Pubblichiamo qui di seguito i messaggi che ci sono pervenuti
da alcuni lettori del saggio di Tommaso Iorco
pubblicato a cura della nostra associazione.
Carissimo Tommaso Iorco,
oltre a dovutissimi complimenti per l’opera essenziale, come non se ne trova in nessuna lingua, che è Dai Veda a Kalki, magistrale dimostrazione di sano discernimento spirituale che vola sui cicli per vederne il fine, mi sento di doverti ringraziare per le conferme che tal’opera fa albeggiare a chi è innamorato di Sri Aurobindo e Mère, e le nuove prospettive che la stessa ha saputo innescare in questo momento della mia vita.
Grazie e complimenti non solo per un’opera che sorvola lo sterile golem del mondo accademico e l’isterico bazar new-age senza radici… soprattutto per lo spirito che l’anima… stupendo esempio di lucidità interiore come non se ne trova, e per le tue capacità e conoscenze che sanno esprimerlo al meglio (lo spirito di cui sopra), facendo così acquisire di diritto un posto d’onore al tuo libro tra le opere dei grandi pionieri iconoclasti del e per l’uomo.
Grazie,
Giacomo Colomba
Caro Tommaso,
il tuo Dai Veda a Kalki è un libro che esige particolare attenzione-penetrazione-percezione. Sono talmente “vasti” i passaggi, le intuizioni, i collegamenti… la miriade di informazioni che scavano nel profondo ( anche per me che non sono certo digiuna della cultura indiana) da richiedere a chi si appresta a formulare impressioni e commenti… un notevole sforzo di creativa sintesi.
Mi spiego meglio. Il tuo è un saggio che stimola continuamente e induce a entrare sempre più nel vivo della Grande avventura dell’India. Più ci si inoltra in Dai Veda a Kalki e più si percepisce l’enorme lavoro che ci sta dietro. Certamente un lavoro d’indagine fuori dalla norma.
Il lettore viene invaso dall’immensità... e deve lentamente assuefarsi al nuovo — seppure antichissimo — mondo che gli sta camminando accanto.
Uno (tra gli altri) pregi del tuo libro... è di trasportare nell’oggi e qui l’illuminante insegnamento di quei Testi, finendo poi con Sri Aurobindo e Mère che iniziano la grande, incredibile rivoluzione. Loro, infatti, proseguono, disvelando il Nuovo Mondo già presente sulla terra, là dove gli altri Maestri si erano fermati.
In qualche modo, in forma maieutica... fai emergere il “sommerso” della Cultura Madre che ha determinato tutte le altre culture e che la maggioranza dei paludati dotti-intelettuali d’Occidente non vogliono (purtroppo) a tutt’oggi riconoscere.
Basta vedere come vengono ‘trattati’ in generale Sri Aurobindo e Mère in Italia!!! Cioè spesso sono buttati a viva forza nel grande minestrone new-age o male interpretati anche dai sedicenti addetti ai lavori.
Compliments!
Marilde Longeri
Caro Tommaso Iorco,
ho letto il suo nuovo libro Dai Veda a Kalki, trovandolo davvero bello e importante, un autentico “dono del cielo”.
Mimmo Bua
Dai Veda a Kalki è un libro bellissimo, che dice cose profondissime, presentandole tra l’altro in una forma molto gradevole.
Pino Landi
Gentile Sig. Iorco, sono da poco suo appassionato lettore, infatti sto leggendo con vivo interesse Dai Veda a Kalki. Vorrei farLe i miei complimenti per il lavoro assolutamente non “occidentalista” e quindi pulito da certe impalcature mentali che lei fa notare nel Suo scritto.
Loris Bailini
Gentile Sig. Iorco,
sono da tempo una fedele lettrice dei Suoi libri, che mi piacciono molto ed il Suo Dai Veda a Kalki mi sta facendo compagnia in vacanza.
È un tomo poderoso ma molto interessante e veramente utile, perché il Suo modo vivido e personale di scrivere chiarisce ed alleggerisce la quantità impressionante di conoscenza che espone. LeggerLa è un vero piacere e sono sicura che questa Sua nuova opera sarà un successo che Le porterà molte e meritatissime soddisfazioni.
Poiché si va dove tira il cuore, ho letto anzitutto il bellissimo capitolo su Sri Aurobindo e mi permetto di scriverLe per chiederLe un chiarimento.
A pagina 643 Lei scrive che Sri Aurobindo venne candidato per il Premio Nobel per la Pace e che Mère non accettò che il premio venisse dirottato su di lei l’anno successivo. Invece Georges Van Vrekhem, nel suo “Beyond Man” (Harper&Collins Publishers, 1997), altro libro splendido che Lei certamente conosce, scrive che il Maestro era stato candidato per il Nobel per la Letteratura, su proposta di Pearl S. Buck e G. Mistral (Prologue, pag. XVII) e non accenna affatto alla successiva candidatura offerta a Mère, cui ha dedicato un intero libro successivo.
È un argomento che è raramente toccato nelle biografie di Sri Aurobindo, almeno in quelle che io conosco, e Le sarei molto grata se Lei avesse la voglia e la pazienza di chiarirmi con esattezza come sono andate le cose — o indicarmi dove andare a cercare questi dati.
Le rinnovo i miei complimenti per il Suo bellissimo libro, La ringrazio molto per l’attenzione e la gentilezza e spero Lei vorrà rispondermi.
Cordiali saluti
Daria Balbo Fabre
Ringrazio la gentile lettrice per avermi offerto questa occasione di approfondire l’argomento, che nel libro ho sintetizzato all’estremo.
La candidatura al Premio Nobel (a Sri Aurobindo prima, a Mère dopo) è in realtà poco documentata.
