Leonardo di ser Piero da Vinci (Vinci, 15 aprile 1452 – Amboise, 2 maggio 1519) è stato un artista e scienziato italiano. Uomo d’ingegno e talento universale del Rinascimento italiano, incarnò in pieno lo spirito universalista della sua epoca, portandolo alle maggiori forme di espressione nei più disparati campi dell’arte e della conoscenza.
Fu pittore, scultore, architetto, ingegnere, anatomista, letterato, musicista e inventore, ed è considerato uno dei più grandi geni dell’umanità.
Leonardo fu figlio naturale di Caterina e del notaio ser Piero da Vinci, di cui non è noto il casato; il nonno paterno Antonio, anch’egli notaio, scrisse in un suo registro: «Nacque un mio nipote, figliolo di ser Piero mio figliolo a dì 15 aprile in sabato a ore 3 di notte [attuali 22.30]. Ebbe nome Lionardo. Battizzollo prete Piero di Bartolomeo da Vinci, in presenza di Papino di Nanni, Meo di Tonino, Pier di Malvolto, Nanni di Venzo, Arigo di Giovanni Tedesco, monna Lisa di Domenico di Brettone, monna Antonia di Giuliano, monna Niccolosa del Barna, monna Maria, figliuola di Nanni di Venzo, monna Pippa di Previcone». Nel registro non è indicato il luogo di nascita di Leonardo, che si ritiene comunemente essere la casa che la famiglia di ser Piero possedeva, insieme con un podere, a Anchiano, dove la madre di Leonardo andrà ad abitare.
Quello stesso anno il padre Piero si sposò con Albiera Amadori, dalla quale non avrà figli e Leonardo fu allevato molto presto, ma non sappiamo esattamente quando, nella casa paterna di Vinci, come attestano le note dell’anno 1457 del catasto di Vinci, ove si riporta che il detto Antonio aveva 85 anni e abitava nel popolo di Santa Croce, marito di Lucia, di anni 64, e aveva per figli Francesco e Piero, d’anni 30, sposato a Albiera, ventunenne, e con loro convivente era «Lionardo figliuolo di detto ser Piero non legiptimo nato di lui e della Chataria al presente donna d'Achattabriga di Piero del Vacca da Vinci, d’anni 5».
Nel 1462, a dire del Vasari, il piccolo Leonardo era a Firenze con il padre Piero che avrebbe mostrato all’amico Andrea del Verrocchio alcuni disegni di tale fattura che avrebbero convinto il maestro a prendere Leonardo nella sua bottega già frequentata da futuri artisti del calibro di Botticelli, Ghirlandaio, Perugino e Lorenzo di Credi; in realtà, l’ingresso di Leonardo nella bottega del Verrocchio fu posteriore.
La matrigna Albiera morì molto presto e il nonno Antonio morì novantaseienne nel 1468: negli atti catastali di Vinci Leonardo, che ha 17 anni, risulta essere suo erede insieme con la nonna Lucia, il padre Piero, la nuova matrigna Francesca Lanfredini, e gli zii Francesco e Alessandra. L’anno dopo la famiglia del padre, divenuto notaio della Signoria fiorentina, insieme con quella del fratello Francesco, che era iscritto nell’Arte della seta, risulta domiciliata in una casa fiorentina, abbattuta già nel Cinquecento, nell’attuale via dei Gondi. Nel 1469 o 1470 Leonardo fu apprendista nella bottega di Verrocchio.
Nella Compagnia dei pittori fiorentini di San Luca Leonardo fu menzionato per la prima volta nel 1472: «Lyonardo di ser Piero da Vinci dipintore de’ dare per tutto giugnio 1472 sol. sei per la gratia fatta di ogni suo debito avessi coll’Arte per insino a dì primo di luglio 1472 [...] e de’ dare per tutto novembre 1472 sol. 5 per la sua posta fatta a dì 18 octobre 1472».
Il 5 agosto 1473 Leonardo data la sua prima opera certa, il disegno con una veduta a volo d’uccello della valle dell’Arno, oggi agli Uffizi. Intorno a quest’anno dovrebbe essere datato anche l’angelo, in primo piano a destra, e il paesaggio del Battesimo di Cristo degli Uffizi; il complesso dell’opera è stato attribuito a Botticini, a Verrocchio e a Botticelli.
Proviene dalla bottega del Verrocchio la contemporanea Annunciazione degli Uffizi, ma sulla sua paternità – se pure può considerarsi di unica mano – la critica si è divisa fra i nomi degli allievi Leonardo e Domenico Ghirlandaio. Ma l’Angelo annunciante appare prossimo alla fattura dell’angelo del Battesimo ed esistono due disegni certi di Leonardo, uno Studio di braccio alla Christ Church di Oxford e uno Studio di drappeggio al Louvre che fanno preciso riferimento, rispettivamente, all’arcangelo e alla Vergine: se vi è nel dipinto semplificazione e convenzionalità di composizione, queste possono ben essere attribuite alla relativa inesperienza e alla necessità di concludere, esigenza lontana dal suo spirito, un’opera della quale non poteva attribuirsi la piena responsabilità.
Dal 1474 al 1478 risalgono il Ritratto di donna di Washington, identificata con Ginevra Benci - così si spiega il ginepro dipinto alle sue spalle - nata nel 1457 e andata sposa il 15 gennaio 1474 a Luigi di Bernardo di Lapo Nicolini, e la Madonna Benois di San Pietroburgo, opera che il Bocchi, nel 1591, menzionava nella casa fiorentina di Matteo e Giovanni Botti, «tavoletta colorita a olio di mano di Leonardo da Vinci, di eccessiva bellezza, dove è dipinta una Madonna con sommo artifizio et con estrema diligenza; la figura di Cristo, che è bambino, è bella a maraviglia: si vede in quello un alzar del volto singolare et mirabile lavorato nella difficultà dell’attitudine con felice agevolezza», descrizione che potrebbe riferirsi anche alla Madonna del garofano di Monaco di Baviera, che per l’originalità compositiva e la ricerca del rilievo appare svincolata da ogni influsso della bottega del Verrocchio.
L’8 aprile 1476 venne presentata una denuncia anonima contro diverse persone, tra le quali Leonardo, per sodomia. Anche se nella Firenze dell’epoca c’era una certa tolleranza verso l’omosessualità, la pena prevista in questi casi era severissima, addirittura il rogo. Oltre a Leonardo, tra gli altri inquisiti vi erano Bartolomeo di Pasquino e soprattutto Leonardo Tornabuoni, giovane rampollo della potentissima famiglia fiorentina dei Tornabuoni, imparentata con i Medici. Il 7 giugno, l’accusa venne archiviata e gli imputati furono tutti assolti «cum conditione ut retumburentur», salvo che non vi siano altre denunce in merito.
Ormai pittore indipendente, il 10 gennaio 1478 ricevette il primo incarico pubblico, una pala per la cappella di San Bernardo nel palazzo della Signoria; incassò dai Priori 25 fiorini ma forse non iniziò nemmeno il lavoro, affidato allora nel 1483 a Domenico Ghirlandaio e poi a Filippino Lippi, che lo completò nel 1485; quello stesso anno scrive di aver cominciato due dipinti della Vergine, uno dei quali si pensa possa essere la Madonna Benois.
Ancora al 1478 è datata la piccola Annunciazione del Louvre, probabilmente parte della predella della Madonna con Bambino e santi di Lorenzo di Credi del Duomo di Pistoia, che avrebbe compreso anche la Nascita del Bambino del Perugino, ora all’Art Gallery di Liverpool e il San Donato e il gabelliere dello stesso Lorenzo, ora all’Art Museum di Worcester. L’unità di composizione, la coerenza e l’individualità della piccola tavola, posteriore ma lontana dall’Annunciazione di Firenze, ne confermano l’attribuzione concorde a Leonardo. Intanto, almeno dal 1479 non viveva più nella famiglia del padre Piero, come attesta un documento del catasto fiorentino.
Un disegno di impiccato, con annotazioni, conservato al Musée Bonnat di Bayonne, viene collegato all’impiccagione, avvenuta a Firenze il 29 dicembre 1479, di Bernardo Bandini, sicario di Giuliano de’ Medici. Nel 1480, secondo l’Anonimo Gaddiano, Leonardo «stette [...] col Magnifico Lorenzo et, dandoli provisione per sé, il faceva lavorare nel giardino sulla piazza di San Marco a Firenze»: l’acquisto del terreno da parte di Lorenzo fu di quell’anno e pertanto Leonardo dovette eseguirvi lavori di scultura e restauro.
Se dell’incompiuto San Gerolamo della Pinacoteca Vaticana non si ha nessuna testimonianza documentaria, dell’Adorazione dei Magi, ora agli Uffizi, si sa che gli fu commissionata nel marzo 1481 dai monaci di San Donato a Scopeto, come pala dell’altare maggiore, da compiere entro trenta mesi; ma Leonardo non la consegnò mai e fu sostituita con un dipinto dello stesso soggetto, opera di Filippino Lippi.
