al termine di ogni cromosoma con il compito di proteggerlo durante la divisione); al riguardo, de Grey propone un approccio radicale, il WILT (Whole-body Interdiction of Lengthening of Telomeres) — l’idea di base è la completa inibizione della produzione di telomerasi, accompagnata (poiché anche le cellule normali necessitano dei telomeri per sopravvivere) da trapianti ad hoc di cellule staminali.
3. Le mutazioni del DNA mitocondriale, da cui possono derivare problemi nella produzione delle 13 proteine mitocondriali sintetizzate nei mitocondri; de Grey suggerisce di provocare lo “spostamento” a livello nucleare della sintesi anche di tali proteine; per tre dei tredici geni su cui bisognerebbe intervenire la cosa è già stata realizzata, seppur solo in coltura cellulare.
4. L’eccesso di cellule di grasso e/o senescenti, come ad esempio il grasso viscerale; aldilà della “inutilmente invasiva” suzione chirurgica, la loro rimozione potrà avvenire o iniettando sostanze che spingono le cellule in questione al suicidio, oppure stimolando il sistema immunitario a aggredirle.
5. I “cross-link” di proteine extracellulari (proteine extracellulari che si legano ad altre proteine provocando effetti patogeni, per esempio la perdita di elasticità delle pareti arteriose); l’idea è la rottura ‘farmacologica’ mirata di questi cross-link; una molecola di questo tipo (ALT-711) esiste ed è in fase di test clinico.
6. L’accumulo di materiale extracellulare (la placca lipidica arteriosclerotica e le proteine amiloidi, responsabili queste dell’Alzheimer); anche in questo caso, secondo de Grey sarà il sistema immunitario — spronato da un vaccino — a farsi carico del problema.
7. L’accumulo di materiale intracellulare dovuto all’incapacità del lisosoma (il “sistema digerente” della cellula) di degradarlo; il rimedio: un ‘aiuto’ enzimatico esterno, in particolare con l’apporto di idrolasi microbica transgenica.
De Grey ritiene che la via più rapida per conquistare la longevità non sia quella di rallentare o impedire l'accumulo di tali danni (il che costituisce l'approccio della gerontologia), perché ciò significa dover modificare il funzionamento del metabolismo e, quindi, dover arrivare anzitutto alla comprensione di processi biologici molto complessi. Secondo lui è molto più facile accettare il fatto che tali danni si accumulino e mettere a punto terapie in grado di riparare ognuno di essi prima che raggiungano un livello patologico. In tal modo, chi si sottoponesse periodicamente a tali terapie, potrebbe vivere a tempo indefinito: ogni 20/30 anni il proprio orologio biologico verrebbe riportato indietro e, grazie a tale recupero di efficienza, non si dovrebbe più preoccupare di morire di vecchiaia. Il SENS ha già teorizzato almeno una possibile soluzione per ognuna delle note categorie.
La strategia di de Grey è basata sull'intuizione che per riparare quella macchina straordinaria (ma pur sempre macchina) che è il corpo umano, sarà necessario intervenire 'solo' su pochi specifici fattori fondamentali: rimpiazzando le cellule perse con l'età (o, peggio, con il Parkinson); fermando la replicazione cellulare incontrollata, tipica dei tumori; prevenendo le mutazioni genetiche nel nucleo e nei mitocondri; rimuovendo la “spazzatura cellulare” che si accumula nelle cellule e fra le cellule; eliminando i cross-links fra proteine e zuccheri che, fra le altre cose, fanno perdere elasticità alla pelle. «Abbiamo una discreta idea di come intervenire su tutti questi fattori», sostiene de Grey, «e alcuni di questi interventi sono già in prova clinica. Il fattore positivo è che non è necessaria una cura completa per tutti i fattori. Per esempio, non è necessario eliminare completamente la 'spazzatura cellulare' per bloccarne l'effetto invecchiante.»
