Gli Ichnéutai di Sofocle

del prof. Gian Domenico Bua
(saggista)

"I Cercatori di Tracce" o "I rintracciatori" (Ichnéutai) è il titolo di un dramma satiresco di Sofocle restituito, in parte, da un papiro egiziano scoperto a Ossirinco (e pubblicato nel 1912) di cui ci restano meno di 400 versi che costituiscono circa la metà dell’opera.
Apollo, scoperto il furto dei suoi buoi, ma non scoprendo la traccia del ladro, promette di ricompensare chi saprà ritrovarli. Accorre Sileno, il capo dei satiri, e promette di ritrovare i buoi; in cambio ottiene la promessa che lui e i suoi figli saranno liberi. I Satiri si mettono così alla caccia del ladro, ma strada facendo scoprono un vero e proprio groviglio di orme che cercano di seguire. A un tratto si fermano, sorpresi e preoccupati, nell’udire uno strano suono che non sono in grado di decifrare.
Sarà Cillene, nutrice e custode del piccolo Ermes, a spiegare loro l’origine del suono, per mezzo di un enigma. Il suono è la voce di un animale morto, che da vivo non aveva voce: si tratta della tartaruga, dal cui guscio, adattandovi minugie bovine, Ermes ha ottenuto la lira dalla quale trae i suoi suoni. I Satiri intuiscono che il ladro dei buoi è lui, Ermes, e lo denunciano a Apollo.
La parte ritrovata del dramma di Sofocle si ferma qui; il seguito doveva essere il confronto fra il derubato e il ladro, che probabilmente gli rubava anche l’arco e il finale doveva rappresentare la riconciliazione fra i due.
Dopo più di due millenni i "cercatori di tracce" ricompaiono in forma individuale in una ballata di Goethe, il "Cercatore di tesori" (Der Schatzgräber) che in una notte buia e tempestosa è alla ricerca di un ipotetico tesoro che dovrebbe porre fine alla sua misera condizione; una speranza che è anche un’illusione. Mentre scava compare un fanciullo che lo invita a bere da una coppa luminescente e gli confida qual è il tesoro che lui deve cercare di ottenere: "Il lavoro giornaliero, settimane faticose, compensate da allegre feste serali con cari ospiti, saranno le gioie della tua vita futura".
Nella sua ballata Goethe illustra il tema della vana illusione che non può dare felicità e ricchezza durature; la via che l’uomo deve seguire è quella della "feconda operosità".
L’immagine del bambino che offre al cercatore di tesori la coppa risplendente è in un passo dei "Rimedi dell’una e dell’altra fortuna" del Petrarca, che voleva essere, nelle intenzioni dell’autore, non un trattato sistematico dei mezzi per resistere sia all’avversa che alla propizia fortuna (entrambe considerate pericolose) ma una raccolta di brevi ragionamenti in forma di dialoghi — di cui, purtroppo, lo sfoggio di erudizione finisce spesso per soffocare l’efficacia e la auspicabile brevità — nei quali il lettore può sempre trovare il caso a lui più adatto e trarne, se non un consiglio, almeno qualche conforto.
Fra le opere abbastanza note da poter figurare nei titoli elencati dalle compilazioni in forma di regesto, alla voce "cercatori" si ritrova anche "Un romanzo di un’epoca oscura", che è il sottotitolo del Der Gottsucher ("Il cercatore di Dio") pubblicato nel 1881 da Peter Rosegger nella sua rivista "Heimgarten" (Casa-giardino). L’autore dichiara di trarre l’argomento del suo romanzo da un episodio attribuito appunto a un’ "epoca oscura", medioevale, della sua regione natale, la Stiria.
Il luogo in cui si svolge la trama è Trawies, dove sorge la montagna sulla quale gli abitanti del villaggio celebravano un antico rito, la festa degli Avi, dedicato al Fuoco, il cui simbolo sacro sarà custodito per tutto l’anno dal più degno di loro. Il rito "pagano" è ovviamente osteggiato dal rappresentante della nuova ortodossia, Padre Francesco, che vorrebbe abolire i costumi non cristiani. Gli abitanti di Trawies lo considerano un nemico della loro libertà e decidono di eliminarlo. La sorte designa, come strumento del delitto, un pacifico sognatore chiamato Wanhfried. Costui è "uomo di fede severa" ed è a lungo dilaniato dal senso di ribrezzo che in lui suscita l’idea di dover compiere un omicidio e dall’obbligo di rispettare il giuramento; finché decide di colpire la vittima designata nel momento in cui la sua anima è in stato di grazia, avendo appena compiuto il sacrificio della messa. L’autorità ecclesiastica reagisce all’efferato delitto con una crudele repressione: ma nessuno degli abitanti di Trawies tradisce l’autore. Così dodici di essi, scelti a sorte, vengono messi a morte e il villaggio viene maledetto e messo al bando.