L’opera, rimasta allo stato di abbozzo, in giallolino e bistro, fu lasciata da Leonardo, in partenza per Milano, all’amico Amerigo Benci, il padre di Ginevra, nel 1482. In essa «nulla rimane dell’Epifania tradizionale, e ai pastori e ai re è sostituita la più vasta moltitudine delle mani, dei volti intensamente caratterizzati, dei panni guizzanti da un lato fuori dalle ombre della siepe umana, succhiati dall’altro da un sospeso pulviscolo luminoso. Non sono magi, non sono guardiani d’armenti: sono le creature viventi, tutte le creature con la fede e col dubbio, con le passioni e con le rinunce della vita, aureolate dalla luce creatrice di questo capolavoro in cui il colore non avrebbe luogo» (Angela Ottino).
Fra la primavera e l’estate del 1482 Leonardo si trovava a Milano, una delle poche città in Europa a superare i centomila abitanti, al centro di una regione popolosa e produttiva. Egli decise di recarsi a Milano perché si rese conto che le potenti signorie avevano sempre più bisogno di nuove armi per le guerre interne, e riteneva i suoi progetti in materia degni di nota da parte del ducato di Milano, già alleato coi Medici.
«Aveva trent'anni» – scrive l’Anonimo – «che dal detto Magnifico Lorenzo fu mandato al duca di Milano a presentarli insieme con Atalante Migliorati una lira, che unico era in suonare tale strumento». È a Milano che Leonardo scrisse la cosiddetta lettera d’impiego a Ludovico il Moro, descrivendo innanzitutto i suoi progetti di apparati militari, di opere idrauliche, di architettura, e solo alla fine, di pittura e scultura, tra cui il progetto di un cavallo di bronzo per un monumento a Francesco Sforza.
Il 25 aprile 1483, con i fratelli pittori Evangelista e Giovanni Ambrogio De Predis, da una parte, e Bartolomeo Scorione, priore della Confraternita milanese dell’Immacolata Concezione, dall’altra, stipulò il contratto per una pala da collocare sull’altare della cappella della Confraternita nella chiesa di San Francesco Grande; è il primo documento, relativo alla Vergine delle rocce, che attesta la sua presenza a Milano, ospite dei fratelli De Predis a Porta Ticinese. Il contratto prevedeva tre dipinti, da finire entro l’8 dicembre, da collocarsi in una grande ancona per un compenso complessivo di 800 lire da pagarsi a rate fino al febbraio 1485. La tavola centrale avrebbe dovuto rappresentare una Madonna col Bambino con due profeti e angeli, le altre due, quattro angeli cantori e musicanti.
In una supplica a Ludovico il Moro, databile al 1493, dalla quale si evince che l’opera era stata compiuta almeno entro il 1490 – ma la critica la considera comunque finita entro il 1486 – Leonardo e Ambrogio De Predis (Evangelista morì alla fine del 1490 o all’inizio del 1491) chiedevano un conguaglio di 1200 lire, rifiutato dai frati. La lite giudiziaria si trascinò fino al 27 aprile 1506, quando i periti stabilirono che la tavola era incompiuta e, stabiliti due anni per terminare il lavoro, concessero un conguaglio di 200 lire; il 23 ottobre 1508 Ambrogio incassò l’ultima rata e Leonardo ratificò il pagamento.
Sembrerebbe che Leonardo, dato il mancato pagamento delle 1.200 lire da parte della Confraternita, avesse venduto per 400 lire la tavola, ora al Louvre, al re di Francia Luigi XII, mettendo a disposizione, durante la lite giudiziaria, una seconda versione de La Vergine delle Rocce, che rimase in San Francesco Grande fino allo scioglimento della Confraternita nel 1781 ed è ora conservata alla National Gallery di Londra, insieme con le due tavole del De Predis. Per completezza va detto che non per tutti l’esemplare di Londra è di Leonardo, per alcuni, fra cui Carlo Pedretti, pur abbozzato dal maestro, fu condotto con l’ausilio degli allievi: che possa essere intervenuto Ambrogio de’ Predis per completare l’opera è plausibile.
Intanto, nel 1485 Ludovico il Moro gli aveva commissionato un dipinto da inviare in dono al re d’Ungheria Mattia Corvino. Nei due anni successivi ricevette pagamenti per il progetto del tiburio del duomo di Milano. Nei primi mesi del 1489 si occupò delle decorazioni, nel Castello Sforzesco, per le nozze di Gian Galeazzo Sforza e Isabella d’Aragona, presto interrotti per la morte della madre della sposa, Ippolita d’Aragona, e scrisse sul libro titolato de figura umana. Il 22 luglio Pietro Alamanni comunicò a Lorenzo il Magnifico la richiesta di Leonardo di ottenere la collaborazione di fonditori in bronzo fiorentini: «un maestro o due apti a tale opera et benché gli abbi commesso questa cosa in Leonardo da Vinci, non mi pare molto la sappia condurre».
Il 13 gennaio 1490 riprendevano i festeggiamenti per le nozze Sforza-Aragona, nei quali, scrisse il poeta Bernardo Bellincioni nel 1493, «si era fabricato, con il grande ingegno et arte di Maestro Leonardo da Vinci fiorentino, il paradiso con tutti li sette pianeti che giravano e li pianeti erano rappresentati da uomini»; il 21 giugno andò a Pavia insieme con Francesco di Giorgio Martini, su richiesta dei fabbricieri del Duomo. Intorno all’ultimo decennio del secolo risalgono gli importanti dipinti a cavalletto della Madonna Litta di San Pietroburgo, del Ritratto di musico (Josquin des Prez o Franchino Gaffurio) alla Pinacoteca Ambrosiana, del Ritratto di donna, detto La Belle Ferronnière del Louvre e della Dama con l’ermellino (Ritratto di Cecilia Gallerani), di Cracovia.
Nel 1490 prese al suo servizio Gian Giacomo Caprotti, da Oreno, di dieci anni, detto Salaì – diavolo, un soprannome tratto dal Morgante del Pulci — che Leonardo definirà «ladro, bugiardo, ostinato, ghiotto», ma tratterà sempre con indulgenza. Curò i festeggiamenti per le nozze di Ludovico il Moro e Beatrice d’Este e per quelle di Anna Maria Sforza e Alfonso I d’Este.
Nel 1493, per un tratto al seguito del corteo che accompagna in Germania Bianca Maria Sforza, sposa dell’imperatore Massimiliano d’Asburgo, si recò sul Lago di Como (dove studiò la celebre fonte intermittente presso la villa Pliniana, a Torno), visitò la Valsassina, la Valtellina e la Valchiavenna. Il 13 luglio sembra aver ricevuto la visita della madre Caterina; eseguì in creta la statua equestre per Francesco Sforza, la cui fusione fallì l’anno dopo.
Iniziò nel 1495 l’Ultima Cena, nel refettorio di Santa Maria delle Grazie e la decorazione dei camerini in Castello Sforzesco che interruppe nel 1496; a quest'anno, da una sua nota di spese per una sepoltura, si è dedotta la morte della madre.
Il novelliere Matteo Bandello, che ben conosce Leonardo, scrisse di averlo spesso visto «la matina a buon’hora a montar su’l ponte, perché il Cenacolo è alquanto da terra alto; soleva dal nascente Sole sino all’imbrunita sera non levarsi mai il pennello di mano, ma scordatosi il mangiare et il bere, di continovo dipingere. Se ne sarebbe poi stato dui, tre e quattro dì, che non v’averebbe messo mano, e tuttavia dimorava talhora una o due ore al giorno e solamente contemplava, considerava et essaminando tra sé, le sue figure giudicava. L’ho anche veduto (secondo che il capriccio o ghiribizzo lo toccava) partirsi da mezzogiorno, quando il Sole è in Leone, da Corte vecchia» - sul luogo dell’attuale Palazzo Reale - «ove quel stupendo Cavallo di terra componeva, e venirsene dritto a le Gratie: et asceso sul ponte pigliar il pennello, et una o due pennellate dar ad una di quelle figure e di subito partirse et andare altrove».
A Milano Leonardo trascorse il periodo più lungo della sua vita, quasi 20 anni. Sebbene all’inizio della sua permanenza egli debba aver incontrato diverse difficoltà con la lingua parlata dal popolo (ai tempi la lingua italiana quale ‘toscano medio’ non esisteva, tutti parlavano solo il proprio dialetto), gli esperti ritrovano nei suoi scritti risalenti alla fine di questo periodo addirittura dei ‘lombardismi’.
Del 2 ottobre 1498 è l'atto notarile col quale Ludovico il Moro gli donò una vigna tra i monasteri di Santa Maria delle Grazie e San Vittore. Nel marzo 1499 si sarebbe recato a Genova insieme con Ludovico, sul quale si addensava la tempesta della guerra che egli stesso aveva contribuito a provocare; mentre il Moro era a Innsbruck, cercando invano di farsi alleato l’imperatore Massimiliano, Luigi XII conquistò Milano il 6 ottobre 1499. Il 14 dicembre Leonardo fece depositare 600 fiorini nello Spedale di Santa Maria Nuova a Firenze e abbandonò Milano con Salai e il matematico Luca Pacioli, soggiornando prima a Vaprio d’Adda, presso Bergamo, nella villa di Francesco Melzi poi, passando per Mantova, ospite di Isabella d’Este, della quale eseguì due ritratti a carboncino, giunse a Venezia nel marzo 1500.
