MUSICA
Fin dagli antichissimi primordi della civiltà dell’India, la poesia rigvedica veniva salmodiata, spesso accompagnandosi da strumenti musicali. La correttezza nella recitazione degli inni vedici era considerata fondamentale nella riuscita dell’evocazione dei poteri divini che gli inni celebrano, per cui — anche quando la trasmissione era affidata alla memoria — ciò avvenne sempre con il massimo scrupolo. Questa enfasi sull’importanza della corretta recitazione diede nascita agli studi sulla fonetica e sulla musica, soprattutto quando alla recitazione monotonale del Rig-Veda si aggiunse la tecnica di canto del Sama-Veda.
Nell’India antica la musica era considerata talmente importante che la dea della saggezza e delle arti, Sarasvati, veniva (e viene tuttora) raffigurata con uno strumento musicale (la celebre vina) tra le mani. La musica indiana, peraltro, è da sempre considerata un canale di comunicazione con l’invisibile.
A causa della stretta connessione con la poesia rigvedica, in India la musica si sviluppò innanzitutto a partire dalla voce umana, considerato lo strumento per eccellenza.
Le principali fasi attraverso cui la musica indiana si sviluppò nel corso del tempo sono tre:
1) la fase vedica, che affonda nel passato più antico e giunge fino al principio dell’èra cristiana, e che vide nascere le concezioni basilari relative alle note musicali e al suono;
2) la fase marga (o gandharva), dalla fine della precedente fino all’VIII-IX secolo d.C., durante la quale sono state concepite e sviluppate strutture ritmiche, scale e classi melodiche;
3) la fase deshi, dalla fine della precedente a oggi, in cui si è lavorato principalmente nello sviluppo di raga e tala, ovvero le strutture melodiche e ritmiche propriamente dette.
Oggi, la musica indiana si divide in due grandi sistemi:
- il sistema indostano (nell’India settentrionale) nel quale pare siano confluite certe tendenze popolari proprie della fase deshi;
- il sistema carnatico (nell’India meridionale), nel quale sarebbero state tramandate talune concezioni della fase marga.
Ciò che accomuna i due sistemi, sono gli strumenti utilizzati, pressoché identici. I più celebri strumenti musicali dell’India sono, oltre alla già citata vina, il sarod, la sarangi, il tabla, il sitar, lo shahnai.
La tradizione musicale dell’India si diffuse presto nei paesi del sudest asiatico. La musica vocale e strumentale della Corea, ad esempio, contiene molti elementi derivati dalla musica indiana, ricevuta insieme all’avvento del buddhismo. Molti paesi orientali in cui giunse il buddhismo adottarono strumenti musicali indiani, quali bansi (flauto) e ghanta (campane da tempio). Perfino in occidente, alcuni strumenti musicali sono di derivazione indiana, come il tamburo, derivato dalla tambora dell’India. Ma l’influsso della musica indiana su quella occidentale (soprattutto antica, come la musica ellenica o gregoriana, e fino al Rinascimento) è assai più profondo di quanto comunemente si creda. Basti pensare alle implicazioni che stanno dietro la concezione indiana del grama. Infatti questo termine indica una successione di suoni, ascendente e discendente per gradi, corrispondente alla scala della musica occidentale. E proprio dal termine sanscrito grama deriva il greco gamma, dal quale, a loro volta, si sarebbero originati il francese gamme, l’inglese gamut, l’italiano ‘gamma’, tutti di analogo significato musicale. Sappiamo peraltro che Pitagora studiò a fondo la musica indiana. Sono anche forti le affinità tra la musica indiana e quella persiana, le quali si fondano, come finalmente viene ammesso anche dai musicologi, sui medesimi principi, comuni a entrambe le tradizioni per via del fatto che la civiltà persiana prese le mosse da taluni particolari aspetti dell’antichissima disciplina vedica. Prima di questa ammissione da parte dei musicologi, si era cercato per lo più di affermare che la musica persiana fosse più prossima alla ellenica e ad altre tradizioni occidentali. La musica indiana e persiana nascono palesemente dalla medesima culla; anche se, separatesi da millenni, hanno proseguito ognuna per la propria via non senza alterni contatti (soprattutto con la musica dell’India del nord, la quale si distingue da quella del sud proprio per alcuni caratteri, anche formali, che l’avvicinano alla tradizione lirica persiana). La verità è che l’India, come pure la Persia, fu maestra nella musica, nella scienza e nelle arti a tutto il mondo orientale e arabo, tanto che la stessa musica araba deriva direttamente dalla persiana, e non viceversa, come fino a qualche tempo fa si riteneva (Amir Khusru, il celebre musicista turco del XIV secolo, considerava la musica indiana superiore a quella di qualsiasi altro popolo). Non c’è perciò da meravigliarsi se persino nel lontanissimo flamenco spagnolo possono rinvenirsi alcuni tratti propri della musica persiana e indiana. In linea generale, possiamo prendere come assunto l’ammissione compiuta da uno dei più rinomati musicologi del XX secolo, Alain Daniélou: «Tutti i popoli dell’antichità sembrano avere considerato l’India come una sorta di patria della musica» (da La musique de l’Inde du Nord).
