LA VITA DIVINA
COME NASCE LA TRADUZIONE
REALIZZATA DA TOMMASO IORCO



Marianna Damiani è la responsabile (“in contumacia” aggiunge lei con una punta di umorismo) di Samizdat che, come si può facilmente arguire dal nome stesso, è una casa editrice clandestina – il che implica che le sue pubblicazioni sono fuori commercio, diffuse esclusivamente a chi ne fa richiesta. Nel presente articolo, Marianna spiega come è nata la traduzione di The Life Divine e ne mostra alcuni aspetti che, per le implicazioni che ne derivano, consideriamo rilevanti.

Nella prima decade del nuovo millennio, ricevemmo numerosi messaggi (relativamente numerosi, s’intende) in cui ci esortavano di proporre a Tommaso la traduzione di The Life Divine, da parte di quanti considerano illeggibile l’edizione pubblicata da Mediterranee. Tommaso ha sempre mostrato una certa reticenza nell’assumersi l’onere di tradurre quest’opera, trattandosi di un testo che andrebbe letto nell’originale (e riletto, e ben ruminato, come esortava Nietzsche nei confronti dei grandi testi sapienziali). Decidemmo comunque di procurarci una copia dell’edizione Mediterranee, in modo da verificare di persona. No comment. Basti segnalare che, a quel punto, Tommaso si sentì per così dire costretto ad affrontare il compito da più parti caldeggiato. Pertanto, dopo circa un decennio di impegno quotidiano, entro la fine della seconda decade del millennio, la sua traduzione poteva in linea di massima considerarsi pronta. Per encomiabile scrupolo, furono poi gentilmente invitati (tra il 2021 e il 2023) alcuni individui con un’ottima padronanza della lingua italiana e, in alcuni casi, pure dell’inglese, che avessero una certa dimestichezza con la terminologia filosofica e, soprattutto, che fossero in sintonia con gli scritti e con l’Opus di Sri Aurobindo e Mère, a leggere le bozze e a offrire critiche e consigli. Sono emerse parecchie segnalazioni, rivelatesi preziose per Tommaso in fase di revisione conclusiva, ultimata il 21 febbraio 2024 (data alquanto emblematica!). Provvidenzialmente, è venuta a crearsi in modo spontaneo una piccola raccolta fondi tra i nostri conoscenti, che ha permesso di stampare l’impaginato in una data altrettanto rappresentativa: il 24 aprile 2024. Un’edizione clandestina, a tiratura limitata, da mettere a disposizione di coloro che conoscono e ammirano le doti traduttive di Tommaso (vedi BIBLIOGRAFIA) e che desiderano approfondire una simile opera, impossibilitati (purtroppo) a leggerla nell’originale inglese.

La sfida traduttiva è grande, e Tommaso ne è altamente consapevole; nella prefazione, egli stesso pone in rilievo il fatto che il testo originale è una «incomparabile esposizione della più alta filosofia epoptica espressa con perfetta concinnità». Qualità che non dovrebbe mancare in qualunque traduzione che possa definirsi perlomeno accettabile, e che non manca di certo nella ammirevole traduzione di Tommaso.

Tradurre è certo un compito ingrato, e il celebre detto “traduttore traditore” vale sempre e comunque. Come ebbe a osservare Sri Aurobindo in un’epistola, translation is more difficult than original writing («è più difficile tradurre che scrivere un’opera autonoma» – Letters), anche a causa delle enormi responsabilità che ciò implica; quando uno scrittore redige un suo testo, lo sigla con il proprio nome e se ne assume le conseguenze, mentre quando si traduce, gli effetti di tale lavoro (buoni o cattivi che siano) ricadono sull’autore del testo originale, sicché una cattiva traduzione fa torto all’autore stesso e può ingenerare conseguenze nefaste. Tradurre un’opera di Sri Aurobindo di tale valore e importanza, implica quindi una responsabilità ENORME da parte del traduttore, che non va assunta con leggerezza.

A puro titolo esemplificativo, possiamo esaminare quei termini mediante i quali Sri Aurobindo si è preso cura di illustrare due distinte operazioni della coscienza-forza sopramentale (inglese supramental consciousness-force), da lui definite con i termini inglesi apprehending e comprehending.