Nell’aprile 1501 fu a Firenze, ospite dei frati Serviti nella Santissima Annunziata; qui disegnò il primo cartone della Sant’Anna, la Madonna, il Bambino e san Giovannino, ora a Londra; in due lettere, Isabella d’Este chiese al carmelitano Pietro di Nuvolaria un ritratto da Leonardo o, in subordine, «un quadretto de la Madonna devoto e dolce como è il suo naturale», ma il frate le rispose che «li suoi isperimenti matematici l’hanno distratto tanto dal dipingere che non può patire il pennello».
Passato alle dipendenze di Cesare Borgia come architetto e ingegnere, lo seguì nel 1502 nelle guerre portate da questi in Romagna; in agosto soggiornò a Pavia, e ispezionò le fortezze lombarde del Borgia. Dal marzo 1503 fu nuovamente a Firenze, dove iniziò La Gioconda e una perduta Leda; ad aprile ricevette l’incarico dell’affresco della Battaglia di Anghiari nel Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio e a luglio fu a Pisa, assediata dai fiorentini, insieme a Gerolamo da Filicaja e Alessandro degli Albizi per studiare la deviazione del fiume Arno e impantanare alcune zone limitrofe alla città.
In questo periodo probabilmente dipinse la Gioconda. Portata con sé in Francia, fu vista ancora nel Castello di Cloux, residenza di Leonardo, e descritta da Antonio de Beatis, il 10 ottobre 1517, come «certa donna Fiorentina, facta di naturale ad istantia di quondam magnifico Juliano de’ Medici», mentre Cassiano del Pozzo a Fontainebleau, nel 1625, scrive di «un ritratto della grandezza del vero, in tavola, incorniciato di noce intagliato, a mezza figura ed è ritratto di tal Gioconda. Questa è la più completa opera che di questo autore si veda, perché dalla parola in poi altro non gli manca».
Identificata tradizionalmente come Lisa Gherardini, nata nel 1479, moglie di Francesco Bartolomeo del Giocondo, il dipinto, considerato il ritratto più famoso del mondo, non è tanto o soltanto un ritratto. Come il paesaggio che le sta alle spalle non è soltanto un paesaggio, reale o fantastico, ma è la natura, nel suo aspetto solido, liquido, atmosferico, così la figura è l’elemento umano della natura, è natura umanizzata: la straordinarietà del dipinto non sta nella bellezza individuale della donna ritratta - che infatti non è particolarmente bella in sé - ma nell’aver individuato nella figura umana la realizzazione dello sviluppo della natura, che da quella non si distingue ma si dà come parte preminente di essa. Il famoso sorriso può così semplicemente intendersi come consapevolezza di sé, in quanto essere naturale in armonia ed equilibrio in una realtà che ha la sua stessa sostanza.
Così, per il De Tolnay, «nella Gioconda, l’individuo - una sorta di miracolosa creazione della natura - rappresenta al tempo stesso la specie: il ritratto, superati i limiti sociali, acquisisce un valore universale. Leonardo ha lavorato a quest’opera sia come ricercatore e pensatore sia come pittore e poeta; e tuttavia il lato filosofico-scientifico restò senza seguito. Ma l’aspetto formale – l’impaginazione nuova, la nobiltà dell’atteggiamento e la dignità del modello che ne deriva - ebbe un’azione risolutiva sul ritratto fiorentino delle due decadi successive [...] Leonardo ha creato con la Gioconda una formula nuova, più monumentale e al tempo stesso più animata, più concreta, e tuttavia più poetica di quella dei suoi predecessori. Prima di lui, nei ritratti manca il mistero; gli artisti non hanno raffigurato che forme esteriori senza l’anima o, quando hanno caratterizzato l’anima stessa, essa cercava di giungere allo spettatore mediante gesti, oggetti simbolici, scritte. Solo nella Gioconda emana un enigma: l’anima è presente ma inaccessibile».
Il 9 luglio 1504 morì il padre Piero; Leonardo annotò più volte la circostanza, in apparente agitazione: «Mercoledì a ore 7 morì Ser Piero da Vinci, a dì 9 luglio 1504, mercoledì vicino alle ore 7» e ancora, «Addì 9 di luglio 1504 in mercoledì a ore 7 morì Piero da Vinci notaio al Palagio del Podestà, mio padre, a ore 7. Era d’età d’anni 80. Lasciò 10 figlioli maschi e due femmine». Il padre non lo fece erede e, contro i fratelli che gli opponevano l’illegittimità della sua nascita, Leonardo chiese invano il riconoscimento delle sue ragioni: dopo la causa giudiziale da lui promossa, solo il 30 aprile 1506 avvenne la liquidazione dell’eredità di Piero da Vinci, dalla quale Leonardo fu escluso.
Fece parte della commissione che doveva decidere dove collocare il David di Michelangelo e ricevette pagamenti dalla Repubblica fiorentina per la Battaglia di Anghiari fino al febbraio 1505: preparato il cartone, sulla scorta delle notizie ricavate dalla Historia naturalis di Plinio il Vecchio, tentò un encausto; preparò il muro a stucco della Sala di Palazzo Vecchio ove riprodurre l’opera, ma il fuoco acceso, che doveva fissare la sua Battaglia, non fu sufficiente e i colori colarono sulla parete. Perduto il cartone, le ultime tracce dell’opera furono probabilmente coperte nel 1557 dagli affreschi del Vasari.
Ritornò a Milano – dove era già stato dal giugno all’ottobre 1506 e dal gennaio al settembre 1507, occupandosi fra l’altro del progetto di una statua equestre in onore di Gian Giacomo Trivulzio – nel settembre 1508 abitando nei pressi di San Babila; ottenne per quasi un anno una provvigione di 390 soldi e 200 franchi dal re di Francia. Il 28 aprile 1509 scrisse di aver risolto il problema della quadratura dell’angolo curvilineo e l’anno dopo andò a studiare anatomia con Marcantonio della Torre, giovanissimo professore dell’università di Pavia, allo scopo, scrisse, di dare «la vera notizia della figura umana, la quale è impossibile che gli antivhi e i moderni scrittori ne potessero mai dare vera notizia, sanza un’immensa e tediosa e confusa lunghezza di scrittura e di tempo; ma, per questo per questo brevissimo modo di figurarla» - ossia rappresentandola direttamente con disegni, «se ne darà piena e vera notizia. E acciò che tal benefizio ch’io do agli uomini non vada perduto, io insegno il modo di ristamparlo con ordine».
Il 24 settembre 1514 partì per Roma insieme con Francesco Melzi e Salai; essendo intimo amico di Giuliano de’ Medici, fratello del papa Leone X, ottenne di alloggiare negli appartamenti del Belvedere al Vaticano. Non ottenne commissioni pubbliche e se pure ebbe modo di rivedere Bramante e Giuliano di Sangallo, che si stavano occupando della fabbrica di San Pietro, Raffaello, che affrescava gli appartamenti papali, e forse anche Michelangelo, dal quale lo divideva un’antica inimicizia, attese solo ai suoi studi di meccanica, di ottica e di geometria e cercò fossili sul vicino Monte Mario, ma si lamentò con Giuliano che gli venissero impediti i suoi studi di anatomia nell’Ospedale di Santo Spirito.
Si occupò del prosciugamento delle Paludi pontine, i cui lavori erano stati appaltati da Giuliano de’ Medici - e il suo progetto venne approvato da Leone X il 14 dicembre 1514, ma non fu eseguito per la morte tanto di Giuliano che del papa di lì a pochi anni - e della sistemazione del porto di Civitavecchia.
Secondo il Vasari, durante questa sua breve permanenza a Roma, fece «per messer Baldassarre Turini da Pescia, che era datario di Leone, un quadretto di una Nostra Donna col figliuolo in braccio con infinita diligenza e arte» e ritrasse «un fanciulletto che è bello e grazioso a maraviglia, che sono tutti e due a Pescia», ma delle due opere si è persa ogni traccia, unitamente alla Leda, celebre al tempo, e vista ancora da Cassiano del Pozzo nel 1623 a Fontainebleau: «una Leda in piedi, quasi tutta ignuda, col cigno e due uova al piè della figura».
A Roma cominciò anche a lavorare a un vecchio progetto, quello degli specchi ustori che dovevano servire a convogliare i raggi del sole per riscaldare una cisterna d’acqua, utile alla propulsione delle macchine. Il progetto però incontrò diverse difficoltà soprattutto perché Leonardo non andava d’accordo con i suoi lavoranti tedeschi, specialisti in specchi, che erano stati fatti arrivare apposta dalla Germania. Contemporaneamente erano ripresi i suoi studi di anatomia, già iniziati a Firenze e Milano, ma questa volta le cose si complicarono: una lettera anonima, inviata probabilmente per vendetta dai due lavoranti tedeschi, lo accusò di stregoneria. In assenza della protezione di Giuliano de’ Medici e di fronte a una situazione fattasi pesante, Leonardo si trovò costretto, ancora una volta, ad andarsene. Questa volta aveva deciso di lasciare l’Italia. Era anziano, aveva bisogno di tranquillità e di qualcuno che lo apprezzasse e lo aiutasse.