Possiamo inoltre rilevare il ruolo svolto dalla musica indiana nell’influenzare il gusto dei romantici europei fino a Wagner, la cui entusiastica passione per le intuizioni del vedanta e del buddhismo è ben nota. Oltretutto la musica di Wagner, per quanto di impostazione occidentale — pur essendo basata sui sistemi tonali e armonici, lontani dalla musica modale e monodica dell’India — ha indubbiamente acquisito alcuni caratteri della musica asiatica. La stessa affinità dei temi wagneriani con il concetto indiano del karma è sorprendente, e stupisce che a questo parallelismo non sia stato dato sufficiente risalto. Sarebbe interessante sapere se a Wagner giunse notizia del fatto che i sistemi della musica indiana conoscono stabili simboli sonori, detti raga, che quali toni o modo predispongono e esprimono momenti interiori delle situazioni umane e cosmiche — giacché, di fatto, Wagner fece propria questa idea, trasferendola nella musica occidentale. Il celebre musicista indiano Ram Narayan era certo che «esiste una relazione fra l’idea del karma e il ricorso e la trasformazione dei temi nella musica indiana e nella musica di Richard Wagner. Poiché ogni raga esprime un certo aspetto emozionale, il concertista cerca di esplorare questo aspetto ritornando continuamente al materiale tematico e trasformandolo. Karma, in quanto costituisce una ricorrenza determinata dal peso del passato, è simile nella forma. E per quanto io conosco di Wagner riconosco una relazione fra la forma della sua musica e la musica indiana. Entrambe hanno a che fare con un materiale tematico che è inteso a evocare una certa risposta emozionale. E quantunque la natura del ritorno al materiale e la musica stessa siano molto differenti, l’essenza delle idee sembra essere la medesima».
Infine, arrivando ai giorni nostri, possiamo notare in quale misura il canto indiano ha influito sulla musica popolare del XX secolo, al pari dei ritmi tribali africani. Il canto indiano non è canto spiegato né tanto meno canto di petto, ma sempre salmodiato: il risultato è quello di una poesia che diventa canto, senza differenze foniche fra momenti di recitazione piana e di entusiasmo lirico. In India, lo splendore innato della voce del cantante ha un’importanza molto relativa; ciò che principalmente importa è l’intensità espressiva, esattamente come nella moderna musica pop. Anche la pratica indiana della sillabazione cantata, senza senso grammaticale ma puramente fonico, è diventata una pratica piuttosto diffusa presso i più moderni cantanti pop. Oggi sono di moda anche una serie di commistioni, alcune decisamente kitch, altre più raffinate e interessanti, fra musica indiana e musica occidentale; tra queste ultime, certamente da menzionare i due concerti per sitar e orchestra composti da Ravi Shankar (esiste una bella esecuzione realizzata dallo stesso compositore, con la direzione orchestrale di Zubin Metha).