Sri Aurobindo venne candidato al Premio Nobel per la Letteratura nel 1943 da Sir Francis Younghusband, membro della ‘Royal Society of Literature’. Quell’anno, tuttavia, il premio non venne assegnato ad alcuno.
Alcuni anni dopo, ovvero nel 1949, la poetessa cilena Gabriela Mistral (Nobel 1945) rilasciò un’intervista alla stampa nella quale disse che si stava accingendo a candidare Sri Aurobindo per la letteratura. Pearl S. Buck (Nobel 1938), appresa la notizia, comunicò che avrebbe appoggiato ufficialmente tale candidatura. Quindi, una lettera firmata da 36 personaggi indiani di rilievo venne redatta a sostegno dell’iniziativa. Ciò nonostante, il nome di Sri Aurobindo non figura nell’elenco dei candidati ufficiali del 1949 e del 1950. Dato che il regolamento del premio Nobel prevede che una candidatura presentata da un precedente assegnatario deve considerarsi automaticamente accettata, si evince che Gabriela Mistral non inviò la richiesta formale di candidatura a Stoccolma. Nell’aprile del 1950, tuttavia, il dottor Juan Marin, responsabile cileno degli affari esteri in India, comunicò la notizia della candidatura di Sri Aurobindo da parte della Mistral per il 1951. Ma, se presso l’Istituto norvegese del Nobel è pervenuta la richiesta, essa è stata stralciata alla notizia della scomparsa del candidato (avvenuta il 5 dicembre del 1950), non essendo contemplata un’assegnazione postuma.
Per quanto concerne invece il premio Nobel per la Pace, nel 1950 Sri Aurobindo venne ufficialmente candidato dal prof. Saileswar Sen, dell’università di Andhra, su consiglio del Vice Rettore dell’università medesima (tale C.R. Reddy).
Scomparso Sri Aurobindo, nel 1951 qualcuno pensò di trasferire la candidatura a Mère. Come si può leggere nel primo volume dell’Agenda di Mère (pagina 29 dell’edizione francese originale, pagina 41 dell’edizione italiana), Mère scrisse una nota in inglese e in francese a commento della propria decisione di non accettare il prestigioso Premio. Il 15 maggio 1962 Mère, dando a Satprem il foglietto nel quale era riprodotta la nota di cui sopra, la commentò con queste testuali parole: «On voulait me faire avoir le Prix Nobel de la Paix et on m’a demandé des papiers — j’ai écrit ça… Ils avaient voulu donner le prix Nobel à Sri Aurobindo, est il est parti l’année juste avant la décision. Et comme on ne donne pas le prix aux gens qui sont “morts”, on ne le lui a pas donné. Alors on a voulu transférer cela à moi, et j’ai écrit cette note, parce que je ne voulait pas du tout de gloriole. Alors c’est tout — ils n’ont pas donné de prix cette année-là pour la Paix. Je pense que l’affaire est enterrée» [“Volevano farmi ottenere il Premio Nobel per la Pace, e così mi hanno chiesto una dichiarazione — ecco cosa avevo scritto… Avrebbero voluto dare il premio Nobel a Sri Aurobindo, e lui se n’è andato proprio l’anno prima che prendessero la decisione. E siccome il premio non lo danno mai a persone ‘morte’, non glielo hanno conferito. Allora hanno proposto di trasferirlo a me, e così ho scritto queste parole, perché l’ultima cosa che volevo è la vanagloria. Perciò è andata a finire che quell’anno il premio Nobel per la Pace non l’hanno assegnato a nessuno. Credo che ormai sia una faccenda morta e sepolta” — vedi Agenda di Mère, III volume, edizione francese pagina 155, edizione italiana pag. 166]. Con tutta evidenza, Mère doveva lavorare nell’ombra, e tale Premio le avrebbe portato una celebrità che lei non desiderò mai, e che avrebbe in qualche modo ostacolato il vero Lavoro.
T. I.
Cher Tommaso,
je vous remercie de tout mon cœur pour l’excellent livre Dai Veda a Kalki… Même en touchant le livre, on a une très bonne vibration. Oui, je suis sûre que vous avez fait un travail très utile.
Veuillez accepter encore une fois nos remerciements et nos pensées fraternelles.
Suprabha Nahar
P.S.: Encore un grand MERCI!
Tommaso’s book is superb!
It is a monumental work which has taken much research.
Maggi Lidchi
Caro Tommaso,
Dai Veda a Kalki è bellissimo, mi piace così tanto!
Il tuo libro è una commistione così avvincente di poesia, buon gusto linguistico, acutezza di precisione, e, soprattutto, quell’aspirazione all’Assoluto attraverso la conoscenza, che ne sono incantata. C’è un equilibrio che non scoraggia mai la lettura, mai un istante di noia, di calo di stile interiore… è quella trama di continuo anelito all’Unione su cui è tessuto a tenerlo vivo, vero, dinamico. E anche quando qualche volta sembra di dover trattenere il respiro, perché per un istante ti attardi in qualche dettaglio esplicativo e la luce che ci conduce sembra velarsi… è il disorientamento di un attimo… subito ci riprendi con qualche verso incandescente dei Veda e delle Upanishad. Un amore per la conoscenza mai fine a se stesso, ma solo strumento di Unione, che mi dà una grande ricchezza, espande. È un incanto quest’armonia di conoscenza e di sole! È pura esultanza fisica questa lettura, ne sono inebriata!
È talmente tanto quello che dici che la mente rimane ipnotizzata, come stordita. Ci sono pagine di una bellezza incredibile!
Tu sei con grande generosità come in disparte, non interponi niente di personale, nessun’ombra di ostentazione, di pretenziosità espositiva, quella di chi sa di sapere così tanto e in qualche modo lo fa inconsciamente trapelare.