L’ultima notizia del suo periodo romano data all’agosto 1516, quando misurava le dimensioni della Basilica di San Paolo; nel 1517 Francesco I di Francia lo invitò nel suo paese, dove in maggio, insieme con Francesco Melzi e il servitore Battista de Vilanis, alloggiò nel castello di Clos-Lucé, vicino a Amboise, onorato del titolo di premier peintre, architecte, et mecanicien du roi e di una pensione di 5000 scudi.
L’alta considerazione di cui godette è dimostrata anche dalla visita ricevuta, il 10 ottobre, del cardinale d’Aragona e del suo seguito: Leonardo gli mostra «tre quadri, uno di certa donna Fiorentina facta di naturale ad istantia del quondam mag.co Juliano de Medici, l’altro de San Joane Bap.ta giovane et uno de la Madona et del figliolo che stan posti in grembo di S.ta Anna tucti perfectissimi, et del vero che da lui per esserli venuta certa paralesi ne la dextra, non se ne può expectare più bona cosa. Ha ben facto un creato Milanese chi lavora assai bene, et benché il p.to M. Lunardo non possa colorir con quella dulceza che solea, pur serve a far disegni et insegnar ad altri. Questo gentilhomo ha composto de notomia tanto particularmente con la demonstratione de la pictura sì de membri come de muscoli, nervi, vene, giunture, d'intestini tanto di corpi de homini che de done, de modo non è stato mai facto anchora da altra persona [...] Ha anche composto la natura de l’acque, de diverse machine et altre cose, secondo ha riferito lui, infinità di volumi et tucti in lingua vulgare, quali se vengono in luce saranno proficui et molto dilectevoli».
Progettò il palazzo reale di Romorantin, che Francesco I intendeva erigere per la madre Luisa di Savoia: era il progetto di una cittadina, per la quale prevedette lo spostamento di un fiume che l’arricchisse d’acque e fertilizzi la vicina campagna: «El fiume di mezzo non riceva acqua torbida, ma tale acqua vada per li fossi di fori della terra, con quattro molina dell’entrata e quattro all’uscita [...] il fiume di Villafranca sia condotto a Romolontino, e il simile sia fatto del suo popolo [...] se il fiume mn [Bonne Heure], ramo del fiume Era [Loira] si manda nel fiume di Romolontino, colle sue acque torbide esso grasserà le campagne sopra le quali esso adacquerà, e renderà il paese fertile». Partecipò alle feste per il battesimo del Delfino e a quelle per le nozze di Lorenzo de’ Medici.
Il 23 aprile 1519 redasse il testamento davanti al notaio Guglielmo Boreau: dispose di voler essere sepolto nella chiesa di San Fiorentino; a Francesco Melzi, esecutore testamentario, lasciò «li libri [...] et altri Instrumenti et Portracti circa l’arte sua et industria de Pictori»; al servitore De Vilanis e a Salai la metà per ciascuno di «uno iardino che ha fora de le mura de Milano [...] nel quale iardino il prefato Salay ha edificata et constructa una casa»; alla fantesca Maturina dei panni e due ducati; ai fratelli, 400 scudi depositati a Firenze e un podere a Fiesole.
L’uomo che aveva passato tutta la vita «vago di vedere la gran copia delle varie e strane forme fatte dalla artifiziosa natura», da lui assimilata a una gran caverna, nella quale, «stupefatto e ignorante» per la grande oscurità, aveva guardato con «paura e desiderio: paura per la minacciante e scura spilonca, desiderio per vedere se là entro fusse alcuna miracolosa cosa», moriva il 2 maggio 1519. Il 12 agosto «fu inumato nel chiostro di questa chiesa [Saint-Florentin ad Amboise] M. Lionard de Vincy, nobile milanese e primo pittore e ingegnere e architetto del Re, meschanischien di Stato e già direttore di pittura del duca di Milano». Cinquant’anni dopo, violata la tomba, le sue spoglie andarono disperse nei disordini delle lotte religiose fra cattolici e ugonotti.
Trent’anni prima aveva scritto: « Sì come una giornata bene spesa dà lieto dormire, così una vita bene usata dà lieto morire » (Trattato della Pittura, 27r). Forse per nessun altro quelle parole furono e saranno mai più adeguate.
La fortuna critica del pittore è stata immediata e non ha mai subito oscuramenti. Già per il Vasari «volle la natura tanto favorirlo, che dovunque è rivolse il pensiero, il cervello e l’animo, mostrò tanta divinità nelle cose sue che nel dare la perfezione di prontezza, divinità, bontade, vaghezza e grazia nessun altro mai gli fu pari», e per il Lomazzo «Leonardo nel dar il lume mostra che habbi temuto sempre di non darlo troppo chiaro, per riservarlo a miglior loco et ha cercato di far molto intenso lo scuro, per ritrovar li suoi estremi. Onde con tal arte ha conseguito nelle facce e corpi, che ha fatto veramente miracoli, tutto quello che può far la natura. Et in questa parte è stato superiore a tutti, tal che in una parola possiam dire che ‘l lume di Leonardo sia divino».
Per Goethe, «Leonardo si rivela grande soprattutto come pittore. Regolarmente e perfettamente formato, appariva, nei confronti della comune umanità, un esemplare ideale di essa. Come la chiarezza e la perspicacia dell’occhio si riferiscono più propriamente all’intelletto, così la chiarezza e l’intelligenza erano proprie dell’artista. Non si abbandonò mai all’ultimo impulso del proprio originario impareggiabile talento e, frenando ogni slancio spontaneo e casuale, volle che ogni proprio tratto fosse meditato e rimeditato».
Per il pittore Delacroix, Leonardo «giunge senza errori, senza debolezze, senza esagerazioni, e quasi d’un balzo, a quel naturalismo giudizioso e sapiente, lontano del pari dall’imitazione servile e da un ideale vuoto e chimerico. Cosa strana! Il più metodico degli uomini, colui che fra i maestri del suo tempo si è maggiormente occupato dei metodi di esecuzione, che li ha insegnati con tanta precisione che le opere dei suoi migliori allievi sono sempre confuse con le sue, quest’uomo, la cui maniera è così tipica, non ha retorica. Sempre attento alla natura, consultandola senza tregua, non imita mai sé stesso; il più dotto dei maestri è anche il più ingenuo, e nessuno dei suoi emuli, Michelangelo e Raffaello, merita quanto lui tale elogio».
Scrive Hippolyte Taine che «non c’è forse al mondo un esempio di genio così universale, inventivo, incapace di contentarsi, avido d’infinito e naturalmente raffinato, proteso in avanti, al di là del suo secolo e di quelli successivi. Le sue figure esprimono una sensibilità e uno spirito incredibili; traboccano d’idee e di sensazioni inespresse. Vicino a esse, i personaggi di Michelangelo non sono che atleti eroici; le vergini di Raffaello non sono che placide fanciulle, la cui anima addormentata non ha vissuto. Le sue, sentono e pensano con ogni tratto del viso e della fisionomia; ci vuole un certo tempo per stabilire un dialogo con loro: non che il sentimento che esse esprimono sia troppo poco definito; al contrario, esso scaturisce dall’intero aspetto, ma è troppo sottile, troppo complicato, troppo al fuori e al di là del comune, impenetrabile e inesplicabile. L’immobilità e il silenzio di esse lasciano indovinare due o tre pensieri sovrapposti, e altri ancora, celati dietro quello più lontano; s’intravede confusamente questo mondo intimo e segreto, come una delicata vegetazione sconosciuta sotto la profondità di un’acqua trasparente».
Per il Wölfflin, «è il primo artista che abbia studiato sistematicamente le proporzioni nel corpo degli uomini e degli animali e si sia reso conto dei rapporti meccanici, nell’andare, nel salire, nel sollevare pesi e nel portare oggetti; ma anche quello che ha scoperto le più lontane caratteristiche fisionomiche, meditando coordinatamente sopra l’espressione dei moti dell’animo. Il pittore è per lui il chiaro occhio del mondo, che domina tutte le cose visibili».
Per Octave Sirén Leonardo «fu fiorentino fino al midollo, benché più sagace, più duttile, più intelligente dei suoi predecessori. più tardi s’interessò ai problemi pittorici via via che andava approfondendo quelli scientifici; dal che deriva la presenza, nella sua arte, di tendenze nuove e di tratti sconosciuti ai suoi contemporanei. Il passaggio dai dettagli precisi, dai contorni netti, alle gradazioni del chiaroscuro, alla corposità dello sfumato, riassume una tendenza generale nella pittura del Rinascimento; ma ciò che attorno a Leonardo non si attuò prima di due o tre generazioni, in lui divenne maturo nello spazio di venti o trent'anni».