Partiamo anzitutto da supramental. Nelle edizioni Mediterranee lo troviamo tradotto con “supermentale”; mentre nella nostra edizione viene tradotto con “sopramentale”. Vi sono una serie di note realizzate da Tommaso, apposte in calce alla propria traduzione, volte a spiegare alcune scelte traduttive e altro ancora. Riporto qui di seguito la nota che si trova a pag. 71 del libro:

«Ricordiamo che il prefisso latino super (sopra, al di là, oltre — sanscrito upari, greco üper) ha assunto, in inglese e in italiano, sfumature differenti: mentre l’inglese ha sostanzialmente preservato il significato originario (superhuman, ‘sovru­mano’; supernatural, ‘sovrannaturale’; superterrestrial, ‘ultraterreno’; supersensual, ‘soprasensibile’; superlunar, ‘translunare’; ecc.), l’italiano lo ha utilizzato — a parte qualche dotta eccezione — per designare l’apogeo di qualcosa (supermercato, super­dotato, superalcolico...), riservando il significato di “sopra, oltre” perlopiù al prefisso di derivazione greca iper- (iperspazio, iperuranio), che però ha troppi altri impieghi (iperdorico, ipercritico, iperdosaggio...) e, nel nostro caso specifico, potrebbe rive­larsi depistante (oltre al fatto che ‘ipermente’ risulterebbe alquanto lezioso, per non parlare di ‘metamente’). Traduciamo quindi supermind e superman, rispettivamente, ‘sopramente’ e ‘oltreuomo’, proprio per non ingenerare fraintendimenti (‘supermente’ parrebbe infatti evocare una mente super). Più agevole la traduzione dell’aggettivo sostantivato supramental (neologismo coniato dallo stesso Sri Aurobindo e assai ricorrente nella presente opera) con ‘sopramentale’. Già il greco Dionisio di Alicar­nasso (I sec. a.C.) fece ricorso a yperánthrōpos (ύπεράνθρωπος), cui seguirono, in tempi decisamente più recenti (XIX sec.), lo statunitense Ralph Waldo Emerson, con il suo Plusman (teso a designare un individuo giunto all’apice dell’umana saggezza), e il tedesco Friedrich Nietzsche che, pur ispirandosi a Emerson, con il suo Über­mensch intese figurare un essere capace di ergersi “al di là del bene e del male”, in modo da superare “l’umano troppo umano”, sebbene il suo oltreuomo, come ebbe argutamente a notare Antonio Gramsci nei “Quaderni dal carcere”, sotto certi aspetti somigli più a una primadonna con «ambizioni fanciullesche di essere “il primo della classe”, ma specialmente di essere ritenuto e proclamato tale» (Q. XVI, 1933-34 [13]) che a un essere postumano (quest’ultimo termine, insieme a ‘transumano’, è stato però incettato dal transumanesimo per indicare un uomo ‘perfezionato’ mediante ingegne­ria genetica e nanotecnologie) elevatosi oltre i dualismi. In aggiunta, il superomismo dannunziano apportò una distorsione fascista all’ideale nicciano, ulteriormente esa­cerbata dal nazismo. Come risulterà evidente nel prosieguo della lettura, l’oltreuomo di Sri Aurobindo non ha nulla a che fare con tutto ciò, rappresentando qualcosa di radicalmente altro: una nuova specie, priva di ego e realmente divina.»

Prima di passare ai due termini inglesi apprehending e comprehending, vorrei anzitutto offrire la summenzionata citazione di Gramsci per intero (o quasi): «Ogni volta che ci si imbatte in un qualche ammiratore di Nietzsche, è opportuno domandarsi e ricercare se le sue concezioni “superumane” contro la morale convenzionale, ecc., siano di pretta origine nicciana, siano cioè il prodotto di una elaborazione di pensiero da porsi nella sfera della “alta cultura”, oppure abbiano origini molto più modeste, siano, per esempio, connesse con la letteratura d’appendice. (E lo stesso Nietzsche non sarà stato poi per nulla influenzato dai romanzi francesi d’appendice? Occorre ricordare che tale letteratura, oggi degradata alle portinerie e ai sottoscala, è stata molto diffusa tra gli intellettuali, almeno fino al 1870, come oggi il così detto romanzo “giallo”). In ogni modo pare si possa affermare che molta sedicente “superumanità” nicciana ha solo come origine e modello dottrinale non Zarathustra ma il conte di Montecristo di A. Dumas. […] Nel carattere popolaresco del “superuomo” sono contenuti molti elementi teatrali, esteriori, da “primadonna” più che da superuomo; molto formalismo “soggettivo e oggettivo”, ambizioni fanciullesche di essere il “primo della classe”, ma specialmente di essere ritenuto e proclamato tale» (op.cit.).