Procedi in modo diretto, a passo di marcia, punti il dito verso i bacchettoni, abbatti altarini, alternando dovizia di conoscenza a spunti di sperimentazione concreta, fino a un compimento finale da brivido: l’universo come corpo vivente del Divino.
Rosanna Farinazzo
Proponiamo ora una lettera-articolo di Paolo Tortora, intitolata “Dai Veda a Kalki — la quadratura del cerchio”.
In termini culturali ho iniziato a leggere i miei primi libri circa 20 anni fa. Negli anni sono passato dalla lettura di saggi ai testi di maestri indiani ed ultimamente a leggere quasi esclusivamente testi tradizionali. Purtroppo mi sto scontrando con il problema della traduzione che mi accorgo mi allontana molto dalla vera interpretazione o meglio mi accorgo che la mia comprensione rimane influenzata dalla finestra interpretativa riportata dal traduttore/commentatore. Infine leggendo i tuoi articoli sull’origine del linguaggio e gli studi di Sri Aurobindo, mi accorgo che il problema è ancora più profondo e legato alla natura stessa del sanscrito vedico ed in generale del legame tra i linguaggi antichi (semitici, indoeuropei e dravidici).
A tal riguardo i tuoi lavori sono di immenso capitale per me, mi riferisco ad esempio alla bellissima traduzione del Rg-Veda. Ti devo ringraziare profondamente per avermi aperto ad una nuova visione dei Veda e in particolare del Rg-Veda.
Il percorso culturale per ciò che riguarda la spiritualità ha seguito in me un percorso confuso e solo con il tuo libro ho finalmente maturato una visione coerente e chiara.
Fino a poco tempo fa vedevo di mal occhio i Veda, proprio perché vedevo di mal occhio la cosiddetta cultura ariana, intesa come mi era stata passata da autori e circoli culturali per lo meno sospetti, mi riferisco ad esempio agli scritti di Julius Evola. Avevo assunto che questi esprimessero una verità insindacabile e consolidata.
La mia reazione è stata quella di un rifiuto totale, parafrasando la metafora dei cowboy e degli indiani ho sempre associato gli ariani ai cowboy e i dravida agli indiani e ovviamente non potevo che prendere le parti degli indiani! Così mi sono innamorato del pensiero di Alain Danielou e del suo libro Shiva e Dioniso (anche se ora mi accorgo come alcune sue considerazioni e parallelismi fossero forzati).
Questa mia presa di posizione a favore degli indiani ha influenzato in modo subliminale tutta la mia formazione spirituale. Così in modo aprioristico ho iniziato a rifiutare tutta la tradizione vedica e soprattutto vedantica, immaginandola come una mera speculazione metafisica, una castrazione dello spirito. Mi sono invece buttato nello studio dei testi tantrici e puranici, nello hatha e kundalini yoga.
La mia confusione era enorme perché facevo miei concetti che, coerentemente a quel tempo, avrei dovuto rifiutare. Il Potere del Serpente divenne il mio testo teoretico di riferimento.
Interposi agli studi sulla letteratura hindu quelli sul pensiero cinese ed in particolare taoista. Il movimento chan rappresenta una bella sintesi del pensiero taoista originale con la nuova linfa vitale portata dal buddismo mahayana.
Trovo molto affascinante l’approccio alla spiritualità dell’antica Cina. C’è un filo conduttore che lega testi quali il Li Ching, il Tao Te Ching e lo stesso Shin Jin Mei, è quella dottrina che fonda i suoi principi sulla Via della non-azione o Wu-Wei. Mi sono sempre chiesto come mai esistano pochi lavori che cerchino di avvicinare e comparare la l’approccio spirituale cinese con quello hindu.
Tornando al tema, solo negl’ultimi anni ho iniziato a far chiarezza su molti aspetti. Il tutto è iniziato con l’avvicinamento allo shivaismo del Kashmir, infatti la scuola Trika mi sembrava l’anello mancante per una comprensione teorica corretta della spiritualità. L’approccio advaita rappresentava per me la perfetta sintesi tra la teoria e la pratica, inoltre mi attirava molto il fatto che essa fosse una cultura eterodossa rispetto l’autorità assoluta dei Veda. Da lì seguì però un riavvicinamento a Shankara grazie ad un evento buffo, cioè quando ho scoperto che probabilmente il grande maestro dell’India veniva da una famiglia shivaita.
Al di là della correttezza di ciò che si elaborava nella mia mente, il risultato è stato la nascita di una nuova visione completamente libera da schemi preconcetti, era come se indiani e cowboy avessero fatto pace anzi, non avessero mai combattuto gli uni contro gli altri, forse erano solo differenti tribù dello stesso popolo ed i cowboy fossero altri, magari quella pseudo cultura colonialista e poi nazista che aveva creato il mito della razza ariana così come è largamente e diffusamente intesa.
Tutto questo discorso mi è servito per arrivare alla scoperta dei tuoi lavori che hanno completato il ciclo, riscoprendo nei Veda la reale matrice della nostra cultura spirituale.
Ma mentre il tutto si chiudeva serenamente, altri orizzonti si stavano aprendo grazie ai tuoi lavori.
In un certo senso io ho compiuto al contrario ciò che probabilmente è stato il percorso che ha seguito la nostra civiltà. Da quanto tu scrivi lo sviluppo della razionalità è un passaggio fondamentale e caratterizzante della nostra èra, il quale segue una consapevolezza dell’umanità ingenua basata sull’intuizione e che fa da ponte verso la nuova èra dell’uomo sopramentale. Ebbene, a me mancava la parte iniziale, cioè non avevo per nulla messo a fuoco come fosse la mentalità dell’uomo arcaico.
