In India, la matematica affonda le sue radici nella letteratura vedica, e quindi risale almeno a quattromila anni fa. Tra il I millennio a.C. e il I millennio d.C. vari trattati di matematica vennero realizzati da indiani, nei quali si parla per la prima volta di concetti quali lo zero, l’algebra, l’algoritmo, la radice quadrata e cubica.
Il celebre matematico americano, Abraham Seidenberg, ha dimostrato che il Shulbasutra, il più antico trattato di matematica del mondo, ha ispirato tutte le scienze matematiche dell’antichità, dalla Babilonia all’Egitto e alla Grecia. «Le equazioni aritmetiche contenute nel Shulbasutra vennero utilizzate nello studio del triangolo da parte dei babilonesi, mentre le teorie hindu dei contrari e della non reversibilità ispirarono la matematica pitagorica», scrive Seidenberg.
La matematica in India era conosciuta con il nome di ganitam, mentre la geometria portava il nome di rekha-ganitam, e nacque per scopi architettonici, ovvero per la realizzazione dei Mandala. Attorno al V secolo a.C. esisteva un sistema matematico che permetteva calcoli astronomici di una certa complessità. L’algebra permette di effettuare calcoli velocemente e perciò si sviluppò a partire da queste basi, assumendo il nome di bija-ganitam — letteralmente ‘l’altra (o la seconda) matematica’, mentre alcuni studiosi intendono il termine bija nel senso di ‘seme’ e quindi ipotizzano che l’algebra in India fu il primo e più antico sistema di calcolo. In ogni caso, il celebre matematico indiano Aryabhata, vissuto intorno al V secolo a.C., ne parla nei suoi trattati. Più indietro nel tempo, abbiamo un trattato intitolato Siddhanta-Shiromani del matematico e astronomo Bhāskaràcārya, nel quale un’intera sezione è titolata Bijaganitam. Successivamente, con le prime invasioni arabe, turche e afgane, alcuni studiosi musulmani, come ad esempio al-Baruni, studiarono il sistema sociale indiano e iniziarono a riferire delle conoscenze che essi possedevano. Ai concetti matematici che gli arabi appresero in India essi diedero il nome di al-jabr (da cui il nostro algebra), che significa letteralmente ‘la riunione’ (di parti spezzate), ovvero il ‘mettere insieme’ conoscenze apprese da altri. Successivamente, tra il X e il XIII secolo, le monarchie europee cercarono — attraverso le varie “crociate” — di strappare il luogo natale di Gesù Cristo agli arabi. Questo scontro tra Occidente e Oriente determinò uno scambio culturale, ed è probabile che l’algebra giunse in Europa in quella occasione. E durante il Rinascimento tale interscambio si accrebbe notevolmente, fino a giungere agli anni, assai più recenti, della rivoluzione industriale. Nel 1816 l’inglese James Taylor tradusse il trattato di Bhaskara che porta il titolo di Lilavati, mentre l’anno seguente una seconda traduzione venne realizzata dall’astronomo inglese Henry Thomas Colebruke. Si incominciò così a rendersi conto che le conoscenze acquisite durante il Medioevo tramite gli arabi erano assai più antiche e le loro vere origini non erano mediorientali bensì indiane (i cosiddetti ‘numeri arabi’ per limitarci a un esempio tra i più noti e universalmente riconosciuti senza ombra di dubbio, sono in realtà numeri indiani). Oggi è universalmente riconosciuto (presso gli studiosi, ovviamente) il fatto che, per dirla con le parole del ricercatore australiano A.L. Bashan, «il mondo deve all’India le sue maggiori scoperte matematiche, sviluppate durante il periodo Gupta a un livello assai più avanzato di qualunque altra nazione dell’antichità. Il successo della matematica indiana è dovuta al fatto che gli hindu possedevano una chiara concezione del numero astratto quale figura ben distinta dalla quantità numerica nel senso di oggetti o di estensione spaziale. Gli hindu erano in grado di osservare le proprie concezioni matematiche su un piano astratto e per mezzo dell’ausilio di una semplice notazione numerica poterono elaborare una rudimentale algebra, diversamente da quanto avvenne per i greci e gli egizi i quali, preoccupati unicamente di misurazioni di oggetti fisici, rimasero confinati entro i limiti del calcolo matematico semplice e della geometria» (The Wonder That was India). E tuttavia, anche nel dominio specifico della geometria, i matematici indiani apportarono un rilevante contributo. Il più antico testo di geometria è costituito dallo Shulva Sutra, un trattato sulla costruzione di altari e templi. Anche in questo caso, gli arabi appresero dagli indiani l’utilizzo di alcuni fondamentali concetti geometrici, facendoli propri. Il principale esponente di questo amalgama indo-arabo fu Al Khwarazmi, il quale elaborò un sistema di calcolo decimale — conosciuto come ‘algoritmo’ (tuttora ampiamente utilizzato, soprattutto nella realizzazione di software informatici) — sulla base di metodi indiani. Il trattato che lo stesso Al Khwarazmi realizzò sul soggetto venne più tardi (nel XII secolo, da un certo Adelardo di Bretagna) tradotto in latino con il nome “De Numero Indico” (‘Dei numerali indiani’), mostrandone perciò chiaramente le origini. Oggi sappiamo che gli arabi appresero dall’India gran parte dei concetti che maggiormente contribuirono allo sviluppo della moderna matematica, compreso lo zero, i numeri negativi, i numeri decimali, l’estrazione di radici. Lo stesso vocabolo ‘cifra’ deriva dall’arabo sifr, sifra che a sua volta risale al sanscrito shubra.