Peraltro, il “superuomo” di Nietzsche nega convintamente la trascendenza, mentre in realtà essere e divenire sono le due facce di una medesima Realtà eterna, al pari di immanenza e trascendenza. Sri Aurobindo ha dedicato un intero articolo (ospitato in Essays in Philosophy and Yoga. vol. XIII dell’Opera Omnia) alle differenze abissali e sostanziali esistenti fra l’Ubermensch nicciano e il suo “supramental being”.

In ambito terminologico, Gianni Vattimo ha ormai chiarito in modo definitivo come la traduzione di “oltreuomo” risulti decisamente più appropriata. Senza dimenticare quel brillante aforisma di Karl Kraus, in cui nota con la sua consueta arguzia che “il superuomo è un ideale prematuro, che presuppone l’uomo» (da Aforismi in forma di diario).

Questa breve parentesi terminologica ci permette di tornare ai due termini inglesi apprehending e comprehending dei quali ci siamo ripromessi di occuparci. Per citare nuovamente una nota scrupolosamente apposta da Tommaso (a pag. 180)

«Sri Aurobindo ravvisa, all’interno della coscienza-forza sopramentale, tre gradazioni: absolute (assoluta), comprehending (onnicomprensiva – traduzione indicata dall’incontestabile Oxford Dictionary), apprehending (onnipervasiva); la prima serba in sé la conoscenza simultanea dell’Uno e dei Molti; nella seconda tutte le potenzialità dell’infinito si trovano racchiuse in nuce; la terza rende possibile il concreto palesarsi di tali potenzialità seminali.»

Tradurre con apprensivo e comprensivo (come leggiamo nell’edizione edita da Mediterranee) lo riteniamo alquanto inopportuno e depistante. Per scrupolo, diamo subito un’occhiata a un paio di dizionari, partendo da quello etimologico…

Apprensivo: (dal latino apprehensus, participio perfetto di apprehendo, ‘mi impossesso’) inquietudine che s’impossessa dell’animo per timore o sospetto di un danno.

Passiamo poi a un normale vocabolario della lingua italiana...

Apprensivo: aggettivo [derivato del lat. apprehensus, participio passato di apprĕhendĕre] - facile all’apprensione, o che manifesta apprensione: un tipo apprensivo; uno sguardo apprensivo]: agitato, ansioso, inquieto, nervoso, preoccupato, timoroso, trepidante.

Pur se l’aggettivo ‘apprensivo’ e il verbo ‘apprendere’ risultano derivare da un medesimo idioma latino, ciò non significa che nell’uso corrente della lingua italiana il significato dei due termini si possa mischiare senza scrupolo alcuno e senza ingenerare fraintendimenti colossali.

Infine, una terza nota di Tommaso (a pag. 212) lascia trasparire come egli si sia preso cura di apporre dovute precisazioni (il più possibile in modo succinto, per non appesantire il dettato originale) volte a chiarire l’accezione di alcuni termini per quanti non possiedono un adeguato bagaglio filosofico: è il caso, per esempio, del termine “estensione”, che nel linguaggio filosofico assume una connotazione ben precisa e, se misconosciuta, impedisce al lettore di comprendere con esattezza le implicazioni di quanto Sri Aurobindo intende affermare. Tommaso quindi precisa, nella nota a piè di pagina, quanto segue:

«L’estensione è la caratteristica principale di un corpo fisico in quanto dotato delle tre dimensioni spaziali; la speculazione filosofica riconosce sostanze estese (occupanti uno spazio fisico) e inestese (come il pensiero, che non occupa uno spazio fisico).»

Note di questo genere (davvero preziosissime) sono disseminate nell’intero testo tradotto, con la più grande parsimonia (solo quando le si reputa strettamente necessarie) e con la più esemplare economia di parole.

Impossibile in questa sede dilungarsi più di quanto non stia già facendo sugli aspetti terminologici; se dovessi analizzarli scrupolosamente tutti, ne verrebbe fuori un intero libro! Vorrei però offrire, prima di passare ad altro, un ulteriore esempio. A pag. 510 del testo originale inglese (edizione Opera Omnia, vol. 22), troviamo una frase in cui Sri Aurobindo descrive una particolare tipologia di visione –

viewing all things from above in some supracosmic or super-cosmic consciousness

 

Tommaso offre la propria traduzione e, inoltre, inserisce un’altra delle sue magistrali note a piè di pagina; partiamo dalla traduzione:

 

osservando tutte le cose dall’alto, in una qualche coscienza sovracosmica o metacosmica

A questo punto la nota, per evitare ogni possibile dubbio, riporta con immenso scrupolo i termini originali utilizzati da Sri Aurobindo e offre tra parentesi la loro spiegazione:

 

supracosmic (che guarda il cosmo dal di sopra) or super-cosmic (o dal di fuori).