Per Emilio Cecchi «da lui ebbe origine una pittura d’intensità insuperata, dove il rude chiaroscuro e luminismo di Masaccio è genialmente dedotto in una quantità di espressione plastica che, se ancora una volta dobbiamo richiamarci al ricordo della Grecia, non si può confrontare che alla grazia misteriosa e sublime della scultura prassitelica»
Per André Chastel, premessa la precarietà e l’ambiguità della stessa vita umana, il «senso di una posizione ambigua dell’uomo tra l’orribile e lo squisito, fra il certo e l’illusorio, si è accentuato in Leonardo con gli anni: c’è nella sua opera pittorica uno sviluppo parallelo del chiaroscuro. Il principio di esso era anzitutto l’interesse del contrasto che valorizza i termini opposti [...] egli si è dunque compiaciuto di far scivolare insensibilmente le dolci luci nelle ombre deliziose, risolvendo in questo modo il conflitto fra disegno e modellato [...] Dichiarando che, come Giotto e Masaccio, si deve essere unicamente figli della natura egli intende affermare che tutti i problemi della pittura, a tutti i gradi, devono essere ripensati integralmente. Lo sfumato risolve le difficoltà del disegno e ottiene l’unità delle forme entro lo spazio avvolgendole nell’atmosfera».
Per Argan, infine, in Leonardo «tutto è immanenza. L’esperienza della realtà deve essere diretta, non pregiudicata da alcuna certezza a priori: non l’autorità del dogma e delle scritture, non la logica dei sistemi filosofici, non la perfezione degli antichi. Ma la realtà è immensa, possiamo coglierla solo nei fenomeni particolari [...] e il fenomeno vale quando, nel particolare, manifesta la totalità del reale». Se nell’arte di Michelangelo predomina il sentimento morale, per cui dalla natura occorre riscattare la nostra esistenza spirituale con la quale siamo legati a Dio, in Leonardo predomina il sentimento della natura, «quello per cui sentiamo il ritmo della nostra vita pulsare all’unisono con quello del cosmo».
Una raccolta di manoscritti di Leonardo, redazione estremamente abbreviata di quella messa insieme dall’allievo ed erede Francesco Melzi, apparve per la prima volta a Parigi nel 1651, con incisioni tratte da disegni di Nicolas Poussin, grazie al precedente impegno di Cassiano dal Pozzo, insieme con la traduzione francese; un’altra edizione italiana del Trattato della Pittura apparve a Napoli nel 1733. Copie di scritti di Leonardo sulla pittura circolavano già nel Cinquecento: il Vasari riferisce di un anonimo pittore milanese che gli mostrò «alcuni scritti di Lionardo, pur di caratteri scritti con la mancina a rovescio, che trattano della pittura e de’ modi del disegno e del colorire»; Benvenuto Cellini possedeva scritti di Leonardo sulla prospettiva. Leonardo studiò anche per primo in Europa la possibilità di proiettare immagini dal vero su un foglio dove potevano essere facilmente ricopiate, con la cosiddetta camera oscura leonardiana.
La pittura, per Leonardo, è scienza, rappresentando «al senso con più verità e certezza le opere di natura», mentre «le lettere rappresentano con più verità le parole al senso». Ma, aggiunge Leonardo riprendendo un concetto aristotelico, è «più mirabile quella scienza che rappresenta le opere di natura, che quella che rappresenta [...] le opere degli uomini, com’è la poesia, e simili, che passano per la umana lingua».
Fra le scienze la pittura «è la prima; questa non s’insegna a chi natura nol concede, come fan le matematiche, delle quali tanto ne piglia il discepolo, quanto il maestro gliene legge. Questa non si copia, come si fa le lettere [...] questa non s’impronta, come si fa la scultura [...] questa non fa infiniti figliuoli come fa i libri stampati; questa sola si resta nobile, questa sola onora il suo autore, e resta preziosa e unica, e non partorisce mai figliuoli uguali a sé». Gli scrittori a torto non hanno considerato la pittura nel novero delle arti liberali, dal momento che essa non solo «alle opere di natura, ma ad infinite attende, che natura mai creò». E non è colpa della pittura se i pittori non hanno saputo mostrare la sua dignità di scienza, poiché essi non fanno professione di scienza e «perché la lor vita non basta ad intender quella».
«Il primo principio della scienza della pittura è il punto, il secondo è la linea, il terzo è la superficie, il quarto è il corpo [...] il secondo principio della pittura è l'ombra»; e si estende alla prospettiva, che tratta della diminuzione dei corpi, dei colori e della «perdita della cognizione de’ corpi in varie distanze». Dal disegno, che tratta della figurazione dei corpi, deriva la scienza «che si estende in ombra e lume, o vuoi dire chiaro e scuro; la qual scienza è di gran discorso».
La pittura è superiore alla scultura, non solo perché lo scultore opera «con esercizio meccanicissimo, accompagnato spesse volte da gran sudore composto di polvere e convertito in fango, con la faccia impastata, e tutto infarinato di polvere di marmo che pare un fornaio, e coperto di minute scaglie, che pare gli sia fioccato addosso; e l’abitazione imbrattata e piena di scaglie e di polvere di pietre», mentre il pittore «con grande agio siede dinanzi alla sua opera ben vestito e muove il lievissimo pennello co’ vaghi colori, ed ornato di vestimenti come a lui piace; ed è l’abitazione sua piena di vaghe pitture, e pulita, ed accompagnata spesse volte di musiche, o lettori di varie e belle opere, le quali senza strepito di martelli od altro rumore misto, sono con gran piacere udite»; lo è soprattutto perché il pittore «ha dieci vari discorsi, co’ quali esso conduce al fine le sue opere, cioè luce, tenebre, colore, corpo, figura, sito, remozione, propinquità, moto e quiete», mentre lo scultore deve solo considerare «corpo, figura, sito, moto e quiete; nelle tenebre o luce non s’impaccia, perché la natura da sé le genera nelle sue sculture; del colore nulla».
E la pittura supera anche la poesia, perché mostra fatti, non parole; la pittura «non parla, ma per sé si dimostra e termina ne’ fatti; e la poesia finisce in parole, con le quali come briosa sé stessa lauda».
«So bene che, per non essere io letterato, che alcuno prosuntuoso gli parrà ragionevolmente potermi biasimare coll’allegare io essere omo sanza lettere. Gente stolta! Non sanno questi tali ch’io potrei, sì come Mario rispose contro a’ patrizi romani, io sì rispondere, dicendo: "Quelli che dall’altrui fatiche se medesimi fanno ornati, le mie a me medesimo non vogliono concedere". Or non sanno questi che le mie cose son più da esser tratte dalla sperienza, che d’altrui parola, la quale fu maestra di chi bene scrisse, e così per maestra la piglio e quella in tutti i casi allegherò » (Codice Atlantico a 119v).
"Omo sanza lettere" sta per uomo che non conosce il latino: ma non gli occorre la conoscenza del latino perché «Io ho tanti vocaboli nella mia lingua materna, ch’i’ m’ho piuttosto da doler del bene intendere le cose, che del mancamento delle parole, colle quali bene esprimere il concetto della mente mia»; e se il volgare ha piena capacità di esprimere ogni concetto, il problema resta quello della verità di ciò che si argomenta.
Una prima verità si trae dall’esperienza diretta della natura, dall’osservazione dei fenomeni: «molto maggiore e più degna cosa a leggere» non è allegare l’autorità di autori di libri ma allegare l’esperienza, che è la maestra di quegli autori. Coloro che argomentano citando l’autorità di altri scrittori vanno gonfi «e pomposi, vestiti e ornati, non delle loro, ma delle altrui fatiche; e le mie a me medesimo non concedano; e se me inventore disprezzeranno, quanto maggiormente loro, non inventori, ma trombetti e recitatori delle altrui opere, potranno essere biasimati». Se poi costoro lo criticano sostenendo che «le mie prove esser contro all’alturità d’alquanti omini di gran riverenza appresso a’ loro inesperti iudizi», è perché non considerano che «le mie cose esser nate sotto la semplice e mera sperienza, la quale è maestra vera».
«Io credo che invece che definire che cosa sia l’anima, che è una cosa che non si può vedere, molto meglio è studiare quelle cose che si possono conoscere con l’esperienza, poiché solo l’esperienza non falla. E laddove non si può applicare una delle scienze matematiche, non si può avere la certezza.»
Se l’esperienza fa conoscere la realtà delle cose, non dà però ancora la necessità razionale dei fenomeni, la legge che è nascosta nelle manifestazioni delle cose: «la natura è costretta dalla ragione della sua legge, che in lei infusamene vive» e «nessuno effetto è in natura sanza ragione; intendi la ragione e non ti bisogna sperienza», nel senso che una volta che si sia compresa la legge che regola quel fenomeno, non occorre più ripeterne l’osservazione; l’intima verità del fenomeno è raggiunta.
Le leggi che regolano la natura si esprimono mediante la matematica: «Nissuna umana investigazione si può dimandare vera scienza, s’essa non passa per le matematiche dimostrazioni», restando fermo il principio per il quale «se tu dirai che le scienze, che principiano e finiscano nella mente, abbiano verità, questo non si concede, ma si niega, per molte ragioni; e prima, che in tali discorsi mentali non accade sperienza, senza la quale nulla dà di sé certezza».