Wahnfried si è già ritirato sulla montagna ed è ignaro dell’anatema che ha colpito il villaggio che lui ha creduto di liberare: sarà Gallo, il guardiano del Fuoco e uno dei capi della congiura, ad informarlo; l’esecutore decide allora di tornare nel villaggio per dedicarsi alla salvezza dei suoi abitanti, ormai in preda ai terribili effetti della condanna e dediti al vizio e alla brutalità. Wahnfried dovrà ritirarsi di nuovo in solitudine, fino al giorno in cui gli abitanti di Trawies saliranno in massa sulla montagna per celebrare il rito del Fuoco. Allora il solitario sognatore riappare per esortarli a credere nell’unico Dio di cui il Fuoco è il segno visibile e ad edificare un tempio che accolga la sua inestinguibile Luce. Ma la violenza e la perversione hanno indurito a tal punto la gente del villaggio che il solo rimedio possibile sembra quello dell’annientamento: così, una volta eretto il tempio, Wahnfried raduna i sopravvissuti con l’intento di offrirsi insieme a tutti loro in olocausto espiatorio all’implacabile Divinità del Fuoco.

I "cercatori" di Sofocle erano dei Satiri, cioè esseri simbolici, mezzo uomini e mezzo animali (o uomini che ancora conservavano qualcosa dell’animale anche nelle parti esteriori, i piedi, le mani, la testa) poi diventate "divinità dei boschi, compagne di Bacco o Dioniso", ai quali Apollo promette una libertà che può anche essere intesa come liberazione, in cambio del ritrovamento del ladro dei suoi buoi. Ma cosa rappresentavano i buoi di Apollo?
Sappiamo che presso i Greci il bue era un animale sacro, spesso usato come vittima sacrificale: l’ecatombe designava appunto il sacrificio di cento buoi. Il Sole (altra figurazione simbolica di Apollo) aveva buoi di bianchezza immacolata e con corna dorate che pascolavano nell’isola di Trinacria e furono anch’essi "rubati", nonostante il divieto, dai compagni di Ulisse, i quali se ne cibarono e morirono tutti. Dei buoi sacri ricorrono anche nel mito della famiglia dei Buzigi: erano destinati a commemorare l’aratura inaugurale di Triptolemo nei riti appunto dell’aratura sacra che si celebravano nei Misteri eleusini. I buoi di Gerione, gigante dalle tre teste, sarebbero i sacerdoti dei più antichi Misteri delfici, di cui Gerione stesso era considerato il primo sacerdote. Gerione fu vinto e ucciso da Ercole, al momento in cui il culto delfico doveva essere "adattato" o rinnovato. Il simbolismo del bue è riassunto così da Dionigi Areopagita: il bue indica forza e potenza, capacità di "arare", cioè di scavare solchi intellettuali che ricevono le piogge feconde del cielo; le corna sono simbolo della forza conservatrice e invincibile.
I buoi di cui Apollo vantava la proprietà erano dunque i suoi attributi fondamentali: la forza, la potenza e la sapienza (la feconda pioggia del cielo che ricevono i "solchi intellettuali"): di qui il carattere liberatorio attribuito al loro "ritrovamento".