Tale visione aveva iniziato a prendere forma con alcuni studi di linguistica (precisamente: La scrittura e il debito – conflitto tra culture e antropologia di Carlo Sini, L’infinito: un equivoco millenario, Le antiche civiltà del Vicino Oriente e le origini del pensiero greco di Giovanni Semerano) di cui ti avevo accennato confusamente ma che trovano ora piena consapevolezza da quanto mi hai fatto intravedere. Per me è di fondamentale importanza il recupero di un linguaggio arcaico e simbolico, da un parte per una più piena comprensione e ispirazione dei testi antichi tradizionali e dall’altra per elaborare meglio quello che sarà il linguaggio del futuro.
Io vengo da una cultura molto razionale, sono un informatico che ama la scienza dell’Informazione e perciò l’approccio razionale è stato il primo che ho recepito dalla cultura hindu. Ora però comprendo la necessità di esprimermi e di studiare su differenti livelli, tra cui quello simbolico e intuitivo che è fondamentale.
Anche per questo motivo aria nuova mi incuriosisce molto. I vostri lavori sembrano seguire diverse strade e quindi diversi linguaggi. Sul vostro sito ho visto articoli sul sociale, riferimenti ai tuoi lavori teatrali, alla poesia, al cinema e alla teoria del linguaggio.
Pubblichiamo qui di seguito lo scambio intercorso tra un lettore del libro, tale Sig. Piero Nigra, e il suo Autore. Ci sembra che alcuni argomenti possano essere di pubblico interesse.
[Tommaso Iorco:] Gentile Sig. Piero Nigra,
desidero ringraziarLa per la lettura del libro Dai Veda a Kalki, nonché per le osservazioni fatte su di esso.
Mi pare pertanto opportuno (sperando di farLe cosa gradita) condividere con Lei alcune riflessioni, che inserirò nel corpo stesso della Sua mail, qui in basso riportata.
[Piero Nigra:] Stimata associazione aria nuova,
ho letto il libro “Dai Veda a Kalki” di Tommaso Iorco e, come eravamo intesi, mi sono permesso di farvi sapere le mie impressioni.
Certamente non sono all’altezza di fare una vera critica letteraria (né sarebbe mio desiderio farla), perciò perdonatemi se non mi soffermo abbastanza sui meriti didattici e stilistici dell’autore. Il libro è comunque una miniera di informazioni storiche e filosofiche che possono far comprendere, anche a un profano come me, l’evoluzione spirituale e culturale dell’India. Il testo tratta temi indubbiamente profondi e complessi, adatti a un pubblico specifico, tuttavia risultano abbastanza recepibili anche ai non specialisti (tra i quali mi annovero ovviamente anch’io).
[T.I.:] Questa è effettivamente una qualità che molti hanno riconosciuto al libro, ed è esattamente l’obiettivo che mi ero proposto: risultare comprensibile a tutti i potenziali lettori, senza tuttavia banalizzare i temi volta per volta trattati, vale a dire senza mai cadere in quel semplicismo tanto di moda in ambienti new-age e che personalmente non gradisco.
[P.N.:] Il modo di esporre gli argomenti è coinvolgente e in ogni parte del libro si può notare facilmente come l'autore evidenzi continuamente, e con tenacia, un disegno ineluttabile della natura, che vede l’India come centro gravitazionale dell’auspicato cambiamento. Devo dire che ho seguito con difficoltà la terminologia della lingua indiana: alcune parole o frasi sono dei veri scioglilingua e non penso che potranno entrare facilmente nel mio profondo subconscio. Per la verità non avevo mai pensato all’India come la culla della civiltà umana e, addirittura, come il punto di partenza della riscossa dell’umanità, per innalzarla a mete divine.
[T.I.:] Mi permetta un paio di precisazioni in merito.
Anzitutto, sull’India come culla della civiltà umana (o, forse, con maggiore precisione, dovremmo dire della civiltà indoeuropea, una cui deformazione della quale si sta imponendo nel mondo intero — mi riferisco, ovviamente, all’attuale ‘civiltà dei consumi’, iniziata in Europa con l’avvento dell’industrializzazione, portata al suo parossismo negli Stati Uniti d’America, e che sempre più viene esportata, o meglio imposta, pressoché in tutto il mondo con barbara arroganza e spudorata ipocrisia). Non mi sorprende affatto che Lei non abbia mai pensato di attribuire all’India tale merito, giacché la stragrande maggioranza dei libri di indologia che circolano in Occidente — da quelli specializzati in materia, fino ad arrivare ai dizionari, ai compendi e ai libri divulgativi — non ne parlano, oppure propongono teorie faziose inventate di sana pianta miranti a collocare le radici della civiltà in Europa e nel vicino Medio Oriente. Non mi pare il caso soffermarmi su questo punto, e sulle sue motivazioni scioviniste (sufficientemente trattate, credo, nell’introduzione del libro in questione), tuttavia è utile fare una riflessione sull’abilità del presente ‘ordine costituito’ a deformare o tenere celate talune importanti (ma oltremodo scomode) scoperte perfino a individui sagaci e intelligenti come Lei, liberi pensatori non disposti a accettare a priori verità più o meno conclamate. Questo la dice lunga sul potere mediatico e sulla precisa volontà di veicolarlo faziosamente al fine di offrire una nuova inquietante versione della vecchia visione tolemaica di un mondo piatto, uniforme, statico.