Il rifiuto della metafisica non poteva essere espresso in modo più netto. Anche la sua concezione dell’anima consegue dall’approccio naturalistico delle sue ricerche: «nelle sue [della natura] invenzioni nulla manca e nulla è superfluo; e non va con contrapesi, quando essa fa li membri atti al moto nelli corpi delli animali, ma vi mette dentro l’anima d’esso corpo contenitore, cioè l’anima della madre, che prima compone nella matrice la figura dell’uomo e al tempo debito desta l’anima che di quel debbe essere abitatore, la qual prima restava addormentata e in tutela dell’anima della madre, la qual nutrisce e vivifica per la vena umbilicale» e con prudente ironia aggiunge che «il resto della difinizione dell’anima lascio ne le menti de’ frati, padri de’ popoli, li quali per ispirazione sanno tutti i segreti. Lascio star le lettere incoronate [le Sacre Scritture] perché son somma verità».
Ma ribadisce: «E se noi dubitiamo della certezza di ciascuna cosa che passa per i sensi, quanto maggiormente dobbiamo noi dubitare delle cose ribelli ad essi sensi, come dell’essenza di Dio e dell’anima e simili, per le quali sempre si disputa e contende. E veramente accade che sempre dove manca la ragione suppliscono le grida, la qual cosa non accade nelle cose certe».
Riconosce validità allo studio dell’alchimia, «partoritrice delle cose semplici e naturali», considerata non già un’arte magica ma «ministratrice de’ semplici prodotti della natura, il quale uffizio fatto esser non può da essa natura, perché in lei non è strumenti organici, colli quali essa possa operare quel che adopera l’omo mediante le mani», ossia scienza dalla quale l’uomo, partendo dagli elementi semplici della natura, ne ricava dei composti, come un moderno chimico; l’alchimista non può però creare alcun elemento semplice, come testimoniano gli antichi alchimisti, che mai «s’abbatero a creare la minima cosa che crear si possa da essa natura» e sarebbero stati meritevoli dei massimi elogi se «non fussino stati inventori di cose nocive, come veneni e altre simili ruine di vita e di mente».
E invece aspramente censore della magia, la «negromanzia, stendardo ovver bandiera volante mossa dal vento, guidatrice della stolta moltitudine». I negromanti «hanno empiuti i libri, affermando che l’incanti e spiriti adoperino e sanza lingua parlino, e sanza strumenti organici, sanza i quali parlar non si pò, parlino e portino gravissimi pesi, faccino tempestare e piovere, e che li omini si convertano in gatte, lupi e bestie, benché in bestia prima entran quelli che tal cosa affermano».
Leonardo è conosciuto soprattutto per i suoi dipinti, per i suoi studi sul volo, ma molto meno per cento altre cose in cui è stato invece un vero precursore, come per esempio nel campo della geologia. È stato tra i primi, infatti, a capire che cos’erano i fossili, e perché si trovavano fossili marini in cima alle montagne. Contrariamente a quanto si riteneva fino a quel tempo, cioè che si trattasse della prova del diluvio universale, l’evento biblico che avrebbe sommerso tutta la terra, monti compresi, Leonardo immaginò la circolazione delle masse d’acqua sulla terra, alla stregua della circolazione sanguigna, con un lento ma continuo ricambio, arrivando quindi alla conclusione che i luoghi in cui affioravano i fossili, un tempo dovevano essere stati dei fondali marini. Anche se con ragionamenti molto originali, la conclusione di Leonardo era sorprendentemente esatta.
Il contributo di Leonardo a quasi tutte le discipline scientifiche, fu decisivo: anche in astronomia ebbe intuizioni fondamentali, come sul calore del Sole, sullo scintillio delle stelle, sulla Terra, sulla Luna, sulla centralità del Sole, che ancora per tanti anni avrebbe suscitato contrasti e opposizioni. Ma nei suoi scritti si trovano anche esempi che mostrano la sua capacità di rendere in modo folgorante certi concetti difficili; a quel tempo si era ben lontani dall’aver capito le leggi di gravitazione, ma Leonardo già paragonava i pianeti a calamite che si attraggono vicendevolmente, spiegando così molto bene il concetto di attrazione gravitazionale. In un altro suo scritto, sempre su questo argomento, fece ricorso a un’immagine veramente suggestiva; dice Leonardo: immaginiamo di fare un buco nella terra, un buco che l’attraversi da parte a parte passando per il centro, una specie di “pozzo senza fine”; se si lancia un sasso in questo pozzo, il sasso oltrepasserebbe il centro della terra, continuando per la sua strada risalendo dall’altra parte, poi tornerebbe indietro e dopo aver superato nuovamente il centro, risalirebbe da questa parte. Questo avanti e indietro durerebbe per molti anni, prima che il sasso si fermi definitivamente al centro della Terra. Se questo spazio fosse vuoto, cioè totalmente privo d’aria, si tratterebbe, in teoria, di un possibile, apparente, modello di moto perpetuo, la cui possibilità, del resto, Leonardo nega, scrivendo che «nessuna cosa insensibile si moverà per sé, onde, movendosi, fia mossa da disequale peso; e cessato il desiderio del primo motore, subito cesserà il secondo».
Anche nella botanica, Leonardo compì importanti osservazioni: per primo, si accorse che le foglie non sono disposte in modo casuale sui rami, ma secondo leggi matematiche, formulate poi solo tre secoli più tardi; è una crescita infatti, quella delle foglie, che evita la sovrapposizione per usufruire della maggiore quantità di luce. Scoprì che gli anelli concentrici nei tronchi indicano l’età della pianta, osservazione confermata da Marcello Malpighi più di un secolo dopo.
Osservò anche l’eccentricità nel diametro dei tronchi, dovuta al maggior accrescimento della parte in ombra. Soprattutto scoprì per primo il fenomeno della risalita dell’acqua dalle radici ai tronchi per capillarità, anticipando il concetto di linfa ascendente e discendente. A tutto questo si aggiunse un esperimento che anticipava di molti secoli le colture idropiniche: avendo studiato idraulica, Leonardo sapeva che per far salire l’acqua bisognava compiere un lavoro, quindi anche nelle piante in cui l’acqua risale attraverso le radici doveva compiersi una sorta di lavoro. Per comprendere il fenomeno, quindi, tolse la terra mettendo la pianta direttamente in acqua, osservando che la pianta riusciva a crescere, anche se più lentamente.
Si può trarre un conclusivo giudizio sulla posizione che spetti a Leonardo nella storia della scienza citando Sebastiano Timpanaro: «Leonardo da Vinci attinge dai Greci, dagli Arabi, da Giordano Nemorario, da Biagio da Parma, da Alberto di Sassonia, da Buridano, dai dottori di Oxford, dal precursore ignoto del Duhem, ma attinge idee più o meno discutibili. È sua e nuova la curiosità per ogni fenomeno naturale e la capacità di vedere a occhio nudo ciò che a stento si vede con l’aiuto degli strumenti. Per questo suo spirito di osservazione potente ed esclusivo, egli si differenzia dai predecessori e da Galileo. I suoi scritti sono essenzialmente non ordinati e tentando di tradurli in trattati della più pura scienza moderna, si snaturano. Leonardo (bisogna dirlo ad alta voce) non è un super-Galileo: è un grande curioso della natura, non uno scienziato-filosofo. Può darsi che qualche volta vada anche più oltre di Galileo, ma ci va con un altro spirito. Dove Galileo scriverebbe un trattato, Leonardo scrive cento aforismi o cento notazioni dal vero; mentre Galileo è tanto coerente da diventare in qualche momento consequenziario. Leonardo guarda e nota senza preoccuparsi troppo delle teorie. Molte volte registra il fatto senza nemmeno tentare di spiegarlo».
Il 25 novembre 1796 i manoscritti di Leonardo sottratti alla Biblioteca Ambrosiana giungevano a Parigi e dalla loro analisi il fisico italiano Giovanni Battista Venturi, allora in Francia, traeva un Essai sur les ouvrages physico-mathématiques de Leonard de Vinci, escludendo da questo gli studi vinciani sul volo, giudicandoli probabilmente solo una bizzarria chimerica.
Nel 1486 Leonardo aveva espresso la sua fede nella possibilità del volo umano: «potrai conoscere l’uomo colle sue congegnate e grandi alie, facendo forza contro alla resistente aria, vincendo, poterla soggiogare e levarsi sopra di lei». Dal 14 marzo al 15 aprile 1505 scrive parte di quello che doveva essere un organico Trattato delli Uccelli, dal quale avrebbe voluto estrarre il segreto del volo, estendendo nel 1508 i suoi studi all’anatomia degli uccelli e alla resistenza dell’aria e, verso il 1515, vi aggiunge lo studio della caduta dei gravi e i moti dell’aria.
Chiama moto strumentale il volo umano realizzato con l’uso di una macchina: individua nel paracadute il mezzo più semplice di volo: «Se un uomo ha un padiglione di pannolino intasato, che sia di 12 braccia per faccia e alto 12, potrà gittarsi d’ogni grande altezza sanza danno di sé». Dall’analogia col peso e l’apertura alare degli uccelli, cerca di stabilire l’apertura alare che la macchina dovrebbe avere e quale forza dovrebbe essere impiegata per muoverla e sostenerla.