Nel mito ripreso e adattato dal dramma di Sofocle a rubare i buoi è stato Ermes, simbolo dell’intelligenza industriosa e realizzatrice che, proprio perché è utilitaristica, diventa una forza limitata e facilmente corruttibile. Ermes, oltre che protettore dei commerci, era anche protettore dei ladri e considerato un "intelletto perverso", dedito soprattutto alle prove di abilità, di malizia, astuzia e furberia. In quanto rappresentante di una forza di elevazione simbolizzata dai suoi sandali alati, Ermes è anche l’inventore della lira, costruita con il carapace della testuggine e le corde fatte con gli intestini dei buoi rubati ad Apollo. La riconciliazione col dio solare, rappresentata probabilmente anche nella parte del dramma di Sofocle che non ci è pervenuta, avvenne dopo che Apollo sentì il suono che aveva spaventato i Satiri, che questi non erano in grado di riconoscere, e volle usare la lira; così come ebbe in seguito in dono da Ermes anche il flauto, non prima però di avergli impartito lezioni di magia divinatoria e avergli dato, in cambio, il caduceo d’oro. Fu proprio perché colpito dalla sua abilità che Zeus volle fare di Ermes il messaggero presso gli dei inferi, da cui la sua funzione di Psicopompo, di accompagnatore di anime e di mediatore fra gli dei e gli uomini.
Ermes è anche il protettore dei viaggi e dei viaggiatori e come tale può essere perciò considerato anche protettore o antesignano dei "cercatori" di tracce o di orme. Nel mito in questione è lui, tramite la nutrice Cillene, che mette i cercatori dei buoi di Apollo sulle sue tracce.
I Satiri si arrestano di fronte alla grotta di Cillene, sconcertati dallo strano suono di uno strumento che non conoscono. Allora Cillene, come una Sfinge, propone loro l’enigma di un suono derivato da un animale senza voce: la tartaruga.
Cillene, intanto, la divina nutrice, è immagine della Madre universale che nutre, soccorre, guida tutti gli esseri, accogliendoli o apparendo ad essi, se cercano la sua "traccia", nell’immensa caverna del Cuore. E la caverna, proprio in quanto simbolo del cuore, è sempre connessa alla Montagna, simbolo della vetta da scalare, dell’asse che unisce cielo e terra, quindi del sentiero che ogni essere, secondo la sua possibilità, deve percorrere per raggiungere l’unica meta. Per i cercatori di Sofocle la meta era la libertà da conquistare individuando la traccia che portava al ladro dei buoi di Apollo. Le orme li portano alla Caverna dove la madre Cillene li soccorre svelando l’enigma.
L’enigma è il suono misterioso che nasce dal silenzio (l’animale che non ha voce). In tutto l’Oriente il ruolo simbolico della tartaruga è sempre connesso alla stabilità dell’universo di cui essa rappresenta il sostegno. Nel simbolismo taoista la tartaruga sostiene il pilastro del cielo; in quello indù essa è il Kûrma-avatâra che fa da sostegno al monte Mandara e gli dà stabilità: la tartaruga può dunque considerarsi l’immagine stessa dell’universo e del suo equilibrio; la sua caratteristica più importante è la longevità cui si associa la saggezza. La sua corazza è al di sopra rotonda come il Cielo, al di sotto è piatta come la Terra: perciò essa è anche simbolo dell’Uomo universale. Il suo ritirarsi nella corazza è associato alla concentrazione e al "ritorno" allo stato primordiale. Krishna, nella Bhagavad Gîtâ la indica ad Arjuna come simbolo della saggezza solida, che l’uomo ottiene "quando, come la tartaruga che ritira completamente le sue membra, egli isola i sensi dagli oggetti sensibili". I Greci la associavano ad Ermes anche per la sua "ambivalenza": la tartaruga appartiene alla terra e all’acqua e si trova a suo agio in entrambi gli elementi. E la lira che per primo egli trasse dal suo carapace doveva incantare lo stesso Apollo. Ecco perché nell’Inno Ermes la saluta come "guadagno inaspettato…leggiadra beltà che ritmi la danza, compagna dei festini…guscio dai riflessi cangianti, tartaruga che vivi nella montagna…Viva proteggi dalla dannosa magia; ma una volta morta canterai forte". Anche Plinio il Vecchio attribuiva alla carne di tartaruga la virtù di scongiurare i malefici e di essere rimedio salutare contro i veleni; ma la qualità che incantò Ermes è quella di poter cantare forte, una volta morta.