L'idea dell'organismo come macchina indefinitivamente riparabile ha cominciato a essere accettata solo di recente. Il merito è anche di Tom Kirkwood, dell'Università di Newcastle e della sua teoria del “disposable soma” (o “soma usa e getta”): dal punto di vista dei nostri geni, noi altro non siamo che dispositivi per la loro trasmissione alla generazione successiva. Una volta raggiunto tale scopo (o superata l'età in cui lo scopo è perseguibile), non ha più senso investire ulteriori energie nel mantenere il corpo in salute e, quindi, comincia il declino. I geni che si occupano della 'manutenzione' diventano pigri e, infine, una malattia o l'altra ci dà il colpo di grazia finale… Eppure, sostiene John Harris, professore di bioetica all'Università di Manchester, «in linea di principio, non c'è ragione per cui dovremmo morire. Kirkwood ci ha fatto cambiare idea sul fatto che la nostra storia evolutiva ci abbia programmati per invecchiare e morire.» Per citare direttamente Kirkwood: «L'aspettativa di vita massima non è regolata da un qualche orologio — è malleabile.»
Secondo de Grey, le prime terapie dovrebbero essere disponibili verso il 2035 e sarebbero in grado, per esempio, di restituire a un sessantenne un fisico da trentenne. Sempre secondo de Grey, verso il 2050 tali tecniche saranno sviluppate al punto di permettere un ringiovanimento anche di cinquant'anni. A tal proposito, ha fatto riferimento al concetto di V.F.L. (“velocità di fuga della longevità”). Le prime terapie che saranno disponibili non saranno in grado di riparare il 100% dei danni accumulati, ma solo di restituire alcuni decenni di vita. Le stesse terapie risulterebbero sempre meno efficaci a ogni successiva somministrazione, a causa del sempre maggior accumulo di danni non ancora riparabili. Per ottenere di nuovo gli stessi risultati, sarebbe dunque necessario un continuo potenziamento delle cure. Diventerebbe possibile non morire più di vecchiaia solo a partire dal giorno in cui il progresso tecnologico riuscirà a battere in velocità il progredire dell'invecchiamento, impedendogli a tempo indefinito di raggiungere livelli letali: ogni nuovo potenziamento restituirebbe gli anni di vita necessari per poter beneficiare del potenziamento successivo. Secondo de Grey, ci vorranno secoli per poter arrivare a sviluppare una cura perfetta e potere addirittura scegliere la propria età biologica.
Le ripercussioni pratiche della possibilità di intervenire su questa malleabilità saranno drastiche: sempre secondo de Grey, l'arrivo del primo topo da laboratorio “immortalizzato” spingerà «la gente a votare a favore di enormi finanziamenti tesi ad accelerare la ricerca per adattare gli interventi agli esseri umani […] e per educare l'enorme quantità di personale medico necessario a somministrare tali terapie, quando arriveranno. L'idea stessa di sconfiggere la morte, non è rivoluzionaria solo dal punto di vista medico, ma anche da quello sociale, politico, psicologico, filosofico, economico. In sintesi, rappresenta la fine dell'umano».
Le obiezioni di Francis Fukuyama all'arrivo del post-umano sono ben note e Leon Kass sostiene che anche se i nostri corpi sopravvivessero mille anni, le nostre memorie non potrebbero fare altrettanto. Il risultato sarebbe la mancanza di continuità psicologica fra chi siamo oggi e chi saremmo fra mille anni. Altri, però, sono più ottimisti. John Harris sostiene che «non è importante essere umani. Io non ho un particolare attaccamento alla mia specie. Ci siamo evoluti dalle scimmie e […] non c'è motivo per cui non dovremmo evolverci in qualcosa d'altro.» E, alla preoccupazione di Kass, risponde facendo notare che non possiamo ricordare molto di quando avevamo, per esempio, tre anni, nonostante ciò sappiamo di aver avuto tre anni e abbiamo fotografie, vecchi giocattoli e i ricordi dei nostri parenti, che lo provano. E conclude: «L'immortalità potrà essere strana, ma non necessariamente molto più strana delle vite che conduciamo oggi.»