 

In questo modo, tutto si illumina di chiarezza! Sri Aurobindo non utilizza mai parole a caso e i due termini suddetti non sono affatto due sinonimi per esprimere un medesimo concetto, ma intendono designare due diverse percezioni. La perissologia è del tutto inesistente in The Life Divine: ogni espressione apparentemente tautologica è in realtà colma di senso (allorché se ne colgono le distinzioni, le sfumature, le sottigliezze). Analogamente, quando Sri Aurobindo sembra ripetere due o più volte il medesimo concetto, non lo fa semplicemente per affrontarlo da diverse prospettive, ma soprattutto per approfondirlo e precisarlo con sempre maggiore dovizia di particolari. Se non si coglie questo aspetto della prosa illuminata e illuminante di Sri Aurobindo, si perde l’occasione unica offerta dai suoi scritti rivelatori e rivelati. Tocchiamo qui uno dei punti cruciali che riguarda tanto i lettori quanto i traduttori: se i primi si lasciano sfuggire l’essenziale, ritenendolo distrattamente come irrilevante o ripetitivo, quando poi pretendono di usurpare il lavoro dei secondi rendono la loro resa del tutto illeggibile, banale, cervellotica – un dannato rompicapo svuotato del vero senso. La massima “traduttore-traditore” resta vera sempre e comunque, si diceva, ma vi sono traditori e traditori: quelli onesti sono coscienziosi, sufficientemente esperti e complessivamente affidabili, mentre quelli disonesti sono ambiziosi, inconsapevoli, maldestri, improvvisati e inattendibili. Il compito di una casa editrice seria, in tale ambito, non dovrebbe essere quello di favorire i raccomandati (come troppo spesso avviene al presente), ma di riconoscere e accogliere i traduttori-traditori onesti e scartare i disonesti.

Ritengo opportuno puntualizzare anche la scelta relativa alla resa dei termini sanscriti presenti nel testo. Sri Aurobindo, per ovvie e ben giustificate motivazioni (come d’uso nella lingua inglese, in modo da permettere a chi non conosce la lingua sanscrita di pronunciarne correttamente i lemmi), sceglie spesso di anglicizzare i vocaboli sanscriti di utilizzo più comune, la maggior parte dei quali sono peraltro entrati ormai in uso nella lingua inglese. La traduzione edita da Mediterranee ricopia pedestremente tale anglicizzazione, dimenticando che così facendo si snatura la lingua italiana, oltre a rendere illeggibile lo stesso sanscrito; come se ciò non bastasse, sovente tale operazione ingenera refusi o errori simili – nella fattispecie, come si può notare, il termine sanscrito saccidānanda (trattasi di parola composta formata da sat, cit e ānanda) viene reso Satcitananda (di impossibile lettura!), dimostrando di non conoscere nemmeno le più elementari regole grammaticali del sanscrito, che impongono (per una precisa regola grammaticale nota con il nome di saṁdhi) alcuni cambiamenti fonetici che avvengono in confine di morfema o tra parola e parola. Sri Aurobindo anglicizza correttamente in Sachchidananda. Tommaso Iorco, conoscitore del vedico e del sanscrito (a lui si deve l’unica traduzione integrale esistente in italiano del Ṛgveda), utilizza la traslitterazione stabilita a livello internazionale e ormai ampiamente in vigore); a differenza dell’inglese, la lingua italiana condivide con il sanscrito il fatto che il modo in cui si scrive corrisponde in entrambe i casi al modo in cui si legge, quindi non ha senso anglicizzare o italianizzare; le sole eccezioni riguardano perlopiù suoni fonetici che in italiano non esistono e che, per renderli correttamente, sono stati per l’appunto elaborati a livello internazionale una serie di segni diacritici (per riferirci all’esempio in questione, il sanscrito è una lingua quantitativa, mentre l’italiano è qualitativo: occorreva quindi creare alcuni trattini, da apporre sopra ad alcune vocali quando queste sono lunghe anziché brevi, come nel caso della seconda ‘a’ di saccidānanda). Peraltro, se non si trasferiscono le parole sanscrite nel giusto modo (siano esse italianizzate o traslitterate), si possono ingenerare errori madornali. Se, per fare un esempio lampante, si traduce in modo pedissequo il titolo del dramma lirico in cinque atti che Sri Aurobindo scrisse ambientandolo in India, ovvero Vasavadutta, si stravolge il nome di persona della protagonista dell’opera teatrale, che in sanscrito è Vasavadatta! C’è perfino chi, tra gli italiani, si ostina ancora a leggere Sāvitrī (altro nome di persona, questa volta della protagonista del capolavoro poetico di Sri Aurobindo) con l’accento sulla prima “i” (orrendo già solo dal punto di vista sonoro!), mentre risulta chiaro dalla grafia devánāgarī (सावित्री) che le due vocali lunghe sono la “a” e la “i” finale” – pertanto, si legge Sàvitri (lo stesso Nirodbaran, che fu uno dei segretari di Sri Aurobindo e lo scriba di Savitri negli ultimi anni, quando l’Autore iniziò ad accusare notevoli problemi di vista, conferma che lo stesso Sri Aurobindo pronunciava Sàvitri – e non potrebbe essere diversamente)!