La lira inventata da Ermes sarà lo strumento di Orfeo, quindi il simbolo della poesia incantatrice e lo strumento dell’armonia cosmica. Il simbolismo di questo strumento che trasforma il Suono originario in musica, cioè in melodia e armonia percepibile anche dai sensi esteriori, riguarda anche ogni sua singola parte: le sette corde dello strumento più antico erano associate ai sette pianeti allora conosciuti e quando il numero fu elevato a dodici esse vennero associate ai segni dello Zodiaco. Un apologo riportato da Lie-tzû evoca musici celesti che, toccando le corde, facevano danzare uccelli e pesci; Shen-Wen , con il suono di quattro corde fece nascere le stagioni e dalla loro armonia trasse l’accordo perfetto del mondo degli Immortali. Gli strumenti più prossimi alla lira, il liuto e la vînâ, sono ancora considerati in India l’emblema di Sarasvâti, l’aspetto della Madre che è la Shakti (la Coscienza-Forza) di Brahma, ed è anche la personificazione della parola e del suono creatore.
Le corde sono tratte dalle minugie dei buoi di Apollo, attributi della sua potenza e della sua sapienza: i visceri, nella rappresentazione dell’animale simbolico, sono connessi al vitale; e l’energia vitale è quella che conferisce alla musica il suo potere incantatore. Al guscio della tartaruga, al suo rivestimento di longevità, connessa alla durata, che evoca il ritmo perpetuo del tempo, Ermes aggiunse anche un paio di corna per poter tendere le corde.
L’ermeneutica (scienza tradizionale che considera le consonanze simboliche delle parole ed è analoga al Nirukta, una delle scienze applicate dei Veda) ricollega il nome stesso del corno (lat. cornu), così come quello di corona, alla radice krn presente nell’appellativo forse più importante di Apollo in quanto dio degli Iperborei: Karneios, che significava appunto dio del Karn, cioè dell’alto luogo, o della Montagna sacra del Polo (che i Celti rappresentavano nel mucchio di pietre chiamato cairn). Karneios significa propriamente il ‘dio potente’ e il suo simbolo più caratteristico è proprio quello delle corna. A Delo oltre alla pietra cubica che rappresentava la montagna simbolo di potenza e di elevazione, sorgeva un altro altare, chiamato Keraton, formato di corna di buoi e di capre solidamente unite. Le corna, dunque, come la corona, sono l’insegna del potere e del rango elevato e la raffigurazione dei raggi luminosi, a loro volta attributi di potenza sacerdotale e regale.
Così come i raggi sono emanazioni della Luce, le note che si possono trarre da uno strumento musicale sono emanazioni del Suono: questa evidenza simbolica dovrebbe dunque far comprendere perché l’arco e la lira siano entrambi strumenti sacri ad Apollo, o suoi "attributi dominanti", ai quali si collega la sua "contraddittorietà" o "doppiezza": la faccia benigna espressa nello strumento che ammalia e soggioga, rendendo mansueti animali feroci, alberi e uomini, uccelli e pesci , ammaliati dal "canto bello"; la faccia "malvagia" simbolizzata nell’arco che scaglia la sua freccia da lontano, cosa che esprime il distacco del dio dalla sua vittima.
Pare che gli antichi Greci chiamassero l’arco e la vita con lo stesso nome (bios) ed è questa concomitanza che fa dire ad Eraclito l’oscuro: "Dell’arco, invero, il nome è vita, ma l’opera è morte". Si diceva che Apollo concedesse agli uomini la sapienza (è questa la "libertà" che cercavano anche i Satiri inseguendo le orme dei buoi?) attraverso la "divinazione". Il dio si serve come intermediario sia della parola (del suono) che della freccia. E la freccia allude forse all’occhiata mediante cui il dio trasmette la sapienza direttamente. Per questo la parola del suo oracolo (che "dice e non dice") ha bisogno di un interprete qualificato. Giunti davanti alla caverna da dove proviene il suono i Satiri cercatori di tracce scoprono l’origine del suono mediante l’enigma posto e spiegato da Cillene. La potenza della visione è superiore a quella della parola: è questo il senso vero di quel passo del Timeo platonico (71e - 72a) che afferma: “nessuno che sia padrone dei suoi pensieri raggiunge una divinazione ispirata dal dio e veridica…Ma appartiene all’uomo assennato il ricordare le cose dette nel sogno o nella veglia dalla natura divinatrice ed entusiastica, il riflettere su di esse, il discernere con il ragionamento tutte le visioni allora contemplate, il vedere da dove quelle cose ricevano un significato e a chi indichino un male o un bene, futuro o passato o presente…”.