poema epico di Sri Aurobindo
in esametri quantitativi
aria nuova edizioni
Nell’Introduzione all’edizione italiana di Ilio, il traduttore scrive:
«Inutile sarebbe soffermarsi troppo, in una traduzione (sia pure corredata di testo originale a fronte), sul prodigioso successo ottenuto da Sri Aurobindo nell’averci consegnato un’epopea che utilizza la superba eleganza e regalità del ritmo quantitativo nella lingua inglese — quel metro che tanta gloria diede alle lingue classiche (greco, sanscrito, latino) e che tanta ammirazione suscitò in Sri Aurobindo fin da ragazzo — ; in un lungo articolo, intitolato On Quantitative Metre, l’Autore stesso illustra con dovizia la metodologia utilizzata nel trasporre l’esametro dattilico quantitativo nella poesia inglese.
Come precisa Sri Aurobindo, “un poeta che cerchi di rendere naturale in inglese il potere dell’antico esametro, o che intenda trasferire una nuova forma della sua grandezza o bellezza nella lingua inglese, deve averne assorbito il ritmo nelle sue stesse vene, averlo reso parte di se stesso; solo allora egli potrà farlo scaturire da dentro come una espressione spontanea del suo essere, autentico e compiuto. Se per raggiungere tale risultato egli non si affida a questa ispirazione interiore, ma unicamente alla propria abilità tecnica, conoscerà il fallimento; pertanto questo è tutto ciò che egli deve compiere” (op. cit.). L’articolo prosegue illustrando la possibilità pratica di tale metro nella poesia inglese, indicando pure come debba essere assortito da tutta una serie di modulazioni conformi al genio peculiare della lingua anglosassone» (Tommaso Iorco).
Sia Purani (nella sua registrazione degli Evening Talks with Sri Aurobindo, pagg. 231-232), sia Nirodbaran (nei Talks with Sri Aurobindo, pagg. 114-115), riportano una conversazione del 3 gennaio 1939 in cui si fa riferimento all’esametro. Sri Aurobindo racconta in quella occasione che uno dei suoi compagni di scuola all’università di Cambridge, tale Ferrar (che incontrò parecchi anni dopo durante il processo di Alipore), gli diede la chiave per cogliere il ritmo dell’esametro in inglese:
«Lesse un verso di Omero che lui riteneva essere il miglior verso e in tal modo mi diede l’opportunità di intuire come dovrebbe essere la cadenza dell’esametro in inglese. Non esiste alcuna opera di poesia in inglese in cui sia stato utilizzato l’esametro in modo realmente efficace. Matthew Arnold e i suoi amici hanno tentato di realizzarlo senza tuttavia riuscirci. L’esametro dattilico — il metro in cui le epopee di Omero e Virgilio vennero composte — ha un movimento meraviglioso ed è estremamente adatto per la poesia epica. Ho composto la maggior parte dei miei esametri — l’epopea Ilion, in particolare — a Pondicherry. Amal e Arjava [due famosi critici poetici, il primo indiano, il secondo inglese] lo hanno letto e lo ritengono un successo. Posso citare qualche verso:
One and unalarmed in the car was the driver; grey was he, shrunken,
Worn with his decades. To Pergama cinctured with strenght Cyclopeean
Old and alone he arrived, insignificant, feeblest of mortals,
Carrying Fate in his helpless hands and the doom of an empire».
Fra i versi citati in quell’occasione, il primo in particolare suona come uno dei migliori esempi per assaporare il ritmo dell’esametro nella lingua inglese: lo ripetiamo qui con la giusta scansione metrica —
One and un- | -armed in the | car was the | driver; | grey was he, | shrunken…
Per offrire qualche nota storica sull’esametro, anzitutto occorre prendere atto di un dato elementare quanto fondamentale: la metrica latina e greca è diversa da quella delle lingue europee moderne, estranea alla nostra sensibilità linguistica e quindi riproducibile solo in parte.
La metrica latina e greca è “quantitativa”; essa cioè:
1. si basa sul principio musicale della successione di sillabe lunghe e brevi (le prime vengono ‘tenute’ un tempo doppio delle seconde);
2. non prevede un numero fisso di sillabe (nel caso specifico dell’esametro, possono essercene da 12 a 17);
3. non assegna una posizione fissa agli accenti ritmici (detti ictus metrici);
4. può alterare la pronuncia naturale delle parole;
5. non impiega la rima.
È dunque di fondamentale importanza, per la metrica latina e greca, saper distinguere la quantità delle sillabe: di questo si occupa la prosodìa.
Le sillabe, secondo la quantità, possono essere brevi, lunghe o ancipiti.
Le sillabe brevi hanno come segno grafico un semicerchio sulla vocale; questo significa che l’emissione della voce deve avere un certa durata minima, detta mora. La stessa sillaba quindi corrisponde ad una unità di tempo, cioè ad una mora.
Le sillabe lunghe hanno come segno grafico una lineetta sulla vocale, e si pronunciano in un tempo doppio delle brevi; quindi equivalgono a due unità di tempo o more.