La fede di Leonardo nel volo umano sembra essere rimasta immutata per tutta la sua vita, malgrado gli insuccessi e l’obiettiva difficoltà dell’impresa: «Piglierà il primo volo il grande uccello sopra del dosso del suo magno Cecero (il monte Ceceri, presso Firenze), empiendo l’universo di stupore, empiendo di sua fama tutte le scritture e gloria eterna al loco dove nacque». Un esperimento in tale senso si svolse veramente e fece da cavia il suo amico Tommaso Masini.
I suoi appunti contengono numerose invenzioni in campo militare: gli scorpioni, una macchina «la quale po’ trarre sassi, dardi, sagitte» che può anche distruggere la macchine nemiche; i cortaldi, cannoncini da usare contro le navi; le serpentine, adatte contro le «galee sottili, per poter offendere il nimico di lontano. Vole gittare 4 libre di piombo»; le zepate, zattere per incendiare le navi nemiche ormeggiate in porto, e progetta navi con spuntoni che rompano le carene nemiche e bombe incendiarie composte di carbone, salnitro, zolfo, pece, incenso e canfora, un fuoco che «è di tanto desiderio di brusare, che seguita il legname sin sotto l’acqua».
Un altro progetto avrebbe compreso il palombaro - vi è chi ha pensato addirittura al sottomarino - a proposito del quale scrive però di non volerlo divulgare «per le male nature delli omini, li quali userebbono li assassinementi ne’ fondi mari col rompere i navili in fondo e sommergerli insieme colli omini che vi son dentro». Pensa all’attuale bicicletta, all’elicottero, un modello del quale è stato realizzato nel parco del castello di Clos-Lucé, a un apparecchio a ruote dentate che è stato interpretato come il primo calcolatore meccanico, a un’automobile spinta da un meccanismo a molla e a un telaio automatico, ricostruito dal Museo nazionale della Scienza e della Tecnologia di Milano, che tesse 2 centimetri di tela al minuto.
Negli anni trascorsi in Vaticano progettò un uso industriale dell’energia solare, mediante l’utilizzo di specchi concavi per riscaldare l’acqua.
Gli scritti di anatomia precedenti l’opera leonardesca, come quelli di Mondino de’ Luzzi o di Guy de Chauliac, riproponevano la tradizione di Galeno ed erano pertanto privi di ogni verifica sperimentale.
L’insaziabile desiderio di conoscere, di capire tutto ciò che vedeva, portava Leonardo a esplorare, spesso per primo, ogni cosa. Anche il corpo umano. Questa macchina perfetta, ben più complicata delle sue macchine fatte di ingranaggi, lo affascinava; voleva capire cosa c’è dentro, come funziona e cosa succede quando si ferma definitivamente con la morte. Per questo, prima a Milano, alla fine del Quattrocento, e poi a Firenze, agli inizi del Cinquecento, si recava negli obitori, e usando forbici e bisturi sezionava cadaveri; almeno 30, secondo quanto riportano i suoi contemporanei. Nei suoi disegni mostra anche gli strumenti allora usati dai chirurghi, seghe e divaricatori. L’anatomia era ancora ai primordi, le idee sul corpo umano erano molto confuse. Egli può, a buon diritto, essere considerato il fondatore di tale scienza, unitamente almeno con il belga Andrea Vesalio (1514-1564), la cui opera De humani corporis fabrica doveva apparire nel 1543.
È noto l’appunto su una di queste sue esperienze fiorentine: «questo vecchio, di poche ore innanzi la sua morte, mi disse lui passare i cento anni, e che non si sentiva alcun mancamento ne la persona, altro che debolezza; e così standosi a sedere sopra uno letto nello Spedale di Santa Maria Nova di Firenze, sanza altro movimento o seguito d’alcuno accidente, passò di questa vita. E io ne feci notomia, per vedere la causa di sì dolce morte».
Leonardo studiò anatomia in tre distinti periodi: a Milano, tra il 1480 e il 1490, se ne occupò, interessandosi in particolare dei muscoli e delle ossa, in funzione della propria attività artistica; successivamente a Firenze, tra il 1502 e il 1507, si applicò in particolare della meccanica del corpo, e infine, dal 1508 al 1513, a Milano e a Roma, s’interessò allo studio degli organi interni e della circolazione del sangue.
Leonardo fu il primo a rappresentare l’interno del corpo umano con una serie di disegni; si trattava anche di un modo del tutto nuovo per "guardare dentro" il corpo, rompendo tra l’altro, antichi tabù. Sono centinaia i disegni conservati oggi al castello di Windsor e di proprietà della regina d’Inghilterra, che visualizzano quello che prima era soltanto descritto a parole e in modo poco chiaro. Scrisse Leonardo: «Con quali lettere descriverai questo core, che tu non empia un libro, e quanto più lungamente scriverai alla minuta, tanto più confonderai la mente dello uditore, e sempre avrai bisogno di sponitori o di ritornare alla sperienzia, la quale in voi è brevissima e dà notizie di poche cose rispetto al tutto del subbietto di che desideri integrar notizia».
Leonardo inventò l’illustrazione anatomica. Non solo, inventò anche un modo di illustrare che ancora oggi viene usato dai moderni disegnatori, la cosiddetta "immagine esplosa": un esempio si ha guardando come Leonardo rappresentava una testa sezionata, disegnando il cranio e il cervello in sequenza in modo da mostrare come entrano l’uno dentro l’altro. Studiò le ossa, i muscoli, le arterie, le vene, i capillari; riuscì a capire le alterazioni senili e persino a intuire l’arteriosclerosi. Gli sfuggì invece il ruolo del cuore, studiato a Roma fino al 1513: «Tutte le vene e arterie nascano dal core, e la ragione è che la maggiore grossezza che si trovi in esse vene e arterie è nella congiunzione che esse hanno col core, e quanto più se removano dal core, più si assottigliano e si dividano in più minute ramificazioni» e questa convinzione gli deriva dall’analogia con le piante, le quali hanno le radici nella loro parte inferiore ingrossata: «è manifesto che tutta la pianta ha origine da tale grossezza, e per conseguenza le vene hanno origine dal core, dov’è la lor maggior grossezza».
Allo stesso modo i suoi studi di botanica lo sviarono, facendogli ritenere che la circolazione sanguigna funzionasse come la linfa delle piante, con una linfa ascendente e una discendente. Del cuore aveva bensì individuato la natura di muscolo: «il core è un muscolo principale di forza, ed è potentissimo sopra li altri muscoli» ma anche come equivalente di una stufa per dare calore al corpo: «Il caldo si genera per il moto del core; e questo si manifesta perché, quando il cor più veloce si move, il caldo più multiplica, come c’insegna il polso de’ febbricitanti, mosso dal battimento del core».
Tra i suoi disegni anatomici, i più spettacolari e impressionanti rimangono comunque quelli che mostrano un feto prima della nascita: erano immagini del tutto nuove per l’epoca e, certamente, sconvolgenti.
Leonardo studiò anche i meccanismi dell’occhio per capire come funziona la visione tridimensionale, dovuta alla sovrapposizione di due immagini leggermente sfalsate. Fece bollire un occhio di bue in una chiara d’uovo, in modo da poterlo sezionare e vedere ciò che si trova all’interno. Scoprì così la retina e il nervo ottico, e riportò queste osservazioni nei suoi disegni.
Nel Seicento, Francesco Arconati, figlio del conte Galeazzo, trasse dagli scritti vinciani da questi donati alla Biblioteca Ambrosiana, un trattato che intitolò Del moto e misura dell'acqua, che tuttavia verrà pubblicato solo nel 1826.
Sappiamo che Leonardo si dedicò a studi idraulici a partire dalla sua permanenza a Milano, già ricca di navigli, e in Lombardia, solcata da un’ampia rete di canali.
Non si conoscono opere realizzate su suoi progetti; alcuni di questi, particolarmente grandiosi, sono attestati dai suoi scritti: un canale che unisca Firenze con il mare, ottenuto regolando il corso dell’Arno; il prosciugamento delle Paludi Pontine, nel Lazio, che si sarebbe dovuto realizzare deviando il corso del fiume Ufente; la canalizzazione della regione francese della Sologne, con la deviazione del fiume Cher, presso Tours; collaborò con la Repubblica di Venezia per la sistemazione dell’assetto del fiume Brenta, per evitarne le inondazioni e renderlo navigabile.
Leonardo progettò anche macchine per lo sfruttamento dell’energia idraulica, per il prosciugamento e per l’innalzamento delle acque. Secondo il suo costume, egli studia la natura dell’acqua: «infra i quattro elementi il secondo men grieve e di seconda volubilità. Questa non ha mai requie insino che si congiunge al suo marittimo elemento dove, non essendo molestata dai venti, si stabilisce e riposa con la sua superfizie equidistante al centro del mondo», la sua origine, il movimento, certe caratteristiche, come la schiuma: «l’acqua che da alto cade nell’altra acqua, rinchiude dentro a sé certa quantità d'aria, la quale mediante il colpo si sommerge con essa e con veloce moto resurge in alto, pervenendo a la lasciata superfizie vestita di sottile umidità in corpo sperico, partendosi circularmente dalla prima percussione».
