Presentiamo oggi il libro di Sri Aurobindo “Il segreto dei Veda” in traduzione italiana. Partecipano all’iniziativa promossa da Prof. Giuseppe Cognetti, nell’ambito di un seminario di religioni comparate, il promotore e direttore della casa editrice aria nuova, Tommaso Iorco, e Gian Domenico Bua, che ha collaborato alla traduzione in sintonia con la “squadra” dei traduttori dell’editrice (composta da Graziella Elia, Marilde Longeri, Marcella Mariotti, oltre che dai due qui presenti). Mi auguro che questo volume possa avere successo e circolazione degna della figura eminente del suo Autore, che possa contribuire a leggere e gustare queste pagine dell’attualissimo testo. Una trattazione sui Veda, con un intento che è anche molto razionale, analitico, filologico, nei suoi propositi, che ci aiuta a respirare tutt’ora un’aria di freschezza, di interesse di approfondimento.
Questa iniziativa nasce dall’impegno e dalla disponibilità di Giuseppe Cognetti, filosofo delle religioni dell’Università di Siena, col quale intrattengo, anche per un deferente riconoscimento di competenze, un dialogo che mi aiuta anche nelle mie esperienze di ricercatore in India, dove lavoro come antropologo da diversi anni. Questa intesa, in cui ognuno porta le sue esperienze e il suo strumentario disciplinare, ci ha già permesso di portare avanti altre fruttuose iniziative in comune. Mi è anche molto gradito presentarvi Federico Squarcini, dell’Università di Firenze, indologo e indianista di cui apprezzo oltre che la competenza, la modernità di approccio e l’apertura a un’evoluzione critica degli studi a cui si dedica: mi piace citare il suo fondamentale contributo all’edizione critica del Codice di Manu.
Di questo libro di Sri Aurobindo, “Il segreto dei Veda” (su cui dirò altre cose, frutto delle mie impressioni di lettura, nel corso del dibattito) oltre al suo interesse che riguarda anche la continuità storica degli studi sui Veda — mi ha immediatamente colpito, ad esempio, la ricorrenza di un nome, quello di Sarasvatî (o Saraswotî, come dicono in Bengala) che è un fiume e naturalmente anche una dea; una dea bellissima nell’iconografia attuale della statuaria popolare induista, una presenza sempre attuale e vivace, col suo strumento musicale, un cigno o un’oca, che incontro nelle mie peregrinazioni etnografiche in India, anche nei miei studenti, studenti di campagna di grandissima sensibilità che mi accompagnavano anche nel corso della più recente campagna etnografica, circa dieci mesi fa: Sarasvatî è la loro dea della sapienza, quindi la dea dello studio e della conoscenza. Su di lei, fra le altre cose, Sri Aurobindo molto si dilunga, in questo suo studio analitico di un testo in cui la figura divina è considerata, come sempre, come un’immagine, un personaggio e un simbolo. E mi viene da pensare, leggendo e confrontando la mia esperienza con quella del testo, alla grande continuità, una sorta di potenza durevole, tranquilla ma durevole, che nella realtà del mondo indiano contemporaneo — pur in una realtà sociale animatissima, ricca di molte tendenze di modernizzazione e di evoluzione — ci fa imbattere continuamente in una grande quantità di simboli, pratiche e liturgie, in un senso del fare il sacro, del vivere il rapporto con il simbolico, che è estremamente vivido e si direbbe anche ingenuo e allo stesso tempo densissimamente problematico.
Dico questo solo per fornire una testimonianza, una dichiarazione di utilità, oltre che di interesse. Noi antropologi, forse, per queste dottrine e con i loro aspetti filosofici, filologici e dottrinari, siamo non dico meno interessati ma sicuramente meno attrezzati dei nostri colleghi indianisti e indologi, dai quali impariamo e ai quali spesso chiediamo soccorso. Siamo indotti, o costretti a farlo proprio perché questi patrimoni, pur avendo una sistematizzazione, una tesaurizzazione imponente, solenne e profonda, sono tuttora attivi in molte parti. In primo luogo il paradigma sacrificale, il sacrificio che è al centro della lettura aurobindiana e di altri testi vedici. Ci tengo a ricordare, sul nostro versante, il lavoro credo a tutt’oggi decisivo e insuperato, di Charles Malamoud, nel suo saggio, anch’esso tradotto in italiano, Cuir le monde (“Cuocere il mondo”), una trattazione appunto sul sacrificio come fatto storico, come paradigma mentale, nella pratica simbolica e nel codice popolare.
La mia funzione è solo quella di dare il benvenuto a tutti e avviare questa iniziativa di presentazione e discussione.
Do quindi la parola al promotore di questa serata, il professor Cognetti, il quale ci proporrà una sua nota a proposito dell’Autore del libro.