Le sillabe ancipiti hanno i due segni sovrapposti e possono essere, secondo le necessità dei verso, ora brevi ora lunghe; esse presentano la cosiddetta positio debilis. Le sillabe possono essere brevi o lunghe per natura, cioè per costituzione naturale, o brevi o lunghe per posizione, cioè per il posto che la vocale occupa rispetto alle vocali o consonanti successive.
Si dice piede l’unità di misura metrica, cioè un gruppo di sillabe brevi e lunghe riunite sotto un ictus (‘accento ritmico’). La lettura metrica di un verso si chiama scansione.
I piedi principali sono: trochèo, dàttilo, spondèo, giambo, trìbraco, anapesto.
Ogni verso è formato da una combinazione di piedi uguali o differenti. L’ultimo piede di ogni verso inoltre può essere completo (il verso allora si dice acatalettico); si dicono catalettici i versi che hanno invece l’ultimo piede mancante di una o più sillabe (come nel caso dell’esametro dattilico).
Nella prosodia inglese, diversamente dalla metrica poetica italiana, si è mantenuta la suddivisione dei piedi e delle sillabe lunghe o brevi come nelle lingue classiche, ma il valore non è quello di quantità. Solo in alcuni casi, rarissimi — fra questi figura appunto Sri Aurobindo in Ilion — alcuni poeti inglesi hanno cercato di riprodurre (sia pur parzialmente) il verso quantitativo classico, con il preciso intento di conferire alla poesia inglese il tipico ritmo ampio e solenne del greco, del sanscrito, del latino.
L’esametro, o più propriamente esametro dattilico, o esametro eroico, è il più antico e il più importante dei metri in uso nella poesia greca e latina, usato in particolar modo per la poesia epica. Secondo le definizioni della metrica classica esso consiste in una esapodia dattilica catalettica, ossia di un verso formato da sei piedi dattilici, di cui l’ultimo manca di una sillaba (catalettico).
L’origine dell’esametro rimonta alla protostoria del mondo greco: gli studiosi hanno vivacemente dibattuto sulla possibilità che esso fosse già in uso in età micenea, senza raggiungere risultati definitivi. Fosse già stato usato oppure no nel II millennio a.C., l’esametro aveva senza dubbio alle spalle una storia di secolare elaborazione orale da parte degli aedi prima di approdare alla più antica forma a noi nota, quella omerica, una forma che, nonostante le numerose anomalie rispetto alle epoche posteriori, è frutto di una tecnica raffinata. Dopo Omero, nell’età arcaica fu ancora usato per la poesia eroica (poemi ciclici) e per quella didascalica di Esiodo; gli stessi poeti lirici lo usarono talvolta, non solo nel distico elegiaco, ma anche come metro autonomo, come è il caso degli epitalami di Saffo.
Il verso conobbe poi un nuovo periodo di grande vitalità in epoca ellenistica, con la ripresa, da parte dei poeti alessandrini, della poesia epica (in particolare con Apollonio Rodio), dell’epillio (l’Ecale di Callimaco), degli Inni in stile omerico (gli Inni, sempre di Callimaco), e della poesia didascalica (Arato di Soli). Gli alessandrini, e in particolare Callimaco, il cui esempio fece scuola, affinarono il verso omerico, restringendo il numero degli schemi ammessi rispetto a quello omerico; la tendenza al sempre maggior virtuosismo metrico restò una costante nella poesia di epoca romana e raggiunse il suo culmine, al termine dell’età antica, nelle Dionisiache di Nonno: rispetto ai trentadue schemi dell’esametro omerico, Nonno ne ammette solo nove, in un’età in cui il senso della quantità andava perdendosi (sebbene si riscontri la tendenza sempre più pronunciata, soprattutto nella seconda parte di verso, a far coincidere ictus metrico e accento tonico delle parole).
Dalla Grecia, l’esametro in età ellenistica fu introdotto nella letteratura latina a opera di Ennio, adattandosi alle diverse possibilità espressive della lingua latina (ad esempio le figure di suono giocano un ruolo molto più importante nella poesia latina che in quella greca), affinandosi progressivamente prima con Lucrezio e Catullo, e quindi con i poeti di età augustea, in primo luogo Virgilio ma anche Orazio, per poi restare in uso sino alla tardo antichità e oltre.
L’esametro, verso eroico per definizione, rimase sempre strettamente legato alla poesia epica, tanto in Grecia quanto a Roma: i poemi omerici, le Argonautiche, le Dionisiache, e a Roma l’Eneide sono i massimi capolavori di questo genere, a cui si affiancano l’epillio (come l’Ecale di Callimaco, o il carme LXIV di Catullo) e, specialmente a Roma, l’epica storica, rappresentata tanto dai perduti Annales di Ennio che dalla Pharsalia di Lucano. Accanto alla poesia epica, divenne, da Esiodo in poi, il metro della poesia didascalica: a Roma questo suo uso sarà sancito dal De rerum natura di Lucrezio, e si manterrà vivo sino all’età tardoantica; mentre prima con Lucilio e poi con Orazio, in un adattamento che è tipicamente romano, l’esametro diviene anche il metro della satira e dell’epistola in versi. Grazie all’opera di Teocrito e di Virgilio, esso divenne inoltre il metro della poesia bucolica. Raro invece fu il suo utilizzo nel campo della poesia lirica, sia nel mondo greco che nel mondo romano: Saffo però lo usò nei suoi epitalami, e fu ripresa in questo da Catullo.