Una seconda precisazione va poi fatta in merito all’affermazione che Lei mi attribuisce circa l’ineluttabilità del disegno della natura che, per citarla testualmente, «vede l’India come centro gravitazionale dell’auspicato cambiamento». Francamente, devo confessarLe la mia incertezza in proposito — non so dire se l’India sia effettivamente destinata a avere tale ruolo centrale. Quel che so è che la civiltà greco-romana ha preso nascita da quelle sorgenti, creandosi poi un suo percorso peculiare. Nel passato, partendo da queste fondamenta, alcuni popoli dell’area del Mediterraneo hanno saputo innalzare, grazie all’apporto personalissimo conferito, edifici culturali raffinatissimi e degni di tutto rispetto. Mi riferisco, ad esempio, ai celti, ai greci, agli arabi. Non si può dire la stessa cosa oggi, con la presente ‘civiltà’ occidentale (perfino gli antichi romani avrebbero qualche seria difficoltà a riconoscervi — senza provare un forte disgusto — una qualche filiazione con la loro civiltà, se si eccettua il periodo di fine impero, ormai votato tragicamente alla fine, al pari di un edificio fatiscente che l’incuria ha reso inservibile). Perciò, lo scopo del mio libro voleva essere, in primis, quello di offrire al lettore alcune informazioni che potessero essere spunti per una riflessione sul modello di civiltà attualmente imperante, che io definirei più propriamente una barbarie imbellettata. Considerazioni analoghe, tuttavia, potrei farle per l’attuale situazione indiana. Nella stessa India, madre di tale elevatissima e nobile cultura, è avvenuta una decadenza dalla quale essa sta cercando di risollevarsi con fatica. Ma ci sono due modi affatto diversi di alzarsi e di rimettersi in cammino, e l’India di oggi mi pare davanti a un bivio cruciale: da una parte, la mirabile sfida a rivitalizzare le proprie radici e dare nascita a una nuova forma di cultura (adeguata ai nostri tempi) che possa essere di esempio per il mondo intero; dall’altro, il pericolo fatale di una volgare imitazione del modello occidentale ormai alla deriva. Il mio auspicio, ovviamente, è che possa realizzarsi la prima ipotesi, tuttavia non sono in grado di prevedere con certezza quale strada effettivamente prenderà. Essendo per vocazione un poeta, ho talvolta — per grazia degli dèi — il dono della veggenza, non quello della preveggenza, purtroppo.
[P.N.:] Siccome sono abituato a esprimermi con sincerità, evitando mielose ipocrisie, cercherò ora di esprimere le sensazioni reali indotte su di me dai contenuti del libro, fornendo una mia interpretazione (per quanto limitata possa essere) su quanto sono riuscito ad afferrare.
Durante la lettura, soprattutto nella sua fase finale, uno (uno come me, s'intende) si aspetterebbe che da un momento all’altro l’autore sviluppi una sorta di manuale d’istruzioni, per far sì che ognuno di noi possa facilmente trasformare la sua mente in una sopramente, un singolo essere umano in un componente di una specie divina. Questa sensazione permane fino alle ultime parole del libro, lasciando disattesa la soddisfazione di una certa curiosità che è andata accumulandosi, cosicché uno alla fine va a riguardarsi il titolo dell’opera, chiedendosi se non sia Dai Veda a Kalki volume numero uno. Vi assicuro che non intendo fare dell’ironia, perché questa è stata una mia sensazione reale. Ciò non significa che siano assenti le indicazioni necessarie per dare l’impulso iniziale a questa preannunciata rivoluzione individuale e collettiva, ma forse la definizione del messaggio è talmente lapalissiana che io non l’ho trovata perché non l’ho cercata nel posto che magari potrebbe risultare più ovvio. D’altra parte sono descritte in modo dettagliato le sensazioni e le difficoltà di Aurobindo e Mère nel tracciare una via praticabile, così pure sono messi a fuoco gli strumenti utilizzati e gli obiettivi raggiunti e raggiungibili, ma non altrettanto descritto nei particolari è stato il metodo col quale si sono ottenuti o si otterrebbero questi risultati.
[T.I.:] Gentile Sig. Piero, mi lasci dire in tutta franchezza che considero queste Sue affermazioni come le più lusinghiere finora ricevute. E Le assicuro che anch’io, al pari di Lei, non ho alcuna intenzione di fare dell’ironia: il fatto che il mio libro non offra ricette, è voluto, perciò le Sue parole mi sono di conforto e mi fanno constatare con soddisfazione che ho centrato il bersaglio.
L’uomo che noi tutti siamo è, per definizione, un essere mentale — l’unico essere terrestre che abbia sviluppato un certo raziocinio e una sia pur provvisoria coscienza di sé e del mondo tale da permettergli di cercare, da un lato, di modificare l’ambiente circostante (se in bene o in male, è una questione che non è questo il momento di affrontare), dall’altro, di cercare di scrutare dentro di sé, nelle profondità della propria coscienza e della propria psiche. Lo strumento che gli ha permesso di incamminarsi in queste direzioni, è per l’appunto la mente. Orbene, se la prossima tappa evolutiva consiste nello sviluppo di un oltreuomo (non un uomo migliorato, quindi, ma un dopo-uomo), beh, Lei converrà con me che tale passaggio sarà possibile solo sviluppando una coscienza che attualmente l’umanità non conosce ancora, una coscienza che potremmo definire ‘divina’ (se l’aggettivo fosse meno abusato), e che si situa ben al di sopra della mente e dei suoi poteri (finanche considerati al loro apice). Pertanto, io non potevo fare altro, nel mio libro, che fornire, per usare le sue efficaci parole, «le indicazioni necessarie per dare l’impulso iniziale» alla Rivoluzione in atto (non tanto “preannunciata”, quanto IN ATTO: la stiamo vivendo sulla nostra pelle, a livello planetario).