In definitiva, qualunque traduttore di talento, realmente dotato e capace, sa che per trasporre un testo da una lingua a un’altra non basta padroneggiare le due lingue in questione, ma anche saper trovare le giuste corrispondenze semantiche, ben lungi da una banale e depistante “traduzione letterale” (we find that literal translations more completely betray than those that are reasonably free, ci ricorda Sri Aurobindo: “sappiamo che una traduzione letterale tradisce in modo molto più totale di una traduzione ragionevolmente libera”). La lingua inglese ha dei modi di dire che tradotti alla lettera in italiano suonerebbero ridicoli (in caso di pioggia persistente, in inglese per esempio si usa dire it rains cats and dogs: tradotto alla lettera, dovremmo scrivere: “piove gatti e cani”! In italiano è ridicolo e assurdo… L’appropriato corrispondente in italiano è “piove a catinelle”, oppure, se si preferisce, “piove come Dio la manda”). Mère, come è noto, deprecava le traduzioni in francese di Jean Herbert il quale, per quanto ipercervellotico (davvero insopportabile, talvolta), possedeva almeno una buona padronanza della propria lingua madre.

Un discorso a parte meriterebbe l’utilizzo delle maiuscole in italiano e in inglese. Lo stesso Tommaso ne ha già discusso altrove, pertanto qui mi limito unicamente a far notare, a quanti si sono scandalizzati per il fatto che il titolo The Life Divine sia stato reso al minuscolo (La vita divina) che nessun traduttore valido si sognerebbe mai di tradurre il titolo del capolavoro di Schopenhauer – Die Welt als Wille und Vorstellung – preservando tutte quelle maiuscole che il tedesco e l’inglese legittimamente utilizzano; quindi, in italiano il titolo diventa invariabilmente, in qualsivoglia edizione pubblicata: Il mondo come volontà e rappresentazione. Si tratta di semplice buon senso, ma evidentemente è una qualità che ultimamene scarseggia. La stessa punteggiatura, in inglese e in italiano, varia considerevolmente (tanto per limitarsi a un esempio, il punto e virgola in inglese non di rado assume il valore dei due punti in italiano); lo stesso periodare segue due diverse direttive. Gli inglesi discendono da una classe di marinai e commercianti: la loro lingua ha molte ottime qualità (la sintesi, anzitutto, che le ha permesso di imporsi come lingua internazionale, oltre a una certa forza nel ritmo, che i poeti hanno saputo evidenziare al massimo), ma non è raffinata quanto l’italiano. In inglese si utilizzano frasi brevi: geneticamente abituati a scambiarsi informazioni in mare aperto, sulle navi, o al mercato, la loro lingua si è dovuta distinguere per stringatezza. Le frasi lunghe, in inglese, risultano contorte, a meno che non escano dalla penna di un autentico genio letterario (come nel caso di Sri Aurobindo e di pochi altri autori inglesi). La letteratura italiana – decisamente più ricercata, nata nelle stanze intime di scrittori sopraffini – è abituata a un periodare notevolmente più ricco e articolato. Ne consegue che copiare la punteggiatura dall’inglese, mantenere la medesima sincope, equivarrebbe a svilire la lingua italiana e a renderla illeggibile. Tommaso tutto ciò lo sa bene, ed è felicissimo della stizza degli epigoni. Così scriveva a un suo conoscente, esponendogli brevemente alcune sue scelte traduttive proprio in relazione a The Life Divine: «se sarò fortunato, potrò ricevere un sufficiente numero di critiche: la bontà di qualunque mia scelta la si potrà appurare solo verificando in quale misura avrà fatto irritare i pinzocheri puducerriani: quanto più si indigneranno, tanto più potrò considerarmi appagato»!

Marianna Damiani