Osserva gli effetti ottici sulla superficie dell’acqua e trova che «il simulacro del sole si dimostrerrà più lucido nell’onde minute che nelle onde grandi» e che «il razzo del sole, passato per li sonagli [le bolle] della superfizie dell’acqua, manda al fondo d’essa acqua un simulacro d’esso sonaglio che ha forma di croce. Non ho ancora investigato la causa, ma stimo che per cagion d’altri piccoli sonagli che sien congiunti intorno a esso sonaglio maggiore».
Si occupa dei fossili che si trovano sui monti e ironizza con coloro che credono nel Diluvio universale: «Della stoltizia e semplicità di quelli che vogliono che tali animali fussin in tal lochi distanti dai mari portati dal diluvio. Come altra setta d’ignoranti affermano la natura o i celi averli in tali lochi creati per infrussi celesti [...] e se tu dirai che li nichi [le conchiglie] che per li confini d’Italia, lontano da li mari, in tanta altezza si vegghino alli nostri tempi, sia stato per causa del diluvio che lì li lasciò, io ti rispondo che credendo che tal diluvio superassi il più alto monte di 7 cubiti - come scrisse chi ’l misurò! - tali nichi, che sempre stanno vicini a’ liti del mare, doveano stare sopra tali montagne, e non sì poco sopra la radice de’ monti».
È convinto che con il tempo la terra finirà con l’essere completamente sommersa dall’acqua: «Perpetui son li bassi lochi del fondo del mare, e il contrario son le cime de’ monti; sèguita che la terra si farà sperica e tutta coperta dallacque, e sarà inhabitabile».
Scrive il Vasari che Leonardo «nell’architettura ancora fe’ molti disegni così di piante come d’altri edifizii e fu il primo ancora che, giovanetto, discorresse sopra il fiume Arno per metterlo in canale da Pisa a Fiorenza», testimonianza che, a parte che nell’occasione del progetto di deviazione dell’Arno, avvenuto nel 1503, Leonardo non era affatto ‘giovanetto’, mostra che gli interessi di Leonardo o le richieste a lui rivolte riguardavano soprattutto progetti di idraulica o di ingegneria militare. In compenso, nella nota lettera indirizzata a Ludovico il Moro nel 1492, Leonardo vanta le sue competenze di natura militare ma aggiunge che in tempo di pace crede di «satisfare benissimo a paragone de omni altro in architectura, in composizione di edifici pubblici e privati, et in conducer acqua de uno loco ad un altro».
A Milano avrà in effetti solo il titolo di “ingegnarius” mentre, nel suo secondo soggiorno fiorentino, potrà fregiarsi del titolo di architetto e pittore.
È certo che per l’approfondimento delle nozioni ingegneristiche si giovasse della conoscenza personale del senese Francesco di Giorgio Martini e dei suoi scritti: possiede e postilla una copia del suo Trattato di architettura militare e civile; progetta fortificazioni con bastioni spessi e irti di angoli che possano opporsi alle artiglierie nemiche.
Sono noti suoi disegni tanto per la cupola del Duomo di Milano come per edifici signorili, per i quali pensa a giardini pensili e a innovative soluzioni interne, quali scale doppie e quadruple e nell’interno delle case «col molino farò generare vento d’ogni tempo della state; farò elevare l’acqua surgitiva e fresca, la quale passerà pel mezzo delle tavole divise [...] e altra acqua correrà pel giardino, adacquando li pomeranci e cedri ai lor bisogni [...] farassi, mediante il molino, molti condotti d’acque per casa, e fonti in diversi lochi, e alcuno transito dove, chi vi passerà, per tutte le parti di sotto salterà l’acque allo insù».
Ma si occupa anche della moderna ideazione di "una polita stalla", per giungere a immaginare una città ideale, strutturata su più livelli stradali, ove al livello inferiore scorressero i carri, e in quello superiore avessero agio i pedoni.
Nel 1502 Leonardo da Vinci produsse il disegno di un ponte a campata unica di 300 metri, come parte di un progetto di ingegneria civile per il Sultano ottomano Bayazed II. Era previsto che un pilone del ponte sarebbe stato collocato su uno degli ingressi alla bocca del Bosforo, il Corno d’Oro, ma non fu mai costruito. Il governo turco, nei primi anni del XXI secolo ha deciso la costruzione di un ponte che segua il progetto leonardesco.
L’irreligiosità e scetticismo di Leonardo sono indubbi, legati alle osservazioni del Vasari, per il quale «tanti furono i suoi capricci, che filosofando de le cose naturali, attese a intendere la proprietà delle erbe, continuando et osservando il moto del cielo, il corso della luna e gli andamenti del sole. Per il che fece ne l’animo un concetto sì eretico, che è non si accostava a qualsivoglia religione, stimando per avventura assai più lo esser filosofo che cristiano».
Molte sue note mostrano disprezzo verso gli uomini di Chiesa; sui preti che dicono messa: «Molti fien quelli che, per esercitare la loro arte, si vestiran ricchissimamente, e questo parrà esser fatto secondo l’uso de’ grembiuli»; sulle chiese: «Assai saranno che lasceranno li esercizi e le fatiche e povertà di vita e di roba, e andranno abitare nelle ricchezze e trionfanti edifizi, mostrando questo esser il mezzo di farsi amico a Dio»; sul vendere il Paradiso: «Infinita moltitudine venderanno pubblica e pacificamente cose di grandissimo prezzo, senza licenza del padrone di quelle, e che mai non furon loro, né in lor potestà, e a questo non provvederà la giustizia umana» o anche «Le invisibili monete [le promesse di vita eterna] faran trionfare molti spenditori di quelle»; o sui conventi: «Quelli che saranno morti [i santi], dopo mille anni, fien quelli che daranno le spese a molti vivi [i frati]»; o ironizza sui riti: «Quelli che con vestimente bianche andranno con arrogante movimento minacciando con metallo e foco [il turibolo con l’incenso] chi non faceva lor detrimento alcuno» e sulla devozione delle immagini: «Parleranno li omini alli omini che non sentiranno; aran gli occhi aperti e non vedranno; parleranno a quelli e non fie lor risposto; chiederan grazie a chi arà orecchi e non ode; faran lume a chi è orbo».
Il Vasari riferisce della sua generosità, della sua grandezza d’animo e del suo orgoglio: «andando al banco per la provvisione ch’ogni mese da Pier Soderini soleva pigliare, il cassiere gli volse dare certi cartocci di quattrini, ed egli non li volse pigliare, rispondendogli: “Io non sono dipintore da quattrini”»; della piacevolezza della sua conversazione e del suo amore per gli animali: «spesso passando dai luoghi dove si vendevano uccelli, di sua mano cavandogli di gabbia, e pagatogli a chi li vendeva il prezzo che n’era chiesto, li lasciava in aria a volo, restituendogli la perduta libertà». E questa sua compassione e tenerezza nei confronti degli animali si lega la notizia, riferita da Andrea Corsali, sul fatto che Leonardo fosse vegetariano.
Ma dai suoi scritti traspare l’immagine di un uomo molto meno socievole di quello che l’agiografia vasariana voglia imporre: «se tu sarai solo, tu sarai tutto tuo, e se sarai accompagnato da un solo compagno, sarai mezzo tuo, e tanto meno quanto sarà maggiore la indiscrezione della sua pratica. E se sarai con più, cadrai di più in simile inconveniente», e altrove scrive ancora che «salvatico è quel che si salva», e in tante parti dei suoi manoscritti appare la sfiducia e il pessimismo nei confronti della “umana spezie”.
Considerato, per la vastità dei suoi interessi, la massima e irripetibile manifestazione del Rinascimento, Leonardo, non legato a nessuna città, Stato o principe, è il primo esempio del cosmopolitismo degli intellettuali italiani, unico in Europa, espressione di una frattura fra cultura e popolo destinata a prolungarsi fino ai nostri giorni.
Nella caratteristica scrittura speculare, svolta da destra a sinistra, tale da poter esser letta facilmente solo ponendo i fogli davanti a uno specchio, i manoscritti di Leonardo, dati in eredità a Francesco Melzi, pervennero dopo la morte di questi allo scultore Pompeo Leoni che, per commerciarli più facilmente, li suddivise in diversi gruppi, mutandone l’aspetto originario. Raccolti in gran parte nel XVII secolo dal conte milanese Galeazzo Arconati, furono donati alla Biblioteca Ambrosiana di Milano dalla quale furono trasferiti nel 1796 a Parigi, da dove tornò a Milano, dopo la caduta di Napoleone, il solo Codice Atlantico, mentre gli altri, per un errore dell’incaricato austriaco, rimasero all’Institut de France. Altri codici erano già da tempo finiti in Inghilterra.
Oggi esistono oltre 8000 fogli, cioè più di sedicimila pagine di appunti con molte decine di migliaia di disegni lasciati da Leonardo, ma si ritiene che siano solo una piccola parte di ciò che ha scritto e disegnato. Alcuni pensano che abbia scritto sessantamila, forse centomila pagine, ormai perdute. Ma forse qualcosa ancora esiste, sepolta in qualche antico archivio; nel 1966 per esempio, sono stati trovati due nuovi codici a Madrid. Si tratta di pagine scritte quasi ‘di getto’, tant’è vero che gli esperti di Leonardo dicono che: «sembra di sentirlo parlare».