Oltretutto, i manuali — a quel che ne so io — si scrivono per dare indicazioni a chi non conosce una determinata arte o disciplina da parte di chi questa arte o questa disciplina la conosce bene. E questo, in materia di evoluzione sopramentale, me lo lasci dire in tutta franchezza, proprio non rientra nelle mie pretese. Ciò che unicamente posso permettermi di dire con una qualche certezza e cognizione di causa, è che mi pare ovvio e sensato supporre che vi saranno diversi stadi di transizione, diverse tappe fra l’uomo di oggi e l’oltreuomo (o — per usare la terminologia di Sri Aurobindo — fra l’uomo e l’essere sopramentale), così come l’uomo attuale non si è evoluto direttamente dalla scimmia, ma vi è arrivato attraverso una serie di passaggi intermedi che non sono sopravvissuti.
[P.N.:] L’esperienza evolutiva della natura c’insegna che una specie non si trasforma mai in un’altra, se non attraverso cambiamenti che avvengono sempre al di fuori della specie stessa, interessando inizialmente solo un piccolo numero di individui. È su questo nucleo che poggia l’evoluzione di una specie nuova, con caratteristiche dissimili da quella originale. La specie nuova andrebbe infine a sostituire quella vecchia, ma solo se esistesse competizione tra le due specie. In caso contrario si potrebbe stabilire un rapporto di convivenza (o meglio di non belligeranza), dove ognuna delle due specie si adatta a un suo habitat particolare. Tenuto conto che la specie umana attuale e quella futura avrebbero due modi completamente diversi di adattamento (sinteticamente ora è l’anima a nutrire il corpo, a cambiamento avvenuto sarà il corpo a nutrire l’anima), è ragionevole pensare che non ci sarà conflitto tra le due specie, permettendo una qualche convivenza in habitat separati. In realtà i conflitti ci sarebbero ed enormi, semplicemente perché la vecchia specie sta mettendo a repentaglio ogni ambiente di adattamento terrestre, togliendo spazio vitale a qualsiasi specie futura (ma anche a se stessa). In natura è possibile evitare un conflitto con altre specie o con altri gruppi della stessa specie, semplicemente spostandosi in uno spazio ancora disponibile. È facilmente ipotizzabile che questo non potrà avvenire tra la vecchia specie umana, ancorata alla sua individualità materiale, e quella nuova, immersa nella sua totalità spirituale, di conseguenza la macchia della nostra civiltà competitiva dovrà sparire senza lasciare ‘aloni’, per far posto a un’umanità perfettamente integrata con la natura, unica rappresentante del genere Homo.
[T.I.:] In parte queste sue osservazioni perdono di efficacia se si rivela esatta l’esperienza cui faccio riferimento, tendente a mostrare che l’essere sopramentale non apparterrà più al genere Homo.
Per quanto riguarda invece la convivenza fra uomini ed esseri sopramentali, oppure l’estinzione dell’uno che lascerebbe il posto all’altro, ciò attiene a questioni di ordine assolutamente pragmatico che ci riguardano tutti da vicino (perciò mi interessano particolarmente). La conclusione pratica alla quale sono giunto, è che l’uomo, se non si decide a intraprendere un cammino consapevole e sincero verso una presa di coscienza dei propri limiti, con il conseguente avvio di una trasformazione di sé il più possibile radicale, finirà per autodistruggersi. In mezzo a questa autodistruzione, probabilmente, sopravviverà qualche individuo che, nel frattempo, avrà sviluppato in sé le necessarie facoltà che gli permetteranno di sopravvivere e dare inizio a qualcosa di nuovo, di ignoto, di imprevedibile — un primo passo verso l’essere sopramentale, cui ne faranno seguito altri. Non so se Le sembra una ipotesi fantascientifica e troppo fantasiosa, ma questo è quanto mi suggerisce il mio sentire più intimo.
[P.N.:] L’ascesa evolutiva dall’incoscienza alla sovracoscienza, contenuta tra i due estremi materia e spirito, è definita controproducente se ottenuta individualmente, in modo isolato da un’azione collettiva, che funzione avrebbe allora il contagio da individuo a individuo delle esperienze di Aurobindo e la sua consorte? In pratica, la nuova specie si svilupperà sul nostro pianeta così come un embrione cresce nel grembo materno, ossia accrescendo lentamente un nucleo originario al riparo delle turbolenze esterne, oppure prenderà il posto, senza colpo ferire, di un sistema umano che cadrà inevitabilmente in modo repentino? In natura i cambiamenti rapidi e traumatici avvengono con una certa frequenza: ad esempio un’eruzione vulcanica, un terremoto, un tornado, l’onda anomala di uno ‘tsunami’, una grossa meteora che cade sulla superficie della Terra o, addirittura, disastri ecologici provocati dall’uomo, possono modificare radicalmente le caratteristiche ambientali di vaste aree planetarie. Una qualsiasi specie vivente può approfittare di queste nuove opportunità per prosperare ai danni di un’altra, diffondendosi come mai avrebbe potuto fare in assenza di quell’evento. Resta il fatto, però, che la diffusione repentina di una specie non modifica affatto le sue caratteristiche genetiche, che potrebbero mutare solo con un ritmo lentissimo. La nostra civiltà porta effettivamente dentro di sé i germi dell’autodistruzione, ma una nuova specie umana potrà prendere il suo posto, solo se sarebbe già presente allo stato embrionale e in grado di diffondersi. Questo embrione potrebbe crescere lentamente e assorbire energia dal corpo della vecchia specie, parassitandola fino al suo completo esaurimento, oppure approfittare di una sua morte repentina per conquistarne in breve tempo lo spazio di adattamento. Entrambe le soluzioni sono possibili, ma una cosa è certa e indispensabile: la separazione fisica tra una specie e l’altra. In qualunque cosa e in qualsiasi effetto possa consistere la trasformazione sopramentale di un individuo, egli non potrà continuare a vivere integrato coi meccanismi di questo sistema e sarà costretto ad uscirne per associarsi ad altre esperienze similari alla sua. Il contagio, a questo punto, non sarebbe un traguardo ma l’inizio di un processo che potrà dirsi concluso quando l’umanità sulla Terra sarà un unico corpo materiale e spirituale.
