estratto dall’introduzione a
I visir di Bassora
di
SRI AUROBINDO
Ci rendiamo conto di quanto ogni analisi di ‘The Viziers of Bassora’ comporti molteplici livelli. La mirabile organizzazione della trama e, insieme, la sublime opera di versificazione, dà origine a un’opera teatrale di immenso fascino, dove ogni singolo personaggio ha una precisa valenza nella ricca tessitura simbolica e poetica dell’opera.
Questo testo teatrale evoca l’andamento di una danza portentosa, creata secondo il disegno di una intelligenza sovrana — e tutte le scene in esso contenute sono momenti e figure di questa danza fascinosa, e l’intero mondo è rinchiuso nel gioco delle sue cadenze e tutto partecipa all’ebbrezza delle sue volute.
Il tema centrale è piuttosto familiare: la pace, non concepita negativamente, come assenza della guerra, ma come espressione di una radicale libertà dall’atavica barbarie. Finché uomini generosi e schietti del calibro di Nur al-Din verranno perseguitati e despoti come Almuin saranno lasciati liberi di esercitare il loro perverso dominio, non potrà esserci vera pace e felicità duratura sulla terra: questo Sri Aurobindo diceva quando l’India era sotto il giogo straniero. Ma Nur al-Din deve egli stesso subire una palingenesi, come per l’appunto avviene nel corso della drammaturgia: egli, nel suo stato di grazia infantile, nulla sa delle forze spietate che fanno da contrappeso alle potenze benefiche. Per fronteggiare con successo la molteplicità delle forze della vita, egli deve in primo luogo riconoscere la legge universale della coesistenza degli opposti. La sua vicenda è dunque una allegoria di quel passaggio obbligato che conduce al compimento di sé, padroneggiando e assimilando gli opposti in conflitto — e tale processo è descritto nei tipici termini simbolici degli incontri, dei pericoli, dei cimenti e delle prove. Più volte cade in trappola, finché, rivelatosi incapace di riconoscere il male e di tenergli testa, è costretto a vederlo nella sua forma più cruda. Gli spiriti ingenui cercano sempre di escludere da sé e di negare nel mondo la possibilità del male — ma è proprio questa una delle ragioni principali del persistere del male! La funzione del male è di mantenere in movimento le dinamiche del mutamento, per permetterci di conquistare lo stato di pienezza non in un paradiso lontano, ma in questa stessa realtà materiale. Nur al-Din deve, in sintesi, armonizzare divinamente ogni disparato aspetto della propria natura e creare in se stesso una suprema armonia: questo Sri Aurobindo dice oggi a ognuno di noi mediante la presente commedia, in cui grazia e forza si abbracciano insieme nell’ampio afflato della più alta poesia drammaturgica.
Alla luce di tutto ciò, sarebbe però profondamente ingiusto considerare l’intreccio della vicenda romantica fra Nur al-Din e Anis al-Gialis un semplice pretesto per mascherare una più profonda allegoria: al contrario, ci troviamo in presenza di una bellissima storia d’amore, tratteggiata con somma sensibilità poetica e umana, che non risulta per nulla disgiunta dagli altri livelli interpretativi, ma viene a essere un tutt’uno con essi, nel modo più spontaneo possibile. Lo slancio appassionato che spinge i due giovani a unirsi fra loro si innesta perfettamente nel senso profondo dell’opera, che è di indicare la realizzazione di una armonia non limitata alla sfera della propria interiorità, ma che coniughi mirabilmente il dentro e il fuori e faccia della vita una vibrante armonia. E quale più appropriato termine di perfetto accordo troviamo in natura, dell’unione concreta fra una donna e un uomo, quand’esso costituisce un reale matrimonio fra anime che si riconoscono l’una nell’altra, fra menti e cuori e corpi in completa sintonia? Anche l’amore, peraltro, deve raggiungere la sua maturità, anch’esso è sottoposto a prove per fondere l’iniziale fiamma in un grande fuoco imperituro.
La musicalità stupenda del linguaggio poetico rende al meglio l’espressione del fitto intrico di sentimenti, ponendo nel contempo in risalto le differenti caratteristiche psicologiche dei personaggi. Ai pregi poetici, che conferiscono a quest’opera un altissimo valore e una profonda estetica, si aggiungono infatti i numerosi pregi teatrali — l’antitesi dei caratteri dei due visir (e dei rispettivi figli), la sapiente caratterizzazione di ogni singolo personaggio, il crescendo scenico culminante nella fuga a Baghdad di Nur al-Din e Anis, oltre alla felice soluzione conclusiva —, pregi che ne assicurano il suo successo sui palcoscenici di tutto il mondo, quando l’opera verrà adeguatamente apprezzata e rappresentata. Sri Aurobindo è uno di quegli autori destinati a essere maggiormente amati con il trascorrere del tempo.
In definitiva, l’intero fardello della vita viene trasfigurato non nel chiaroscuro della trama dei sogni, come in Shakespeare, ma in un moto agile, sicuro, maestoso, in cui l’intera vita viene nobilitata in uno slancio indefinibile e in una aspirazione verso un mondo nuovo, una realtà terrestre pervasa e rinnovata dalla più alta e beatigica luce divina.
Quanti (dai paludati accademici agli apprendisti seguaci) discutono con un certo sussiego dei testi in prosa di Sri Aurobindo — della sua filosofia, del suo yoga, del suo messaggio —, dovrebbero finalmente avvedersi che il dettato poetico è sempre stato il suo vero veicolo espressivo e che, nella vasta totalità della propria produzione poetica, egli ha disseminato, con assoluta maestria e infinita sapienza, il più profondo nucleo della propria visione di bellezza e di gloria. Tuttavia, come recita un antico proverbio indiano, «per capire i poeti bisogna avere l’anima grande; la luna fa gonfiare il mare, ma non l’acqua dei pozzi» (ivi compresi i ‘pozzi di scienza’)!
Tommaso Iorco