Dal momento che la quantità dell'ultima sillaba è indifferente, l’ultimo piede può essere tanto uno spondeo quanto un trocheo; per gli altri piedi l’unica sostituzione ammessa al dattilo è lo spondeo. La soluzione del dattilo in uno spondeo è possibile in tutti i primi cinque piedi, ma non è egualmente frequente: il quinto piede, in particolare, è di norma un dattilo e la tendenza dell’esametro più tardo è quella di evitare sempre più le agglomerazioni di spondei, soprattutto nella seconda parte del verso. I piedi in cui lo spondeo si incontra più di frequente sono il terzo e il secondo.
A seconda dei differenti schemi metrici, si distinguono vari tipi di esametri —
esametro olodattilico: un esametro composto solo di dattili; è uno schema abbastanza frequente;
esametro olospondaico: un esametro composto solo da spondei; è una forma rarissima;
esametro spondaico: quando lo spondeo compare in quinta sede (posizione generalmente evitata), l’esametro si definisce spondaico; non è un verso molto frequente, e nell’evoluzione del metro si fa sempre più raro; in Omero la sua presenza è ancora abbastanza significativa; i poeti ellenistici lo usano per lo più con intento arcaizzante, mentre nell’epica di Nonno è completamente assente; il quarto piede è di norma un dattilo, e il verso si conclude con un trisillabo o quadrisillabo (inglobando così in parte o interamente il quinto piede).
A causa della sua lunghezza, l’esametro necessita di una o due pause al suo interno, che possono assumere la forma di una dieresi o di una cesura.
L’esametro ammette cinque pause:
la cesura tritemimera o semiternaria, dopo il terzo mezzo piede, ossia dopo la tesi del secondo piede;
la cesura pentemimera o semiquinaria, dopo il quinto mezzo piede, ossia dopo la tesi del terzo piede;
la cesura del terzo trocheo, ossia tra le due sillabe brevi del terzo dattilo;
la cesura eftemimera o semisettenaria: dopo il settimo mezzo piede, ossia dopo la tesi del quarto piede;
la dieresi bucolica (così chiamata perché particolarmente frequente nella poesia bucolica): tra il quarto e il quinto piede.
In generale, le pause più comuni sono la pentemimera e quella dopo il terzo trocheo; la tritemimera compare solo se nel verso è presente un’altra cesura, di solito un’eftemimera; anche la dieresi bucolica spesso appare in combinazione con un’altra pausa. La distribuzione di queste pause varia in maniera considerevole a seconda degli esempi considerati. In Omero, la pentemimera è altrettanto frequente di quella dopo il terzo trocheo, ma la sua frequenza diminuisce nella poesia alessandrina e diviene ancora più rara nei poeti tardoantichi, che usano anche molto raramente la dieresi bucolica. Nell’esametro latino, al contrario, la cesura dopo il terzo trocheo è piuttosto rara, mentre non è infrequente l’eftemimera da sola, ed è ricercata la combinazione pentemimera-eftemimera; la dieresi bucolica è sempre preceduta da un’altra cesura.
Qualche esempio tratto dalle opere di Virgilio —
Pentemimera:
Arma virumque cano || Troiae qui primus ab oris
(Eneide, I.1).
Eftemimera:
Obruit Auster aqua involvens || navemque virosque
(Eneide, VI.336).
Tritemimera e eftemimera:
Quidve dolens || regina deum || tot volvere casus
(Eneide, I.9).
Pentemimera e dieresi bucolica:
Dic mihi, Damoeta, || cuium pecus? || An Moeliboei?
(Bucoliche, III.1).
Per zeugma o ponte si intende un punto del verso in cui si evita di far terminare le parole. Nell’esametro, si possono riscontrare questi zeugmi:
1. Ponte di Hermann (dal nome del filologo che lo scoprì): c'è sempre zeugma tra le due sillabe brevi del quarto piede. Nella poesia greca, le eccezioni sono rarissime; la poesia latina, invece, non lo rispetta.
2. Ponte centrale: mentre sono normali la cesura femminile o pentemimera, si evita costantemente di far coincidere la fine del terzo piede con la fine di parola, per evitare l’impressione di un doppio trimetro.
3. Lo zeugma è più o meno severo tra uno spondeo formato da una sola parola e il piede seguente. Questa regola è ferrea nel caso sia il terzo piede a essere spondaico; non agisce invece se si tratta del primo piede.