[T.I.:] Tutto sommato, io non me la sento di definire “controproducente” una qualunque ascesa evolutiva individuale. Ogni tentativo di elevarsi spiritualmente è qualcosa di ammirevole in sé. La questione è piuttosto se tale ascesa viene fatta in modo negativo, ovvero rigettando la materia e l’energia vitale e la stessa mente come stampelle provvisorie per evadere nel puro cielo spirituale, oppure se si intende far discendere la più alta coscienza divina nella materia e nella vita e nella mente in modo da operare una trasformazione che è per forza di cose individuale, ma che ha inevitabili ripercussioni sull’insieme (ed ecco la funzione del contagio, che nell’esperienza di Mère assume importanza fondamentale, arrivando per l’appunto a contagiare la struttura materiale dell’esistenza). Mi paiono due strade ben diverse, sia nel loro percorso, sia nei risultati finali. Non sta a me dire quale delle due sia la migliore in assoluto — l’unica cosa che posso dire, è che ognuno è libero di seguire la strada che esercita su di lui maggiore attrazione, e in tal senso il percorso a me più consono è indubbiamente quello che tende a una trasformazione della materia.
Per il resto, seguo perfettamente il filo logico del Suo discorso, dipanato con grande chiarezza e acume.
[P.N.:] Parlare di nuova specie umana potrebbe essere improprio, dal momento che non saranno mutazioni genetiche che caratterizzeranno la differenza con la vecchia specie. Nella bozza che vi avevo inviato avevo sinteticamente cercato di spiegare perché l’uomo è arrivato al capolinea delle possibili mutazioni genetiche, che impedirebbero ad esempio a una razza di trasformarsi in specie separata, tuttavia è corretto parlare di salto evolutivo, o di passaggio della nostra specie a un livello superiore. L’essere umano è la punta più evoluta dei livelli sistemici pluricellulare e sociale e l’unico salto evolutivo sarà possibile con l’avvio al processo che porterà al livello sistemico federativo. Solo quando l’umanità sarà formata interamente da federazioni di gruppi sociali (sistema planetario) potremo definirla una nuova specie. Non stiamo parlando di cose diverse, perché un profondo cambiamento della mente e della coscienza, o se vogliamo l’ascesa della nostra spiritualità, necessitano di un supporto materiale e strutturale che non si limita al solo nostro corpo. La materia è l’involucro di un’informazione in essa contenuta: è per mezzo di questo sostegno esterno che l’informazione può viaggiare nello spazio e nel tempo e può evolversi. La mente e la coscienza non sono esse stesse veicoli d’informazione? Il sistema federativo sarà il contenitore e il sostegno di questa nuova informazione, che permetterà di creare un ponte tra il nostro inconscio animale e quella coscienza divina che, come abbiamo dedotto, si potrà concretizzare solo nel collettivo. Del resto se la natura ha scelto fin dall’inizio di procedere nel suo cammino evolutivo organizzandosi in sistemi di complessità crescente, non possiamo ignorare questo dato di fatto. Non solo l’uomo è un essere di transizione, ma anche la nuova specie umana lo sarà. Il nostro pianeta diventerà un singolo atomo di complesse molecole galattiche e poi ancora oltre.
[T.I.:] Qui la questione si fa decisamente più complessa, per cui mi riesce difficile risponderLe in uno spazio ragionevolmente ridotto. Inoltre, e soprattutto, quando il discorso slitta su argomentazioni così raffinate da entrare nel campo della speculazione, esse perdono per me ogni attrattiva e interesse. Con ciò non voglio affatto dire che sono questioni inutili o vane in sé; è più semplicemente la constatazione di un mio limite personale: per temperamento, non le trovo stimolanti, e quindi La prego di scusarmi se non le affronterò. Forse in ciò mi ostacola il mio stesso nome, Tommaso, che è l’appropriato sinonimo di quanti non si soddisfano di credere a priori, ma che vogliono TOCCARE CON MANO. Mi lasci aggiungere, concedendomi una digressione, che non ho mai capito perché diavolo hanno accusato l’apostolo Tommaso di incredulità: il suo mi sembra l’unico gesto sensato che si possa fare... ad ogni modo, avrei fatto anch’io la stessa cosa, a dispetto del noli me tangere.
Congetturare come sarà la nuova specie, se potrà essere biologicamente diversa dalle specie finora succedutesi sulla terra nel corso dell’evoluzione, se sarà dotata di caratteristiche speciali e così via, sono questioni che lascio volentieri a Madre Natura. Ciò che mi preme, è che noi si prenda coscienza dell’assoluta novità della presente crisi planetaria, che è una crisi di transizione evolutiva, e che il salto infine si produca.
Analogamente, il sistema federativo che Lei indica potrebbe verosimilmente costituire un passaggio, magari un passaggio obbligato, ma potrebbe anche verificarsi qualcosa che con la nostra ratio non possiamo prevedere e che sovvertirà tutti i nostri valori e l’intera logica umana.
[P.N.:] L’inganno della cultura è che possiamo esprimere lo stesso pensiero in forme diverse, col rischio di trasformare involontariamente una forma astratta in un contenuto sostanziale o viceversa. Il pregiudizio e la presunzione danno un buon contributo a questo lavoro, il tempo e le distanze faranno il resto. A volte diamo per scontato un concetto solo perché è alla base della nostra cultura, come ad esempio la risurrezione in occidente e la reincarnazione in oriente, eppure traggono spunto entrambe dalla fede in un’anima immortale.