PITTURA
I primi lavori di arte visiva creati in India furono i dipinti primitivi ritrovati sulle rocce, soprattutto nella zona centrale dell’immenso subcontinente asiatico, nei pressi di Bhopal nel Madya Pradesh, e risalenti a ottomila anni fa. I colori furono ottenuti da minerali, e le tonalità sono principalmente il rosso e l’arancio. Queste pitture furono antesignane della tecnica dell’affresco che, in epoca più tarda, venne realizzata nelle grotte di Ajanta e a Ellora, risalenti al 400 a.C. Purtroppo le condizioni climatiche tropicali non hanno permesso alle più antiche pitture di resistere al tempo, pertanto poco o nulla sappiamo di quel lungo periodo che va dal sesto al primo millennio dell’èra volgare. Sappiamo — diverse fonti letterarie ce lo dicono — che la pittura era una forma d’arte molto praticata in India. Nei testi buddhisti, palazzi reali e case private vengono descritte minuziosamente, e dalle descrizioni appaiono abbellite da numerose pitture murali. Ma nessuna evidenza visiva è sopravvissuta. Una delle testimonianze più antiche sopravvissute, è proprio costituita dai dipinti murali di Ajanta e di Ellora, i quali illustrano alcuni racconti narrati nei Jataka buddhisti. La tecnica dell’affresco mostra un grado di abilità molto avanzato, che dall’India si diffuse nel sudest asiatico e nell’Asia centrale, al punto da poterne identificare chiari influssi nelle pitture rupestri in Afghanistan e nell’Asia centrale. Alcune statue rinvenute nelle grotte di Kizil nell’Asia centrale rappresentano il dio Krishna con le Gopi; mentre altre presentano forti affinità con gli affreschi di Ajanta. Alcuni temi pittorici indiani possono essere rilevati anche nella pittura e nella scultura gotica. L’archeologo europeo Strzygowski ha recentemente evidenziato le forti affinità esistenti tra le pitture di Ajanta e i mosaici di Ravenna.
DANZA
Tutte le forme di danza indiana (Bharata Natyam, Kuchipudi, Kathak, Odissi, Mohiniattam, Kathakali, Manipuri, ecc.) sono derivata dal Natyashastra. La maggior parte delle danze indiane sono intimamente connesse con l’arte dei cantastorie, e le vicende narrate sono prese dalle grandi epopee indiane (il Mahabharata e il Ramayana innanzi tutte) o dalle raccolte di favole (il Pancatantra, lo Hitopadesha, il Katha Sarit Sagara). Il Kathak e il Kathakali, praticate rispettivamente negli stati dell’Uttar Pradesh e del Kerala, derivano i loro nomi dal termine sanscrito katha che significa ‘racconto’. La danza indiana è quindi un racconto narrato attraverso la danza, mediante una complessa struttura di espressioni facciali (mudra), di movimenti delle mani (hasta) e per mezzo della simulazione di vari sentimenti (passione, amore, ira, ecc.). La tecnica richiede una minuziosa espressione di questi sentimenti mediante piccoli movimenti delle labbra e degli occhi. La triplice combinazione di queste tre componenti, l’espressione dei sentimenti (bhava), il flusso sonoro (raga) e il ritmo (tala) determinano il nome stesso di uno di questi stili: il Bharata (Bha-Ra-Ta) Natyam. L’integrazione delle danze classiche dell’India con la pratica delle asana e del pranayama di alcune scuole yogiche ha contribuito a perfezionare lo stile delle varie danze, le quali oltretutto hanno tutte connotazioni fortemente sacrali.
Lo stile delle danze presenti in Tailandia, Indonesia, Birmania, eccetera, sono chiaramente derivate dalla tradizione indiana, al punto che un osservatore non esperto non riesce a riconoscerne le differenze.
In Occidente, invece, gli influssi della danza indiana sono arrivati attraverso gli zingari, originariamente nativi dell’India. Le danze zingare sono una versione modificata di alcune danze popolari (bhangra e garba) di alcune tribù nomadi dell’India. Così, il valzer e il foxtrot sono frutto di tale influenza, come pure la break dance americana e perfino talune danze sviluppate sulla base della musica jazz hanno subito forti influssi zigani.