«Dopo la pubblicazione di Amritagni, poemetto simbolico in tre parti, opera prima caratterizzata da una sostanziale libertà da ogni metrica definita — il cui livello narrativo raggiunge tuttavia un grado di espressione poetica pienamente adeguato —, e dopo Alkesti, dramma lirico in cinque atti, opera originale e viva che si contraddistingue per l’intensità e lo slancio lirico della scrittura tragica, per il singolare grado di efficacia, e per l’uso suasivo dell’endecasillabo, la presente raccolta di versi costituisce la prima silloge pubblicata da Tommaso Iorco. In essa sono contenute quarantadue poesie — se si escludono le due brevi strofe utilizzate a guisa di apertura di ciascuna delle due sezioni di cui la silloge è costituita — che abbracciano un arco di tempo di oltre vent’anni (la poesia più vecchia della raccolta risale al 1979). L’Autore è uno di quei rari perfezionisti che persegue un alto compito artistico, e che mai accetterebbe di svilire la propria ispirazione per puro compiacimento; ne deriva, come naturale conseguenza, un lavoro di meticolosissima selezione, volto a scegliere unicamente i componimenti ritenuti realmente ispirati. Del carattere illuminativo di questa raccolta è ben cosciente egli stesso, parlando espressamente in ex-ergo di “lucida carmina” a proposito dei versi contenuti ne L’opera della fenice. L’opus alchemico, qui, evidente fin dal titolo, si attua in una ricca metamorfosi interiore, in vista di una vera e propria palingenesi terrestre. Non è un caso, peraltro, che il simbolismo di rigenerazione del mitico uccello sia trasversalmente presente nelle varie culture sia orientali sia occidentali, a ribadire la volontà di una integrazione planetaria, che non vuole essere sincretica bensì comprensiva, nei limiti del possibile, delle passate acquisizioni, per potere andare oltre.
Il percorso che si snoda attraverso la raccolta è simbolicamente iniziatico e progressivo — parte dalla presa di coscienza dell’umana limitatezza per giungere all’unione mistica con ciò che non ha limiti, in un moto complesso e variegato che non si consuma in una esclusiva trascendenza ma che, al contrario, ad ogni ascesa verso l’alto fa corrispondere una discesa verso il basso, nel tentativo di illuminare con il raggio di una coscienza via via superiore i bassifondi dell’incoscienza materiale sui quali si erigono le nostre terrestri fondamenta —
Mentre in alto elevo le fronde
nel beatifico abbraccio del cielo
le radici nel basso affondo
per scoprire l’ascoso tesoro.
Poesia mistica, ma non per questo poesia religiosa. Tommaso Iorco rifugge accuratamente qualsivoglia religione, e assume toni fortemente critici nei confronti di ogni istituzione che nutre la pretesa di monopolizzare la verità o di rinchiuderla dentro le quattro mura di una chiesa (si veda ad esempio la sua Pasquinata). Ci troviamo di fronte a uno di quei poeti eretici di cui è piena la poesia italiana (basti ricordare Bruno o Campanella), cosciente di avere ripreso un filo in realtà mai interrotto, iniziato chissà quando e destinato probabilmente a non avere fine. Con la differenza sostanziale che Iorco si pone, diversamente dai poeti mistici italiani che l’hanno preceduto, al di fuori del cristianesimo e di ogni altra religione, vecchia o nuova. Estremamente esemplificativa in tal senso è la Palinodia in forma di confessione, posta dall’Autore alla fine della prima sezione, la quale termina con una pregnante citazione dell’audace capitano di mare Brasca che, nel 1586, ebbe il coraggio di sfidare l’autorità dispotica del papa, il quale aveva emesso il suo diktat di morte su chiunque avesse osato parlare: e Brasca invece gridò. Così Tommaso Iorco, oggi, grida agli uomini la propria rivolta, la propria sfida, il proprio insopprimibile bisogno di QUALCOSA D’ALTRO.
Non appartengo alla vostra tribù
di rispettabili uomini in gabbia.
Nell’ombra ho fratelli, non altrove.
Eppure, il suo personale grido si esprime mirabilmente con delicatezza e profondità d’anima. Iorco, da autentico poeta, non sentenzia e non giudica; al contrario, il suo grido pare desideroso di contenere e comprendere ogni cosa nel suo vasto abbraccio unitivo — abbraccio d’amore in cui l’intero esistente viene assunto in sé quale forma plurima e manifestazione innumerevole dell’eternamente Oltre che pure è il tutto.
Il grido della terra è nel mio petto:
la gioia e l’agonia delle creature,
il tormento e l’ebbrezza delle sfere
vibrano nel mio cuore sveterato,
corde dell’arpa cosmica dell’essere.
Alle soglie del terzo millennio, il grido dell’anima dell’Autore è il grido di ogni uomo schiacciato sotto il peso della banalità, della superficialità, della decadenza di ogni forma artistica, che si respira anche nella poesia contemporanea. Come la fenice risorge dalle sue stesse ceneri, questa opera inaugura forse una nuova e felice stagione creativa, assumendo una piena consapevolezza artistica e facendosi strumento di auto-rivelazione spirituale».
Enrica Melois Aragno
giugno 2004