La definizione stessa dell’anima ha subito un’evoluzione attraverso il tempo e le culture, quindi sarebbe un fondamento instabile per costruirci sopra un grattacielo, a meno che tutte quante le culture possano convenire a un punto d’incontro comune, risalendo al suo significato originario. Non voglio certo atteggiarmi a esperto della questione, perché non lo sono per nulla, e neppure ho una buona conoscenza dei libri sacri indiani, però vorrei comunque esporre le mie considerazioni da profano. I testi Veda non fanno menzione diretta della reincarnazione, ma i due esempi vedici che Tommaso Iorco ha citato come asserzione indiretta della metempsicosi, mi hanno portato a una conclusione un po’ diversa. Cito testualmente i due passi tratti dal Rig Veda: «vecchio e consunto, l’uomo ritorna giovane ancora e ancora» (II.4.5). «Sin da quando ero nella matrice, conoscevo le generazioni degli dei. Cento fortezze di bronzo mi trattenevano, ma io ne sono uscito con rapido volo, alla maniera di un falco» (IV.27.1). Questi versi mi richiamano alla mente, più che la credenza alla reincarnazione, un pensiero ancora più stupefacente: un riferimento al nostro codice genetico! A riprova che la cultura orientale ha influenzato (a più riprese) l’occidente, tale riferimento si può trovare anche nella Bibbia, in un passo che Davide rivolgerebbe a Dio: «Sei tu che hai creato le mie viscere e mi hai tessuto nel seno di mia madre. Ti lodo perché mi hai fatto come un prodigio; sono stupende le tue opere, tu mi conosci fino in fondo. Non ti erano nascoste le mie ossa quando venivo formato nel segreto, intessuto nelle profondità della terra. Ancora informe mi hanno visto i tuoi occhi e tutto era scritto nel tuo libro; i miei giorni erano fissati, quando ancora non ne esisteva uno» (Salmi 139: 13-16). Questa è una chiara allusione a un codice (genetico) scritto prima della nascita, “un Unico sé che abita in tutte le creature”, un filo che tiene uniti tutti gli esseri viventi tra loro, uomo compreso. A questo punto diventa più semplice immaginare come l’anima di un individuo sia parte dell’anima dell’umanità e dell’anima di tutti gli esseri viventi. La cosa non finisce qui, perché il filamento di DNA è solo l’involucro esterno dell’informazione che contiene, una semplice struttura chimica per veicolarla, ma l’informazione è presente anche nei diversi livelli della materia inanimata. Ecco allora che tutta l’informazione contenuta nell’universo diventa l’anima della natura, che è dentro a ognuna delle sue più piccole parti, cioè dentro noi umani e in tutti gli esseri viventi e non viventi; nello stesso tempo la nostra anima è contenuta nell’anima stessa della natura. Con questo metro di misura possiamo dedurre che ogni nuova nascita è la reincarnazione di un’informazione ricombinata dei due genitori. Se il discorso può filare, allora non è necessaria la morte dell’individuo, affinché la sua anima trasmigri in un altro corpo. In questo modo si può anche affermare che l’anima é immortale, nel senso che l’informazione originaria (chissà se nata col grande scoppio o se già esisteva) è arrivata fino a noi e continuerà a tempo indefinito. L’informazione (l’anima) è legata alla presenza stessa della materia e la sua evoluzione è quindi il divenire dell’anima dell’universo. La nostra mente inconscia, la parte animale, istintiva, sarebbe l’anima dei nostri genitori che si è reincarnata in noi, mentre la nostra coscienza é l’anima che assorbiamo dalla natura attraverso l’apprendimento. Così una sopramente e una sopracoscienza sarebbero null’altro che il risultato del nostro controllo totale sulle pulsioni che ci arrivano dal profondo subconscio, ossia la dominazione dell’anima culturale sull’anima reincarnata. Si potrebbe continuare di questo passo sostituendo la parola anima con la parola informazione, gli effetti sarebbero gli stessi. Probabilmente una verità semplice è stata elaborata e ritualizzata macchinosamente da renderla irriconoscibile, dando così spazio alla deriva teologica autoritaria e innaturale. Mi pare saggio e appropriato il consiglio di Tommaso Iorco, che a questo proposito faccio mio: «In definitiva il materialismo si rivela come il miglior antidoto contro il pernicioso diffondersi di superstizioni, contro l’assopimento dogmatico e contro l’arrogante strapotere dei preti e delle chiese».
Questo modo di procedere non sconvolge in ogni modo il senso del libro né il concetto dell’India nel disegno terrestre.
Spero che nel tentativo di dare alla vita un senso più semplice in realtà non abbia aggiunto confusione. È così?
[T.I.:] Queste Sue ultime riflessioni mi ricordano alcune ipotesi proposte da taluni avamposti della ricerca scientifica più recente, espresse dai cosiddetti ‘filosofi della scienza’. Personalmente nutro qua e là qualche serio dubbio, ma credo sia giusto che ognuno maturi le considerazioni che ritiene più ragionevoli e sensate. Quel che Le posso dire è che la coscienza sopramentale, nell’accezione data da chi questo termine lo ha coniato, ovvero Sri Aurobindo, mi pare radicalmente altra cosa rispetto a quanto Lei suppone. Nulla di male, intendiamoci — lo dico solo per dovere di precisazione.
[P.N.:] Un saluto sincero.
Piero Nigra
[T.I.:] Ricambio il saluto con altrettanta sincerità e Le auguro ogni bene, ringraziandoLa per aver voluto farmi condividere le Sue valutazioni su questa mia opera.
Cordialmente,
Tommaso Iorco